A fine agosto di questo 2018, in quest’estate decisamente lunga dal punto di vista climatico (30 gradi a fine settembre, mah…), ho deciso di visitare uno di quei (tanti, per fortuna!) musei che ancora non ho visto personalmente. È stata una decisione piuttosto improvvisa, di quelle che si prendono la sera e la mattina dopo sei già in viaggio, e per questo ne ho scelto uno che potessi facilmente raggiungere in macchina.

Zurigo

Circa sei ore di guida, e mi ritrovo in un altro paese, in un’altra città, completamente diversa da quella in cui vivo, bellissima, affascinante, vitale, me ne rendo subito conto, in pieno fermento. Forse un po’ cara rispetto agli standard italiani (sicuramente più cara, molto più cara…), ma so che gli stipendi da quelle parti sono adeguati al tenore di vita che i cittadini conducono.
La meta della mia gita a Zurigo era il Museo Rietberg.
Sapevo che custodiva collezioni di grandissima qualità per aver avuto tra le mani alcuni libri che le riguardavano, e quindi sapevo che avrei soddisfatto la mia perenne necessità di ammirare oggetti straordinari, ma quel che ho visto ha superato abbondantemente ogni tipo di mia aspettativa.
Le collezioni del Museo Reitberg di Zurigo sono infatti straordinarie. Punto.

L’edificio

L’edificio principale, immerso in uno splendido parco e costruito verso la metà del XIX secolo, è di per se stesso importante. Appartenuto in origine a Otto e Mathilde Wesendonck, le sue stanze hanno ospitato per un certo periodo anche Richard Wagner, tra gli altri personaggi.
È una villa di spiccato gusto neoclassico, di dimensioni relativamente modeste. Quando il mio sguardo l’ha incrociata per la prima volta, m’è venuto naturale pensare che gli oggetti esposti dovessero essere per forza di cose poco numerosi, considerato lo spazio interno così come lo percepivo dall’esterno.
Mi sbagliavo.
L’ingresso del museo si trova infatti in un edificio di costruzione moderna diviso da un piccolo cortile dalla villa e discretamente nascosto dalle fronde dei maestosi alberi. Il percorso di visita non inizia dunque dalla costruzione principale ma da questo innesto architettonico moderno. Si scendono due rampe di scale, e ci si inoltra in un confortevolissimo sotterraneo, ampio, perfettamente funzionale, ben illuminato, che costituisce la prima parte della visita. Il percorso poi conduce, sempre al di sotto della superficie, alla villa vera e propria, nelle cui stanze sono esibite altre collezioni. Non che si possa affermare che sia un museo grande (è piccolo se uno ha in mente il Guimet, ad esempio…), ma grazie a questa soluzione architettonica lo spazio disponibile per l’esposizione è più che raddoppiato, grazie anche ad un ulteriore, più piccolo ma comunque ampio, piano interrato dove – meraviglia delle meraviglie! – è allestito un deposito aperto al pubblico, la gioia di ogni studioso.
La mia visita era mirata (ho avuto l’opportunità di scambiare alcune opinioni con la curatrice di arte cinese, Alexandra von Przychowski), e quindi ero concentrato su alcune tipologie di oggetti, ma non ho naturalmente potuto fare a meno di aggirarmi estasiato per tutte le sale di questo scrigno dei tesori, e man mano che mi inoltravo la mia stupefazione aumentava, per cotanta bellezza.

La collezione cinese

La prima parte del museo è dedicata alla Cina, e qui non si scherza.
Il Museo Rietberg espone infatti non solo una delle più prestigiose e famose collezioni di ceramiche cinesi dal Neolitico alla dinastia Yuan, la superba Meiyintang Collection, ma anche altri nuclei notevolissimi.
Bronzi arcaici e dinastici di pregio assoluto, l’altrettanto nota collezione Uldry di cloisonnés, una raccolta molto interessante di snuff bottles, dipinti di ottima qualità tra cui quello celebre e inquietante di Bada Shanren, nel quale si vede nella zona inferiore della pagina compositiva un uccello posato su una roccia e in quella superiore (?!?) un pesce che vola-nuota nel vuoto più assoluto: un’astrazione, un’inversione della realtà, un algoritmo della fantasia più sfrenata, che solo poteva scaturire dall’animo tormentato di un genio quale era questo maestro della pittura cinese.
E poi, soprattutto, a me ha impressionato moltissimo, un gruppo di sculture in pietra di tema buddhista, per gran parte risalenti alle dinastie Wei e Tang. Che spettacolo, la patina di questi capolavori di devozione e arte, grigio-marrone, morbida, untuosa, ad insinuarsi tra le pieghe di dettagli scultorei in basso e alto rilievo di poderosa concezione religiosa. Una goduria per gli occhi, una panacea per lo spirito di chi voglia, anche solo per un istante, soffermarsi ad ammirare questi piloni di materia viva, quei volti di Buddha e bodhisattva lontani dal piccolo, inetto e inutile uomo, eppure così vicini, nell’assoluta ieraticità che tutto acclude, finito e infinito.

La collezione giapponese

Dalla Cina si passa al Giappone. La sezione nipponica non è, a mio avviso, altrettanto preziosa, ma ciò non toglie che faccia sempre un certo effetto potersi destreggiare tra una ventina di alti parallelepipedi sistemati a selva, su ognuno dei quali si posa una scultura giapponese, del periodo Heian o Muromachi.

La collezione africana

Pochi passi, e ci addentriamo in qualcosa di totalmente diverso, dall’Asia si passa all’Africa. Maschere, idoli, suppellettili, come nel Giappone anche in quest’ala del Reitberg prevalgono le atmosfere calde del legno, le vibrazioni organiche di un’arte intimamente connessa con l’aldilà, con l’ambito dell’ignoto e insondabile. Oggetti che non nascono in nessun caso con la pretesa di piacere, di muovere le corde dell’estetica, nonostante appaiano bellissimi ai nostri occhi per lo più profani, bensì capolavori di quel drammatico ed eterno confronto tra ciò che si tocca e ciò che si immagina, ciò che si plasma e ciò che è eterno.
Come sempre, a me l’arte africana fa questo effetto. Riverenza. Studi, guardi, leggi, impari, ma sempre mi rimane fortissima quella sensazione di non aver compreso le reali ragioni, le motivazioni alla base, quei meccanismi mentali e spirituali che muovono un uomo a ricercare la divinità, l’antenato, o l’idea di essi, attraverso un pezzo di legno scolpito. Scusate, non riesco a spiegarmi meglio, così come non riesco ancora a spiegarmi quel brivido che spesso mi corre lungo la schiena davanti ad una maschera Dan, ad esempio…

La collezione indiana

Riprendo la superficie, senza che in realtà gli abiti si possano inumidire per la pioggia sottile che in quel giorno cadeva a Zurigo, poiché dal piano interrato si passa direttamente al primo piano della villa.
Ma che pezzo è il rilievo Gandhara con Le figlie di Mara che tentano il principe Gautama!!!
Pur frammentaria, questa scultura è un coacervo di narrazione e dettagli compositivi. Intorno alla figura seduta del Buddha, impassibile eppure non immobile nel fremito che dal suo corpo si riverbera nel sofisticato panneggio della veste, in un movimento ondulato che ovviamente rimanda alle più alte invenzioni della statuaria del mondo classico mediterraneo, si svolge la frenesia. I corpi seminudi delle tre donne a mostrare membra sode con piglio erotico, le figure demoniache, memori di baccanali orgiastici di indicibile lussuria, Mara – il più peccaminoso tra tutti, il dio della furia sensuale – seduto nell’angolo inferiore destro della scena, pensieroso, conscio che quel suo ultimo tentativo di dissuadere il Buddha dal redimere il mondo sarà vano, triste direi, affranto. È quel dettaglio con una delle sue tre figlie, colta da tergo, con le natiche esposte, fenomenale! Vengono in mente le Tre grazie di Rubens, oppure il Riposo durante la fuga in Egitto del giovane Caravaggio nella Galleria Doria Pamphilj, che invenzione!, messa in opera quasi un millennio e mezzo prima che i due grandi pittori – e altri prima e dopo di loro – ne intuissero le potenzialità espressive.
La sezione indiana del Rietberg è di livello qualitativo molto alto, e sarebbe davvero lungo ripercorrerla in questo caso, magari ci ritornerò.

Senz’altro il pezzo che più colpisce anche quei visitatori non proprio avvezzi all’arte orientale è la scultura in bronzo con Shiva danzante. La divinità si staglia in posizione dinamica all’interno di un cerchio fiammeggiante, la gamba sinistra sollevata plasticamente, quella destra piegata al ginocchio a sorreggere tutta la pressione materica dell’opera, le quattro braccia a controbilanciare il movimento nel suo insieme, come se cercassero l’equilibrio nelle particelle d’aria che fluttuano tutt’intorno. Una composizione pressoché perfetta in cui macrocosmo e microcosmo si scatenano al ritmo della musica dell’estasi divina. Intorno a quest’opera altri più piccoli capolavori della statuaria indiana, ma solcando l’ingresso di questa sala l’occhio si dirige senza esitazioni verso Shiva, e verso la sua ombra che risuona come vento sulla parete.

Sculture in bronzo himalayane e cinesi

Ancora al primo piano della villa è esposta un’altra delle chicche di questo museo. La collezione di sculture in bronzo himalayane e cinesi conservate al Rietberg è senz’altro una delle più notevoli che abbia mai visto, e pure una delle più preziose in circolazione, nel pubblico e nel privato. Le due sale che le accolgono scintillano di dorature, in un pantheon di divinità – buddhiste soprattutto – forgiate con maestria inusitata da artisti nella gran parte dei casi rimasti nell’anonimato. La collezione è un dono al museo di Berti Aschmann che, a giudicare dal numero dei pezzi, deve aver dedicato una vita intera a questa sua passione, e senz’altro risorse economiche cospicue. Per capirci, in anni recenti ogni qualvolta viene offerta in vendita una scultura tibetana in bronzo dorato con il marchio dell’imperatore Yongle si registrano cifre importantissime. Bene, non le ho contate con precisione, ma gli esemplari Yongle nella raccolta Aschamann saranno per lo meno una decina, e tutte di un’intensità tecnico-artistica di enorme rilievo.

Sculture del Sud-est asiatico

Salita la rampa di scale che dal primo conduce al secondo piano della villa, nel patio che introduce alle sale vere e proprie si vedono le sculture del Sud-est asiatico, in pietra e in bronzo. Teste di Buddha, divinità hinduiste, Ganesha dal ventre prominente, oggetti liturgici, figure demoniache. Pochi pezzi, una trentina circa, ma tutti di qualità molto elevata, in linea con il tenore del resto delle collezioni.

Alaska

Proseguendo, ho trovato poi molto affascinante la sala allestita con manufatti provenienti dall’Alaska.
Che meraviglia quella sorta di imbarcazione modellata come grande pesce, balena o pescecane che sia. Mi è sembrata un’invenzione culturale di grande sofisticatezza che ben spiega il rapporto amniotico tra quei popoli e il mare, la cui immensità sconfina anche sulla terra ferma per gran parte dell’anno ricoperta di ghiacci (un tempo almeno…).

Di riflesso, tanto grande quella sorta di giocattolo (chissà quale felicità proverebbe il bambino che la possedesse!), tanto piccolo l’amuleto in avorio con lo stesso soggetto.
Pochissimi centimetri in cui si concentra una sensibilità manuale di rara potenza.

America centrale e meridionale, Europa, Oceano Pacifico

Dall’America più a settentrione a quella centrale e meridionale. Due sale al secondo piano del Rietberg sono dedicate alle culture dell’antico Messico e del Perù, in particolare. Oggetti precolombiani in pietra scolpita e in ceramica dipinta. E poi un affascinante nucleo di maschere più moderne del Costa Rica, una tradizione che in realtà non conoscevo e mi fa dunque piacere avere imparato anche quest’altra cosa.

Le maschere svizzere invece già le conoscevo, ma fa sempre una certa impressione vederne così tante insieme, e di tale livello qualitativo. La sala del Rietberg dedicata a questa forma d’arte popolare è in realtà l’unica in tutto il museo che abbia a che fare con l’Europa, ma a dire il vero non l’ho considerata come una nota stonata nel concerto sinfonico che è stata la mia visita. Il legame infatti si può trovare e, a mio parere, consiste nella comune ricerca attraverso l’oggetto di un dialogo con forze soprannaturali, in Cina con il Buddha, in Africa con l’antenato, in Messico con il serpente, in Svizzera con la Befana!

Meno significative sono infine le raccolte che riguardano l’immenso bacino dell’Oceano Pacifico, con la quali si chiude il percorso, ma non poteva mancare in un museo come questo, che può chiaramente pregiarsi del titolo di Museo delle Culture del Mondo, un accenno ai Maori o ai popoli della Nuova Irlanda. E poi fa sempre un certo effetto ritrovarsi al cospetto di un tiki in giada verde neozelandese: la sua postura scomposta, i suoi occhi tondi e il sorriso accennato, sono un balsamo per la mia mente.

In conclusione

In conclusione, il mio desiderio più grande è sicuramente quello di poter ritornare al più presto a visitare questo eccezionale luogo di arte e cultura, magari anche nei prossimi mesi, in occasione di quella che sembra già preannunciarsi come un evento imperdibile, ovvero la mostra già ampiamente annunciata e dedicata allo straordinario Nasegawa Rosetsu, uno dei pittori più originali del Giappone del periodo Edo.
Se una pecca debbo trovarla è che di pubblicazioni sulle collezioni del museo il bookshop ne offre davvero pochine. Ma forse è stato meglio così, avrei potuto dilapidare un patrimonio in libri e non ho potuto farlo. In compenso ho scattato migliaia di foto, al solito, e soprattutto ho innescato un meccanismo mentale che mi capita talvolta, ovvero ho liberato un angolino del mio cervellino per far spazio al perenne ricordo di questa esperienza, davvero indimenticabile.