Giapponismo è un termine italiano che traduce quello francese Japonisme, quest’ultimo coniato nel 1872 dal critico Philippe Burty per descrivere l’influenza dell’arte e della cultura giapponese sugli artisti europei di quell’epoca.
Detta così, la questione sembrerebbe risolta. Tuttavia, il Giapponismo è stato un fenomeno di gusto che ha avuto la forza di contribuire a trasformare la società e l’arte europea in un momento storico, tra Otto e Novecento, in cui il mondo intero affrontava un radicale cambiamento, nel modo di pensare e in quello di agire, entrando a due piedi nella Modernità. Per questo esso ha meritato nel corso degli ultimi decenni moltissimi approfondimenti, con la pubblicazione di libri e l’organizzazione di mostre tematiche, grazie ai quali il quadro generale si è andato progressivamente dettagliando, coinvolgendo aspetti meno eclatanti spesso trascurati negli studi più datati.
La più recente iniziativa sul Giapponismo è stata una mostra che si è svolta tra il febbraio 2011 e il gennaio 2012 nel Mississippi Museum of Art di Jakcson e nel McNay Art Museum di San Antonio (Texas), intitolata The Orient Expressed. Japan’s Influence on Western Art 1854-1918, a cura di Gabriel P. Weisberg. Evento che segue, praticamente a ruota, un’altra mostra sull’ergomento che si era tenuta presso il San Francisco Fine Arts Museum tra il 16 ottobre 2010 e il 9 gennaio 2011, intitolata Japanesque. The Japanese Print in the Era of Impressionism: quest’ultima, rispetto a quella più recente, prevedeva l’esposizione di un cospicuo numero di stampe giapponesi del periodo Edo (1615-1868) per confrontarle direttamente con incisioni europee e statunitensi in cui risaltano elementi giapponisti. Nella mostra di Jackson e San Antonio le opere d’arte giapponese erano pochissime: lungo il percorso si susseguivano invece quasi esclusivamente dipinti, stampe, ceramiche, vetri, mobili, etc. di produzione occidentale con accenti più o meno forti di gusto giapponista. I saggi all’interno del catalogo che l’ha accompagnata offrono la possibilità di nuove letture critiche sul Giapponismo e, soprattutto, al suo interno compaiono riproduzioni fotografiche di opere meno note e ‘inflazionate’ rispetto ad altre che invece sono ormai diventate emblemi del Japonisme internazionale.
Domanda: Quale opera può assurgere al prestigioso rango di ‘simbolo del Giapponismo’?
Per me non è assolutamente facile sceglierne una, ma se mi si imponesse la selezione, oggi sceglierei – per affezione personale – l’Autoritratto di Vincent Van Gogh del 1888 conservato nel Fogg Art Museum della Harvard University di Cambridge, conscio però che già domani potrei sceglierne un’altra. Il genio olandese dedicò questa sua opera a Paul Gauguin, con il quale voleva realizzare il suo sogno di formare una comunità di artisti nel sud della Francia, ad Arles, progetto naufragato poco dopo l’arrivo di Gauguin, tra litigi, gelosie e rabbie più o meno platealmente espresse. I principii ai quali – secondo Van Gogh – si sarebbero dovuti ispirare egli stesso e gli altri pittori che auspicava lo raggiungessero in quei luoghi erano quelli connessi ad un Giappone immaginato e mai visitato, nel quale la Natura era fonte inesauribile di ispirazione non solo per la creazione artistica ma per la stessa vita. Van Gogh, preda dunque di un Giapponismo che andava ben oltre la pittura per diventare ricerca-ossessione interiore, decise di tagliare i capelli per assomigliare in tutto ad un bonzo buddhista, così ritraendosi nel mio capolavoro del Giapponismo di oggi, concependo una composizione che mostra affinità formali con la ritrattistica di ambito Zen della pittura giapponese, ma anche con quelle composizioni commemorative dell’Ukiyo-e, pubblicate ad memoriam di artisti appena trapassati su disegni realizzati da altri affermati autori del Mondo Fluttuante, ad esempio quella raffigurante Utagawa Hiroshige.
L’intensità dell’autoritratto di Van Gogh del 1888 è straordinaria. Si percepisce in tutta la sua forza esplosiva una completa comunione tra l’artista e la sua pittura. Gli impasti sono vivi, come se porzioni di luce autonome (le singole pennellate) si accostassero per illuminare la superficie, conferendo alla fronte, alle tempie, alle guance, al naso, agli zigomi, alle orecchie, insomma ad ogni parte del volto, un riflesso di vità propria, e nell’insieme un caleidoscopio di emozioni coloristiche. Un processo di vivificazione che solo Van Gogh nella sua fase giapponista poteva mettere in moto con tale vibrazione di sensazioni cromatiche. Ogni pennellata dell’autoritratto si fissa come una piaga sulla tela, indelebile, tremula. Se il genio olandese avesse scelto il rosso, avrei detto che quest’opera sembra aver grondato sangue che poi si è rappreso e così lo possiamo ammirare, nei grumi ematici che appaiandosi formano la sostanza pittorica dell’opera. Egli invece ha giocato con il bruno, il giallo e tocchi di celeste per costruire quei verdi aciduli che predominano, sul fondo solitari, ma anche tra le pieghe del collo, negli interstizi ossuti del cranio, sostituendosi perfino al bianco degli occhi.
Se non è il capolavoro del Giapponismo, quest’opera di Van Gogh è senz’altro straordinaria per una miriade di altri motivi. Ma, nel suo concepimento, il Giappone e le sue arti hanno avuto un ruolo determinante, come affermò lo stesso Van Gogh in moltissime occasioni, soprattutto scrivendo a suo fratello Theo.
Tuttavia, gli approfondimenti sul Giapponismo non possono limitarsi a queste espressioni altissime, che coinvolgono nomi ben inseriti nell’Olimpo dell’arte occidentale, tra i quali, oltre a Van Gogh, e solo per ricordarne alcuni, vanno annoverati Monet, Manet, Degas, Whistler, Gauguin, Cezanne e Klimt, tutti chi più chi meno, per un periodo più o meno lungo, infettati dal morbo del Japonisme. Le arti e la cultura del Paese del Sol Levante stimolarono un profondo rinnovamento dei repertori tematici, formali e stilistici occidentali, insinuandosi come fonte di ispirazione non solo in pittura, ma in tutte le manifestazioni culturali del periodo, nella letteratura, nella poesia, nel teatro, nella musica, con riflessi anche nella vita quotidiana delle persone, anche quelle comuni e non solo gli intellettuali e gli artisti. Si pensi ad esempio alla diffussione che ebbe l’uso del ventaglio nella seconda metà dell’Ottocento. A questo oggetto si legò allora una serie di comportamenti che avevano a che fare con il gioco della seduzione femminile: anche nei secoli precedenti, e soprattutto nel Settecento, questo accessorio svolgeva una funzione analoga tra le dame più aggiornate alle tendenze della moda, ma nel tardo XIX secolo e nei primi decenni del Novecento, il suo uso come strumento di ‘attrazione fatale’ divenne diffusissimo, evocando una sensualità tutta orientale, giapponese nello specifico, considerando i milioni di esemplari di ventagli che ogni anno venivano importati in Europa e negli Stati Uniti proprio dall’arcipelago asiatico.
La mostra di Jackson e San Antonio ha proprio questo merito, come scrivevo più sopra. All’interno del catalogo compaiono, è vero, illustrazioni di opere che possono considerarsi simbolo del Giapponismo, come Caprice in Purple and Gold: The Golden Screen (1864) di James McNeill Whistler nella Freer Gallery di Washington, La Japonaise (1876) di Monet del Museum of Fine Arts di Boston, La Japonaise au Bain (1864) di James Tissot nel Musée des Beaux-Arts di Digione, oppure le tre celebri copie da altrettante stampe giapponesi che Vang Gogh realizzò nel 1887 conservate nel Museo di Amsterdam a lui dedicato (nessuna di questi capolavori, peraltro, era presente in mostra). Tuttavia, compaiono anche opere meno note, soprattutto di artisti statunitensi e quindi conservate in musei americani, gran parte delle quali effettivamente presente nel percorso dell’esposizione, grazie alle quali si può comprendere l’assunto cui si accennava sopra, e cioè che il Giapponismo ha avuto una tale diffusione da permeare più livelli della cultura occidentale.
Nei saggi si trovano poi interessanti spunti di riflessione su questo tema. Tralasciando quello iniziale del curatore Weisberg, dall’ambizioso titolo Rethinking Japonisme. The Popularization of a Taste, lungo e ben illustrato ma piuttosto generico e non ben costruito, a mio parere, nel quale compaiono anche alcune sviste grossolane, ho trovato utile quello di Laurinda S. Dixon (Trade and Tradition. Japan and the Dutch Golden Age), nel quale si mette in evidenza che la prima foma di Giapponismo è forse quella che si sviluppò in Olanda nel XVII secolo, allorché alcuni grandi pittori olandesi inserirono nelle loro composizioni in tutto classiche alcuni elementi giapponesi, in particolare vestirono alcuni personaggi di quei kimono imbottiti provenienti dall’arcipelago estremo-orientale, che tanto successo riscossero in Olanda per la finezza dei tessuti in cui erano confezionati e per la comodità con cui si indossavano, soprattutto in situazioni casalinghe. Il geografo di Johannes Vermeer (1669) del Museo Civico di Francoforte sul Meno ne indossa uno, mentre è alle prese con le sue elucubrazioni scientifiche, forse proprio relative a quel paese tanto lontano, con il quale la Compagnia delle Indie Orientali olandese faceva allora affari d’oro.
Pure è interessante l’articolo di Petra ten-Doesschate Chu che riguarda il capolavoro di James Ensor del 1907, quella Natura morta con chinoiseries nel Museum Dhondt-Dhanenens di Deurle in Belgio. In pieno tempo di Giapponismo il grande pittore belga concepì una composizione in cui comparivano insieme oggetti cinesi e giapponesi, testimoniando così quell’indistinzione con cui, ancora all’inizio del Novecento, si guardava ai numerosi paesi dell’Estremo Oriente. Fu quindi casuale quella scelta di manufatti eterogenei, oppure – come suggerisce l’autrice del saggio – quegli stessi oggetti, pur appartenendo a culture diverse, mossero insieme l’ispirazione, in un tutt’uno di evocazione dell’Altro?
Su questa stessa lunghezza d’onda, ovvero nel tentativo di comprendere quelle modalità più sofisticate con cui la sensibilità artistica occidentale venne in contatto con la cultura giapponese, si pone anche l’intervento di Elisabeth K. Mix (Japonisme and Cultural Appropriation), la quale sviluppa per l’appunto il concetto di ‘appropriazione’ di un dato per spiegare quei meccanismi.
Gli artisti, in tutte le epoche, hanno sempre cercato, assimilato e rielaborato stimoli provenienti da luoghi lontani e diversi, per poter rinnovare il proprio linguaggio. Così è successo anche nel tardo Ottocento allorché fu ‘scoperta’ in tutta la sua bellezza l’arte giapponese. Al di la quindi degli aspetti più mondani e frivoli, il Giappone è stato essenziale per diverse generazioni di artisti europei e statunitensi che desideravano produrre un’arte nuova, libera da legami opprimenti col passato e la tradizione. Questo è successo allora, accadrà in futuro e continua ancora oggi, come testimonia l’opera di alcuni artisti giapponesi che, a loro volta, cercano ispirazione nell’arte europea del passato per rigenerare la propria opera. L’esempio più eclatante sono forse le fotografie concepite da Yasumasa Morimura che destruttura per poi riappropriarsi di certi capolavori ad esempio di Manet e Van Gogh per sviluppare una poetica di falsa citazione, mettendo in gioco il proprio corpo e il proprio intelletto.
In ultimo segnalo il saggio di Erica L. Warren (Japonisme and Scandinavia) che indaga un ambito del Giapponismo praticamente sconosciuto, ovvero come quello si sia sviluppato in Svezia, Danimarca e Norvegia. L’autrice ammette fin da subito che esso è un riflesso provinciale del fenomeno francese soprattutto, ma avverte anche che non può essere questo un motivo per cui esso non debba essere indagato. Gli artisti scandinavi hanno infatti anch’essi beneficiato della ventata di novità che è scaturita dalla conoscenza dell’arte e della cultura giapponese, producendo opere di vario genere in cui si evidenziano echi di Giapponismo. Il pittore che più rappresenta quei paesi del Nord Europa è sicuramente Edvard Munch, noto a tutti per L’urlo, una delle icone dell’arte dell’umanità. Nell’articolo della Warren il grande pittore norvegese è ricordato solo marginalmente. Così, a braccio, non ricordo, ma mi piacerebbe sapere se sia stata indagata l’influenza delle stampe dell’Ukiyo-e nell’opera di Munch. Così, a braccio, non mi stupirebbe se egli le conoscesse e se ne facesse in qualche modo ispirare. Chissà, sarà per quei colori accessi, campiti in macchie di tono omogeneo, che si appaiono per formare l’insieme, chissà…
Gentile sig. Francesco Morena,
Mi chiamo Annachiara e, mentre navigavo alla ricerca di materiale utile per la mia tesina di maturità, mi sono imbattuta in questo suo articolo.
Devo ammettere che è stata davvero una grande fortuna, perché, leggendolo, molti concetti sono diventati più chiari e ho trovato spunti con i quali approfondire la mia ricerca, come ad esempio il japonisme olandese.
Ad ogni modo un punto non mi è chiaro e riguarda la corrispondenza fatta tra l'”Autoritratto” di Van Gogh con le pitture zen e le stampe commemorative. Infatti non sono riuscita a trovare alcuna produzione pittorica giapponese che potesse ricordare qualche carattere espresso anche dall’opera dell’artista olandese (ho anche cercato la stampa commemorativa a Utagawa Hiroshige senza trovare nulla). Mi chiedevo, così, se Lei potesse gentilmente indicarmi qualche opera esplicativa, così da comprendere meglio questo indissolubile legame tra Van Gogh e il Giappone.
Grazie infinite