Durante il mio viaggio a New York, nel giugno del 2024, ho avuto l’opportunità di visitare alcuni musei, tra le più importanti istituzioni culturali degli Stati Uniti.
Il Metropolitan ovviamente, al quale ho dedicato un’intera giornata, che è appena stata sufficiente a farmi un’idea generale delle collezioni di Asia orientale (Cina, Giappone, Corea, India, area himalayana, sud-est asiatico). Tanto è mostruosamente ricco questo museo che in sette intensissime ore di sublimi visioni, non sono riuscito a mettere neanche il piede nelle altre sezioni (Europa, Americhe, etc…).
Quindi il MoMa, con i suoi celeberrimi capolavori, da Picasso a Van Gogh, da Pollock a Rotchko, inutile anche solo tentare di farne un elenco. Voglio solo ricordare la mostra temporanea allestita all’ultimo piano dell’edificio e dedicata a Joan Jonas, un’artista di notevole talento, abile fin dagli anni Sessanta del Novecento nel creare performances in cui video, poesia, danza e grafica contribuiscono parimenti al risultato finale. Per mia indole, non ho potuto fare a meno di notare quanto ella abbia in più occasioni tratto esplicita ispirazione dalla cultura giapponese, in particolare dai teatri Nō e Kabuki.
Breve passaggio anche al Guggenheim. Per carità, il gruppo di opere esposte al suo interno è di grandissima qualità, ma la la visita vale soprattutto per l’edificio, ultimo grande capolavoro di Frank Lloyd Wright, concepito come una spirale ellittica che ambisce quasi all’infinito.
Spettacolare infine l’American Museum of Natural History, tappa praticamente obbligata per chi si reca a New York, ben noto anche grazie a un film di grande successo. Passeggiando tra le sue sale si ha l’impressione di poter tornare bambini, tra meteoriti, dinosauri e diorami iper-realistici.
Tuttavia, se dovessi decidere quale museo mi ha più divertito in questo passaggio a New York, non avrei dubbi.
Rubin Museum.

Guhyasamaja e consorte. Tibet, XV secolo. New York, Rubin Museum.

Sapevo di questo museo per via di libri e del web, e mi ha sempre incuriosito, non solo per la qualità dei suoi pezzi ma anche, soprattutto direi, per la sua storia.
Il Rubin Museum custodisce infatti una raccolta che è stata formata a partire dalla metà degli anni Settanta del Novecento da Shelley e Donald Rubin. I due hanno acquisito con gli anni alcune migliaia di oggetti, decidendo infine e generosamente di metterli a disposizione del pubblico. Il Museo è stato inaugurato nel 2004 nell’edificio che tuttora lo ospita, a Manhattan, zona Chelsea. Contemporaneamente, i due hanno speso energie e elargito ingenti quantità di denaro per una Fondazione che porta il loro nome, le cui attività sono rivolte ad aiutare le popolazioni di area himalayana che ne hanno bisogno.

Durga uccide il demone bufalo. Nepal, XII-XIII secolo. New York, Rubin Museum.

La collezione Rubin è infatti sostanzialmente formata da manufatti provenienti dal Tibet, ai quali si affiancano pregevoli esemplari di arte del Nepal, del Buthan, dell’India, del Pakistan, dell’Afghanistan, della Cina e della Mongolia.
Si tratta prevalentemente di sculture, dipinti e oggetti rituali, databili a un lunghissimo arco temporale che va dal V al XX secolo, per lo più connessi con il Buddhismo.
I manufatti, alcuni dei quali di qualità davvero strepitosa, sono esposti sui quattro piani in cui si sviluppa il percorso. Pochi, in verità, ma sistemati in un allestimento semplice che ne esalta la bellezza.
Secondo una pratica ormai diffusissima, anche il Rubin Museum ha scelto di alternare alle opere antiche alcuni spunti contemporanei.
Mi sono piaciuti in particolare i video di Lu Yang, una giovane artista originaria di Shanghai che lavora soprattuto in Giappone. L’opera, intitolata Binary Wheel, è concepita come una sorta di videogioco, con musica, scenari e dettagli grafici di grandissimo impatto emozionale. Il tema è quello della Ruota del Buddhismo, ovvero del perpetuo alternarsi di vita, morte e rinascita.

Mahachakra Vajrapani. Cina, XV secolo. New York, Rubin Museum.

Ho visitato il Rubin di venerdì, poiché è il giorno in cui la chiusura è posticipata alle 22, l’ingresso è gratuito e il bar a piano terra è aperto con un vivace djset. Simpatica occasione, direi.
Non so se riuscirò nel futuro a vedere ancora le opere conservate in questo notevole scrigno di tesori d’arte.
Il museo infatti chiuderà definitivamente nell’ottobre di questo 2024.
Sul sito si annuncia questa decisione come frutto dell’attuale situazione globale tutt’altro che favorevole. Il suo futuro rimarrà prevalentemente nell’ambito del virtuale, mentre già si preannunciano iniziative itineranti, come mostre e conferenze.
Non so quanto questa decisione sia soprattutto legata a questioni economiche, ma posso capire, anche se scelte di questo genere mi intristiscono molto, poiché a me continua a essere indispensabile il confronto diretto con l’opera d’arte, che certo esprime al meglio il suo potenziale nella reale tridimensionalità.
Tuttavia, sono molto contento di essere riuscito a visitarlo almeno per una volta dal vivo, e il suo ricordo rimarrà per sempre impresso nella mia memoria.

La dea Marichi. Mongolia, stile di Zanabazar, fine XVII-inizio XVIII secolo. New York, Rubin Museum.