È una delle stampe più belle dell’Ukiyo-e, le “immagini del mondo fluttuante”, quel genere artistico che fiorì in Giappone a partire dall’inizio del XVII secolo.
È una delle opere più riuscite di Kitagawa Utamaro (1753-1806), uno degli artisti più notevoli nella storia delle arti giapponesi.
È una delle immagini più iconiche che siano state concepite per descrivere quel momento irripetibile, quell’attimo di assoluta elevazione spirituale, quel tripudio di sensi, che solo può scaturire dall’incontro di due anime elette, un culmine dell’Erotismo.
Il taglio con cui Utamaro ha costruito questa scena è eccezionale.
Due figure, un uomo e una donna, entrambi sdraiati, l’uno di fronte all’altra. La donna offre allo spettatore le spalle sensuali. L’abito, si percepisce, è quasi del tutto aperto sul davanti; non aderisce più al corpo, come dovrebbe, poiché l’obi – la fascia di tessuto che serve da cintura, in questo caso a fondo rosso con ornato di fiori stilizzati entro intrecci a catena in giallo – non è più annodato, visibilmente. Il sovra-kimono in garza nera a decoro di tratteggi a griglia è sollevato fin verso la vita, cade in parte sulle spalle e si sparge sul pavimento. Anche la sottoveste rossa l’accompagna, in un morbido movimento di pieghe composte, per conseguenza della gamba sinistra della donna sollevata e piegata al ginocchio.
Le natiche tondeggianti esposte, curve perfette, linee virtuose che dal basso salgono in su per poi inarcarsi rilassate ad avvinghiare le cosce dell’uomo.
Un leggero tessuto copre parte di questo viluppo voluttuoso di arti. A fondo grigio, sulla sua superficie si disseminano minuscoli pois: nel connubio tra questi e la vaghezza del colore di fondo, filtra una luce diffusa, un riflesso di carni che si fa velatura.
Iki, così vuole l’estetica giapponese. Nel movimento moderato, nelle cromie pacate, nei gesti misurati, nell’afflato, nella consonanza.
Grigio è anche il kimono dell’uomo, sul quale si dispone una sequenza di incastri geometrici a riserva.
Oltre le due figure, sul fondo, la parete mobile shōji si spalanca su un accenno di giardino abitato da un arbusto nel pieno del suo verdeggiare estivo.
Sul margine destro, posati sul tatami, alcuni contenitori per cibo e bevande che serviranno – forse – ai due amanti per rifocillarsi.
Se ne avranno tempo, quando ne avranno voglia, se riusciranno a interrompere quel momento di sublime esaltazione.
Si baciano.
Si baciano in una passione delicata, temperata nei gesti, enfatica nella posa.
Il collo esile e slanciato della donna, la sua nuca armoniosa sulla quale si posano due ciuffetti dei capelli, sistemati in un’acconciatura preparata a dovere per l’occasione di quell’incontro, elaborata in nodi, pieghe e chignon tra i quali si inseriscono in precario equilibrio un pettine in lacca dorata e due spilloni.
Con la mano sinistra ella accarezza la mandibola dell’uomo che, da parte sua, posa la sua di mano sinistra sul collo elastico di lei.
I due si guardano di uno sguardo intenso, l’occhio destro, affusolato dell’uomo si vede spuntare appena sotto i capelli di lei.
Sul ventaglio pieghevole aperto al centro della composizione, si dispone in elegante calligrafia una poesia di tipo kyōka:
“Nella conchiglia,
il suo becco è catturato senza poterne uscire:
il beccaccino
non può volare via,
una sera d’autunno”
I versi – suggestiva allusione all’atto sessuale, non v’è dubbio – sono firmati da Yadoya Meshimori (1754-1830), un noto poeta del tempo. Curiosamente, ma non casualmente, meshimori è anche un termine utilizzato per identificare quelle inservienti a lavoro presso le cosiddette Case Verdi, gli alloggi dove si esercitava la prostituzione, che potevano esse stesse offrire il loro corpo agli avventori.
Questa straordinaria stampa fa parte di un libro illustrato pubblicato nel 1788. Il volume si compone di dodici immagini alle quali si aggiunge un’introduzione. In questo testo si fa esplicito riferimento al piacere dell’atto amoroso, attraverso sofisticate citazioni di opere letterarie del passato, tra le quali l’Ise monogatari (“Il racconto di Ise”), una selezione di poesie di tipo waka raccordate da brani in prosa, tradizionalmente attribuito a Ariwara no Narihira (825-880), i versi dell’abate Henjō (816-890), uno dei Sei Poeti Immortali (Rokkasen) e il Makura no sōshi (“Note del guanciale”), celeberrimo zibaldone scritto dalla dama di corte Sei Shōnagon tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo.
Quest’ultimo capolavoro della letteratura giapponese di tutti i tempi è richiamato anche nel titolo del libro illustrato in cui compare la stampa con i due amanti: Utamakura, “Ode del guanciale”.
Il primo carattere Uta di cui si compone Utamakura è inoltre lo stesso con cui inizia il nome di Utamaro. Non casualmente. I fogli di questo volume non sono infatti firmati, secondo una pratica molto diffusa ai tempi. Si voleva così eludere la rigida censura governativa, che era a volte implacabile in materia di rispetto del pubblico pudore. Per non incorrere in rischi concreti, dunque, nel caso dell’Utamakura, il nome del suo autore è discretamente celato tra giochi di parole, di più non si poteva.
Lo scopo dell’amministratore era quindi quello di arginare la pubblicazione di stampe sciolte e libretti di esplicito carattere sessuale. Tuttavia, grazie all’espediente dell’anonimato, le shunga, letteralmente “immagini della primavera”, continuarono costantemente a essere immesse sul mercato, anche se in maniera non ufficiale, bensì clandestinamente. Se una parte di questa produzione pornografica era caratterizzata da una qualità non elevata, un’altra parte aveva invece tutte le caratteristiche dell’opera d’arte. Alla realizzazione di shunga, molto remunerative dal punto di vista economico, vi si dedicavano infatti i migliori artisti dell’Ukiyo-e. Non solo Utamaro, ma anche Suzuki Harunobu (1725-1770) e Katsushika Hokusai (1760-1849), solo per citare due altri giganti di questo genere artistico, si dedicarono spesso a produrre composizioni di tema erotico, incise e stampate dai più affermati editori del tempo.
L’Utamakura è stato commissionato e promosso da Tsutaya Jūzaburō (1750-1797), uno dei più lungimiranti imprenditori del suo tempo, scopritore di talenti indiscussi quali lo stesso Utamaro e l’enigmatico Tōshūsai Sharaku (attivo 1794-1795). Il suo sigillo naturalmente non compare in alcun modo nel volume Tuttavia, proprio nella stampa con i due amanti qui illustrata l’uomo ha sul kimono un emblema araldico (kamon) con una foglia d’edera, pianta che compare anche nello stemma del potente editore.
Nell’introduzione all’Utamakura si fa dunque chiaro riferimento non solo ai piaceri dell’amore e del sesso (per inciso, tutte le altre meravigliose stampe del volume presentano scene in cui l’accoppiamento tra uomo e donna è esplicito, con l’esibizione ostentata di membri e vagine, sempre tuttavia in composizioni di straordinaria eleganza), ma anche a Utamaro, lodando sì il suo talento di artista ma anche le sue doti di amatore.
Era risaputo infatti che egli fosse un assiduo frequentatore del ‘quartiere dei piaceri di Edo (attuale Tokyo), sede allora del governo degli shōgun, i dittatori militari, e città brulicante di vita e divertimenti. Vi trascorreva ore e giorni, intrattenendosi con le più affascinanti cortigiane del tempo, le quali furono la fonte principale d’ispirazione della sua opera. Egli è infatti universalmente noto come ‘il pittore delle donne’, abile come pochi a descrivere la bellezza femminile, in tutta la miriade delle suggestioni e delle variabili con cui essa si può manifestare. La sua sensibilità, la destrezza con cui cui maneggiava il pennello e associava le tonalità cromatiche, sono indiscusse, ed egli è ormai artista che si eleva oltre ogni contingente collocazione temporale e geografica per divenire universale.
Utamaro, artista sopraffine e amante appassionato. E’ lui, non v’è dubbio, l’uomo che bacia nella stampa dell’Utamakura. Suo è l’occhio che fa capolino tra i capelli della donna. In questa sua opera, arte-amore-erotismo hanno la stessa origine. Si legano in un’inedita combinazione, un piacere estemporaneo che mira all’eternità.