Appena ho iniziato a sfogliare il catalogo della mostra Cloisonné. Chinese Enamels from the Yuan, Ming, and Qing Dynasties, che si è tenuta presso il Bard Graduate Center di New York tra il gennaio e l’aprile 2011, subito mi sono catapultato con la mente all’ultima volta che ho visitato il Musée des Arts décoratifs di Parigi, ormai qualche anno fa.
Ho rivissuto parzialmente quella giornata. Ricordo che mi recai allora in quel meraviglioso museo principalmente per imparare quanto più potevo sulla Cineseria francese del XVIII secolo. Era infatti il periodo in cui stavo preparando il mio libro sulla Cineseria italiana, che fu poi pubblicato nell’ottobre del 2009. E su quel tema trovai in quel museo non pochi spunti di riflessione.
Tuttavia, quel giorno non mi limitai certo ad ammirare le pur numerose opere di Cineseria conservate in quel museo. Sono sicuro che almeno vi trascorsi tutta la giornata, guardando tutto ciò che potei, facendo almeno un giro completo di tutte le sale espositive, com’è mia abitudine. Eppure, nonostante siano ormai trascorsi alcuni anni da quel giorno, sono abbastanza convinto di non aver visto cloisonné cinesi in quel museo. O almeno non ne vidi così tanti, e di così importante qualità, che il fatto rimanesse impresso nella mia memoria.
Ora, è anche vero che a volte, se nel pomeriggio mi si chiedesse cosa ho mangiato a pranzo, non riuscirei a rispondere perché l’ho dimenticato. Ma è anche vero che, per quanto riguarda il mio lavoro, e quindi le cose che più mi interessano, difficilmente ho vuoti di memoria macroscopici. Potrei, senza dubbio, rimuovere ad esempio i dettagli di un pezzo visto tra molti, ma certamente non potrei buttare nel pozzo dell’oblio un’intera collezione. Ah, naturalmente, è evidente che quel giorno non mangiai delle prelibatezze, altrimenti avrei certo ricordato anche quel pranzo…
Continuando a leggere il catalogo sui cloisonné, però, scopro abbastanza velocemente che per questa volta la mia memoria non mi ha tradito. Il Musée des Arts decoratifs possiede infatti una strepitosa collezione di cloisonné cinesi che, tuttavia, non è esposta al pubblico, bensì conservata nei suoi depositi che immagino immensi. La mostra di New York è stata quindi un’occasione unica per poter ammirare questo ‘tesoro nascosto’, trascorsi ormai tredici anni dall’esposizione su questa raccolta che nel 1998 si tenne presso lo stesso museo parigino, intitolata Art des pays des démons. Sarebbe a questo punto leggittimo chiedersi per quali ragioni una così importante selezione di manufatti cinesi non riesca a trovar posto in un contenitore così imponente qual’è il Musée des Arts decoratifs. Credo che la persona più giusta per rispondere a questo amletico quesito sia proprio Béatrice Quette, curatrice del museo parigino, che ha preparato le mostre sui cloisonné cinesi, sia quella del 1998 sia quella più recente di quest’anno.
La Quette è stata responsabile, oltre che delle esposizioni, anche della curatela dei cataloghi. In quello più recente, che ho sotto mano, il suo intervento, suddiviso in tre capitoli, è lungo e ricco di moltissime notizie e, si può dire, sia il più importante e interessante dell’intero libro. Al suo saggio si aggiungono altri interventi di studiosi sia occidentali sia cinesi, grazie ai quali chi legge può approfondire diversi aspetti riguardanti la connoissership sui metalli smaltati della Cina, la loro destinazione d’uso (di Pengalian Lu), le influenze delle antichità (di Rose Kerr), i motivi decorativi che li ornano (di Terese Tse Bartholomew), le influenze della pittura (di Claudia Brown), il ruolo di questi oggetti presso la corte imperiale (di Zhang Rhong), le loro influenze sull’arte europea della fine dell’Ottocento (Odile Nouvel-Kammerer), il collezionismo di cloisonnée in Europa e in America (di Susan Weber) e, infine, un interessantissimo studio sulle caratteristiche tecniche di questi manufatti artistici (di Isabelle Biron e Béatrice Quette).
La stessa Introduzione della Quette è oltremodo significativa, in quanto ella si dilunga sulla storia della formazione della raccolta di cloisonnée cinesi del Musée des Arts decoratifs, ripercorrendo nel contempo anche lo sviluppo degli studi su questo argomento, a partire dagli interventi seminali di George Maurice Paléologue (1887) e dell’onnipresente Stephen W. Bushell (1908), attraverso la monografia di Sir Harry Garner (1962) e il fondamentale Chinesisches Cloisonné. Die Sammlung Pierre Uldry di Helmut Brinker e Albert Lutz, per arrivare alle ricerche sulle raccolte del Palace Museum di Pechino (1987 e 1999) e su quelle del National Palace Museum di Taipei (2002).
Proprio in queste ultime pubblicazioni si è tentato, per la prima volta negli studi sul cloisonné cinese, di proporre una nuova cronologia, la quale vuole dimostrare che alcuni pezzi furono realizzati già durante la dinastia Yuan (1279-1368), alcuni decenni prima quindi rispetto all’inizio del XV secolo che da sempre era stato considerato come il momento dell’inizio dell’uso della tecnica dello smalto su metallo in Cina.
Anche Béatrice Quette, sull’onda di queste precedenti ricerche e in base alle proprie convinzioni scientifiche, anticipa al XIII-XIV secolo le datazioni di alcuni pezzi finora considerati di epoca Ming (1368-1644), anche del XVI secolo.
D’altronde, queste ipotesi cronologiche sono plausibili, anche solo dal punto di vista storico. La prima menzione tuttora nota riguardante gli smalti cloisonné risale infatti al 1388, anno in cui fu compilato il Gegu yaolun (“I criteri essenziali delle antichità”). Il suo autore, Cao Zhao, scriveva allora che questo tipo di manufatti era “appropriato per l’uso solo nell’appartamento della donna ed è fuori luogo nello studio del letterato”.
Un’asserzione quindi tutt’altro che positiva nei confronti di questo tipo di oggetti che, tuttavia, così è stato dimostrato qua e là nei saggi del recente catalogo della mostra, non corrisponde perfettamente alla verità. Chi più chi meno, infatti, tra gli imperatori delle dinastie Ming e Qing (1644-1911), tra il loro seguito e tra i nobili più influenti mostrarono di apprezzare grandemente gli oggetti in metallo smaltato, utilizzandoli per gli scopi più vari, dall’uso cerimoniale nelle funzioni buddhiste, soprattutto di tipo tibetano, all’utilizzo come contenitori per fiori, bevande o cibi in occasioni particolarmente importanti, e anche come suppellettili per lo Studio del letterato.
E’ probabile, così è stato arguito, che Cao Zhao si riferisse in particolare a oggetti smaltati importati dal Vicino Oriente, tanto più che egli menzionava i cosiddetti Dashi yao, ovvero il “vasellame musulmano”. Alcuni decenni dopo, nel 1456, Wang Zuo pubblicò una sua versione rivista, corretta e ampliata del Gegu yaolun. A proposito degli smalti egli, oltre a riproporre il giudizio di Cao, aggiungeva che ai suoi tempi “a Pechino alcuni uomini arrivati dallo Yunnan realizzano coppe da vino in quella tecnica, la quale è comunemente conosciuta col nomignolo di ‘lavoro delle Terre del Diavolo’ (Guiguo qian) [da qui il titolo della mostra parigina del 1998]. I pezzi sono prodotti per il Palazzo Imperiale e sono delicati e bellissimi”. Quest’ultimo dato è particolarmente significativo. I cloisonné più belli si realizzavano quindi nelle Manifatture Imperiali di Pechino, all’interno della Città Proibita, sotto diretto controllo della corte. Più avanti, anche Guangzhou (ovvero Canton) ospiterà alcune botteghe dedite alla produzione di metalli smaltati, ma la qualità di questi pezzi rimarrà sempre inferiore rispetto a quella dei prodotti della capitale.
Nonostante questa storia gloriosa, l’arte del cloisonné ha in Cina occupato sempre un ruolo defilato rispetto ad altre tecniche artistiche, come la porcellana e la lacca. Forse ciò si può spiegare con l’origine non cinese di questa forma d’arte che, infatti, ebbe inizio in Occidente qualche secolo prima: e ai cinesi è sempre piaciuta l’idea del ‘primato’, di gloriarsi di aver inventato quella o quell’altra cosa. E ciò è in parte vero, o almeno è vero che la porcellana e la lacca sono traguardi della civiltà cinese mentre la tecnica dello smalto cloisonné è stata acquisita relativamente tardi. Non convince invece (se ne è accennato più sopra) una superata idea in base alla quale l’élite cinese non trovava di suo gusto questo genere di oggetti perché troppo esuberanti dal punto di vista cromatico, non pertinenti quindi in un contesto nel quale l’estetica prevalente imponeva semplicità nelle forme e nei decori, ispirata alla sobrietà e alla purezza della Natura.
Tuttavia, a guardare i pezzi andati in mostra quest’anno a New York, in grandissima parte conservati nel Musée des Arts decoratifs e in piccola parte provenienti da musei statunitensi, appare subito chiarissimo che gli artisti e gli artigiani cinesi raggiunsero anche in questa tecnica dei livelli qualitativi ineguagliabili. Gli oggetti sono, è vero, di una policromia non certo moderata, ma gli accostamenti sono di grande raffinatezza e le forme molto eleganti nella loro classicità. Così, si può ben dire che questa mostra contribuirà di certo a rendere ulteriormente giusto merito a questa forma d’arte della Cina.
In conclusione, vorrei segnalare che smalti cloisonné cinesi si trovano in molti musei italiani, ma in genere si tratta sempre di pochi pezzi in contenitori di più ampio respiro. L’unica collezione che io conosca, che tale si possa dire, si trova nel Museo Duca di Martina nella Villa Floridiana di Napoli, conosciuto invero soprattutto per la sua bellissima raccolta di porcellane cinesi e giapponesi. La raccolta di cloisonné del museo napoletano, pubblicata a suo tempo in una monografia da Lucia Caterina, si caratterizza per una certa varietà di forme e decori, abbracciando un periodo di tempo che va dall’inizio della dinastia Ming alla fine di quella Qing. Vale la pena di visitarlo se si vuole avere un’idea sull’artisticità degli smalti cinesi.