Pochissimi giorni fa, come molti di noi, ho avuto modo di apprendere una tragica notizia. Una morte. La morte di una ragazza molto giovane. Non che giornalmente manchino notizie di questo genere, se ne sentono e se ne leggono di tutti i colori. Tuttavia, la morte di quella ragazza ha avuto il potere di farmi aprire uno spiraglio di porta su un mondo che non conoscevo affatto. Non che non conoscessi fino a ier l’altro che cosa fosse il sado-masochismo, ovvero le pratiche sessuali che comportano sottomissione, dolore e simili. Chi fra noi, infatti, magari in tempi diversi della sua vita, non ha avuto modo di leggere i capolavori del marchese più crudele e libertino, oppure quel meraviglioso ritratto di amore estremo e perversione psicologica che è Le mie confessioni di Wanda von Sacher-Masoch? E badate, non voglio qui chiedere chi di noi abbia provato una o più volte questo tipo di sessualità, o almeno abbia desiderato per una volta di farlo. Infatti, questo non è importante, come non è importante che, mi crediate o meno, personalmente non mi senta particolarmente attratto da questo genere di ‘giochini’. Tuttavia, rispetto chi vi si dedica, e sembra che siano in moltissimi, a patto che vi partecipino solo adulti consenzienti.
Sembra che la poveraccia trapassata qualche tempo fa fosse consenziente. Consenziente si, ma evidentemente non conscia della pericolosità di quell’esperimento di trasgressione, tanto che si è data libera e viva, ed è morta legata. Ora molti dei ‘praticanti’ sanno che si può anche morire facendo quel genere di cose. Ed io ora so che, se anche – come si dice per alcuni – fossi “malato di sesso”, non sono assolutamente convinto che vorrei “morire di sesso”. Una serata sbagliata, un errore di valutazione, e via.

Nobuyoshi Araki, Donna shibari

Vi assicuro che dell’intera drammatica notizia una cosa mi ha incuriosito più di tutto, cinicamente. Non tanto l’aspetto morboso della vicenda che, se non ci fosse scappata la morta, sarebbe anche sembrata ridicola (chi conosce qualche dettaglio della storia, come ce l’hanno propinato, non potrà non essere d’accordo su questo…). Quello che più mi ha stimolato, invece, è il dettaglio che fin da subito è trapelato su televisioni, radio e giornali, ovvero che lo sfortunato gruppetto stava allora dedicandosi ad un pratica giapponese di sesso estremo.
Shibari, così l’hanno definito. Questa parolina, appena ascoltata, ha mosso alcuni degli ingranaggi della mia testa. Sulle prime nulla, poi altre paroline di commento alla vicenda, questa volta in italiano e non in giapponese, hanno fatto sì che nel buio si accendesse un lumicino e cominciassero ad apparire delle immagini. Immagini si, il mio cervello funziona (per quel poco che funge…) prevalentemente per immagini. O meglio, la risposta che dò a certi stimoli emotivi rientra nel primissimo momento nell’archivio di immagini che custodisco tra le pieghe della mia materia celebrale. Allo stimolo ‘Giappone’, acceso il lumicino di cui sopra, rispondo aprendo il mio archivio di ‘Arte e Cultura giapponese’. Quindi alle parole fune, corda, legare, donna, sesso estremo, Giappone, arte giapponese (mi sembra di scorrere un elenco di tags…), il mio cervello comincia a vorticare, a sfogliare il mio Libro Mastro. Scorrono foto, dipinti, stampe, oggetti. Poi, all’improvviso la turbina comincia a rallentare sulla selezione che nel frattempo ha avuto luogo. Sempre più lenta, fino a quando, infine, si ferma, su un’unica, sola immagine.
E’ una fotografia. In bianco e nero. L’ambientazione è un appartamento, una stanza giapponese con tatami. Null’altro di inanimato. Sola, al centro una donna seduta, di spalle. Il capo piegato in avanti. Le braccia incrociate dietro le spalle in una postura direi innaturale. Le gambette strette alle ginocchia, in una posizione che non so quante donne occidentali potrebbero assumere, e che invece è piuttosto naturale per una giapponese. La donna ovviamente è nuda, completamente. Anzi, ha un vestitino che però è sollevato sopra le natiche e sotto la schiena. Si vede un seno dal capezzolo turgido. E si vedono alcuni tratti del volto, un occhio, parte del naso. E si vedono i capelli corvini sciolti quasi toccare la stuoia. Ma, più di tutto, si vedono corde, funi. La donna è infatti legata, tra le braccia e le spalle verso l’alto, e alle caviglie verso il basso. Si vedono i nodi che la fermano. Ma non si vede a quale altro capo le funi siano legate. In alto forse al soffitto. In basso forse al nulla.

Nobuyoshi Araki, Donna shibari, 2007

Non so chi potrebbe affermare con certezza che la donna stia soffrendo, finga di soffrire, oppure goda soffrendo. Probabilmente è solo in posa per il famoso ed eccentrico artista che l’ha voluta ritrarre in codesto modo. Lui è Nobuyoshi Araki (1940-), furetto della fotografia giapponese. Un maiale per alcuni, un protagonista della fotografia contemporanea per altri. A giudicare dalle mostre che si dedicano alla sua opera praticamente di continuo, nei maggiori musei del mondo, sono più quelli che lo considerano un grande artista che quelli che lo ripudiano. Per me è un gigante della fotografia, tecnicamente ineccepibile. Vidi una sua mostra qualche anno fa al Museo Pecci di Prato, e mi stupirono le sue fotografie, come mi stupì la sua voracità di fotografo. Mi chiesi allora quanto tempo passasse a scattare foto, e mi immaginai che al suo occhio si poteva ormai sostituire un obbiettivo. Mi chiesi se un giorno sarebbe potuto diventare come una di quelle mutazioni concepite da Shinja Tsukamoto nei suoi Uomini d’Acciaio: un uomo completamente uomo, che però al posto degli occhi ha zoom, pulsante di scatto, esposimetro e tutto il resto che è pertinenza di una macchina fotografica.
Le donne e il sesso sono sicuramente il soggetto prediletto da Araki. Nella maggior parte dei casi non sono delle donne bellissime. Ma nei suoi scatti si percepisce una complicità, un erotismo, quasi l’odore degli umori, che rendono le sue modelle (tra cui, in gioventù, la moglie) delle donne vive, esplosive e disponibili. Erotismo, pornografia, voyeurismo, onanismo. Giudicate l’opera di Araki come vi pare, a me sembra arte.
Non staro qui a dire del legame (mai parola fu così giusta, tra corde, funi, etc…) tra l’opera di questo grande fotografo contemporaneo e l’arte erotica tradizionale giapponese. La sua fotografia sopra descritta mi è venuta in mente come esempio di una parte della sua sterminata produzione, nella quale compaiono donne complessamente legate e annodate. Araki è quindi, evidentemente, un fanatico dello shibari, il tipo di giochino erotico al quale si era prestata la ragazza passata alle cronache.

ItoSeiu, Shibari

Ora, sembra che questa trasgressione sessuale di origini giapponesi non sia il risultato di improvvisazione. Ovvero, non è che basti avvolgere delle corde intorno al corpo di una donna e stringere per potersi permettere di dire che si è suo degno adepto.
Facendo una qualche ricerchina in rete, tra i siti che per primi compaiono alla ricerca “shibari”, circolano notizie molto circostanziate su questa pratica erotica. Che qui riassumo. Shibari (letteralmente “legare”, nel senso di “impacchettare”) è un termine entrato nel lessico degli appassionati di bondage, soprattutto occidentali, abbastanza recentemente, negli scorsi decenni. Esso è essenzialmente sinonimo di kinbaku, parola con la quale si identificano vari tipi di tecniche per legare persone, che è però più corretta secondo la lingua giapponese. Le origini del kinbaku come pratica sessuale si situano verso l’inizio del Novecento, diffuse e teorizzate in particolare nell’opera di Itō Seiu (1882-1961), artista eclettico piuttosto versato nella pittura. Fu lui a far emergere un’erotismo spinto dalle più antiche tecniche di costrizione con corde. Sembra infatti che il kinbaku derivi dall’hojōjutsu, un’arte marziale molto antica che studiava proprio le metodologie per legare le persone. Durante il periodo Edo (1615-1868), coloro i quali apprendevano quest’arte non la utilizzavano a fini sessuali (chissà, nel loro privato…), bensì per intrappolare persone. Succedeva quindi che si dovesse tenere a bada prigionieri, oppure che si mettesse le mani su un pericoloso criminale. Non potendo rinchiuderlo tra le sbarre, i giapponesi misero a punto sistemi di annodatura talmente sofisticati ed elaborati che era praticamente impossibile liberarsi. Spesso si legavano gli arti con la gola (una sorta di incaprettamento), così che movimenti sbagliati del prigioniero potevano portarlo alla morte per soffocamento (così, sembra, è morta la ragazza italiana). Nel tempo si crearono varie scuole di hojōjutsu, ognuna delle quali privilegiò alcuni procedimenti rispetto ad altri. Insomma a sentirla così, più che un ‘giochino’ perverso sembrerebbe una tortura, ma, de gustibus

Tsukioka Yoshitoshi, una stampa del 1885

Nel generale ‘copia e incolla’ del web, circolano da parte dei praticanti del kinbaku alcune affermazioni che ovviamente sono talmente superficiali da farle sembrare solo premesse a messe in scena senza senso. Circola infatti l’idea che il kinbaku sia un’arte, al pari dell’ikebana e della cerimonia del the. Non contesto queste affermazioni, poiché il popolo giapponese ci ha abituato a rendere artistiche alcune pratiche che in altri luoghi del pianeta non riescono a superare il rango di hobby o di abitudine pomeridiana. D’altronde, i nipponici sono riusciti a sublimare anche l’orrore della morte con il suicidio rituale seppuku, figuriamoci un semplice impacchettamento. Tuttavia, se di arte si tratta, e ripeto non sono in disaccordo in linea generale con questo giudizio, mi si consenta di fare un paragone con la pittura, nella quale esitono sì i geni, ma sono pochi al confronto dell’enorme massa di imbrattatele. E ci tengo a riscrivere che non ho la pretesa di giudicare le abitudini sessuali di nessuno, ma “morire di sesso”, per un ‘giochino’, mi sembra roba da dilettanti altro che arte!
Negli stessi portali si scrive anche, e ripetutamente, che l’uso delle corde è connaturato con la tradizione giapponese. Per restare nel ritrito, è vero che i nipponici si applicano con particolare attenzione nel confezionare i regali, tanto che in molti casi è più suggestivo l’involucro che il contenuto. Questa è anche una loro arte, nota col nome di tsutsumi. Così come, a proposito di nodi e legacci, sono straordinari quelli usati per combinare il furoshiki, il grande fazzoletto quadrato con cui avvolgono ogni tipo di oggetto. Tuttavia, non in base a questi esempi posso condividere l’affermazione che i giapponesi riescano così bene nel kinbaku, applicandosi con eguale diligenza nell’avvolgere una scatola e nel legare una donna.
Posso però dire, è questo è indubitabilmente vero, che la corda occupi nella cultura giapponese un certo ruolo privilegiato. Soprattutto nello Shintoismo. Basti ricordare i grandi cordoni rituali (shimenawa), usati fin da tempi immemori per circoscrive un luogo sacro per la dottrina shintoista. Anche in questo caso, però, mi sembra piuttosto eccessivo mettere in relazione la sacralità primordiale con una pratica sessuale.
Tuttavia, so che coloro i quali credano fermamente nell’artisticità del kinbaku avrebbero molto argomentazioni per contrabbattere questa mio scetticismo, e quindi qui la smetto, contento però di aver imparato una cosa nuova.
Per ora mi basta così, e non credo che approfondirò questo tema nel prossimo futuro. Ora so però che, nell’eventualità volessi farlo, potrei ad esempio procurarmi i testi del fantomatico Master “K”. Sembra che i suoi libri sul kinbaku siano davvero ottimi, anche dal punto di vista storico-artistico, che è poi quello che potrebbe interessarmi, e chè egli venga considerato unanimamente come una delle maggiorità autorità viventi sull’argomento.
Fatemi sapere.