L’analisi della vita, delle opere e della poetica di Yayoi Kusama meritava secondo Fabriano un intero capitolo, per la precisione il secondo: egli la riteneva dunque come un caposaldo dell’arte giapponese del Novecento e anche una delle voci più importanti del panorama artistico mondiale di questo scorcio del XXI secolo.
Innanzitutto, il pensiero è andato amorevolmente alla mia nonnina Rosa, un’arzillissima signora di quasi ottantacinque anni, quindi nata nel 1925. Perchè? Perchè la Kusama potrebbe benissimo essere mia nonna! Nata nel 1929, fa ormai parte della folta schiera di giapponesi ottuagenari. Eppure, a vederla non dimostra affatto la sua venerabile età: almeno, non tanto quanto una normale nonnina nostrale, com’è nonna Rosa che pure è in gran forma. Non solo, come buona parte dei nipponici, il suo fisico regge in maniera eccezionale l’imperturbabile trascorrere degli anni, per cui a vederla un’occidentale potrebbe darle meno, molti meno, anni. Ma, soprattutto, ella mostra una tale esplosione di gioiosa vitalità che è vera dimostrazione del ben noto assunto che un conto è l’età biologica e un conto è l’età psichica; ovvero si può essere giovani nella testa in un corpo attempato, come è vero il contrario.
Nelle ultimisse foto che la ritraggono la Kusama si mostra ben truccata, con in testa un casco di capelli liscissimi di un rosso aranciato brillantissimo, vestita di ampi e lunghi abiti anch’essi di tinta vermiglia, decorati da grandi pois bianchi di varie misure. La scelta di questo motivo ornamentale, quello dei pois, non è per la Kusama una moda passeggera, il capriccio recente di un personaggio molto noto in ambito artistico. I pois sono infatti una delle sue cifre stilistiche più peculiari.
Si è conservato un suo disegno a matita su carta del 1939 circa, quando lei aveva perciò solo una decina di anni, in cui è raffigurata una giovane donna a mezzo busto, probabilmente un autoritratto. Il capo leggermente
reclinato, i capelli sciolti, gli occhi chiusi, lo sfondo delineato a tratti veloci: un disegno si direbbe romantico, simile ai tanti che alcune ragazzine di quell’età fanno solitamente, così, per divertirsi. Se non che, sull’intero foglio compaiono moltissimi cerchietti irregolari, sullo sfondo, sull’abito e, inquietantemente, anche sul volto e sul collo della ragazza.
I pois dunque fanno la loro apparizione fin dai precocissimi esordi artistici della Kusama. E non l’abbandoneranno più, fino a oggi. Così come le “Reti”. Anzi, quest’ultime sono state il soggetto prediletto dall’artista nel suo periodo newyorkese, negli anni Sessanta del Novecento. Trasferitasi negli Stati Uniti nel 1958, la Kusama si impose fin da subito per l’originalità delle sue opere e per la sua personalità eccentrica. Nei primi anni, prima che volgesse la sua attenzione decisamente alla realizzazione di performance con forti connotazioni sessuali e di protesta politica, si fece notare per l’appunto per i suoi enormi monocromi punteggiati maniacalmente da una infinità di tratti da lei certosinamente disposti sulla superficie, a formare per l’appunto le “Infinity-Nets”.
Ora, non sono pochi gli artisti del Novecento che hanno ‘ridotto’ il loro percorso artistico alla riproposizione di un singolo motivo, su ogni tipo di supporto, in varie dimensioni, per molte varianti cromatiche. In questo momento mi viene in mente, ad esempio, Giuseppe Capogrossi con le sue ‘forchette’, autore per anni e anni, per tutta la sua carriera di opere in cui il suo segno si ripresentava identico eppure sempre diverso. Nell’arte giapponese tradizionale, anche, molte tecniche prevedevano la riproposizione di uno stesso segno, oppure di uno stesso gesto, o meglio di un gesto che in serie dà vita al segno: la tecnica della decorazione su lacca della “pittura cosparsa” (maki-e), ad esempio, prevede che il gesto dello spruzzare – attraverso una sezione di fusto di bambù – le polveri dorate sulla superficie verniciata ancora fresca sia ripetuto fino a formare un tappeto di segni, di forte impatto formale. La Kusama mi ricorda per certi versi i pazienti laccatori. Tuttavia, tra il gesto di quest’ultimi e quello di Yayoi c’è una differenza fondamentale, che riguarda la vicenda biografica dell’artista contemporanea.
Come ella stessa e i suoi biografi hanno più volte raccontato, la Kusama è infatti afflitta, fin dall’infanzia, da una malattia neuropsichiatrica che le impone l’esigenza di isolarsi mentalmente dal mondo che la circonda per ripetere uno stesso gesto infinite volte. Sembra, nel suo caso, che questa sia stata una benedizione più che una malattia. Si racconta infatti che negli anni newyorkesi in cui realizzava gli enormi teleri con le ‘Infinity-nets’, la Kusama potesse stare a lavoro per intere giornate di seguito, senza dormire, né bere né mangiare. Grazie a questa sua patologia potè così dare vita a quella pulsante vibrazione di segni che sono le sue opere. Il suo gesto si ripete analogo, ma mai eguale a se stesso, all’infinito. Una sorta di trance, nella quale – come ha detto la stessa Kusama – “I pois sono una via per l’infinito”. La mostra milanese ha avuto come suo punto di
forza la riproposizione di “Narcissus Garden”, un’opera che la Kusama presentò per la prima volta nel 1966 a Venezia in occasione della XXXIII Biennale di quell’anno. Allora l’artista giapponese, che già si era fatta notare a New York, era entrata nelle grazie di Lucio Fontana, personaggio di svolta dell’arte concettuale internazionale. Grazie alla benedizione di Fontana e al supporto economico di Renato Cardazzo, titolare della Galleria d’Arte del Naviglio, la Kusama potè disporre di un ampio spazio all’aperto per sistemare diverse centinaia di sfere in metallo
riflettente del diametro di 30 cm. ognuna. Ovvio il riferimento ai ‘pois’; spiegato così anche il titolo; lo scandalo maggiore provocato da questa installazione avvenne subito dopo la conclusione dei lavori per sistemare le palle, nel momento in cui Yayoi cominciò con insistenza a chiedere ai passanti di acquistare le sfere. La polizia, mobilitata, intervenne e l’artista dovette smettere la sua performance, non prima però di aver rilasciato una serie di interviste che avrebbero per sempre consacrato la sua opera. Si trattava di una provocazione mai prima vista. In uno dei templi dell’arte contemporanea, Venezia, un’artista osava accusare il sistema dell’arte, in cui sono le tendenze del mercato a guidare il gusto, non la qualità e l’originalità delle opere. Un’intuizione eccezionale e precocissima che avrebbe annodato strettamente il destino tra la Kusama e l’Italia.
Nella mostra milanese del 2010 si è rivisto il ‘Narcissus Garden’: l’ambientazione e l’effetto non erano gli stessi; il concetto, però, quello rimane, perchè non molto nel rapporto denaro-arte da allora è cambiato, a stimolare le riflessioni e il ricordo per l’opera di un’artista, Yayoi Kusama, che ancora oggi ha moltissimo da dire.