Della cosa che sto per scrivere sono assolutamente convinto, da sempre. Ovvero, se avessi avuto l’intenzione di dedicarmi allo studio dell’arte cinese e giapponese come comunemente si intende, avrei dovuto lasciare l’Italia in giovane età, trasferendomi già prima di iniziare la carriera universitaria in Estremo Oriente, o almeno in paesi meglio attrezzati del nostro da questo punto di vista, come gli Stati Uniti o l’Inghilterra. Poiché qualsiasi genere d’arte si studia sui libri, ma prima di tutto a stretto contatto con le opere e con l’ambiente culturale in cui furono realizzate. Per chiarire il concetto faccio un esempio: che senso avrebbe per uno studente italiano, che vive in Italia, voler analizzare in maniera approfondita la scultura buddhista di epoca Nara (710-784), se tutte le opere di questo tipo si trovano in Giappone, per lo più in templi non sempre facili da visitare?
Mi sono posto questa domanda già tanto tempo fa, ai tempi dell’università. La risposta che ne è scaturita è stata la base per tutto quello che dal punto di vista professionale ho fatto in seguito, e che tuttora continuo a fare.
Dopo una logica riflessione, decisi allora, con naturalezza, che ciò che realmente mi interessava, e mi interessa, è lo studio dei contatti tra le culture, come sono avvenuti gli “Incontri” (per citare l’azzeccato titolo di una bella mostra che qualche hanno fa si tenne al Victoria and Albert Museum di Londra), in che modo questi hanno influenzato le relazioni culturali tra popoli tanto lontani. Ho immaginato, dunque, me stesso come una sorta di ‘ponte’ tra l’Occidente, l’Italia in particolare, e l’Asia lontana, nello specifico la Cina e il Giappone.
Qualcuno potrebbe a questo punto chiedersi: “Ma allora gli oggetti di cui parlavi, quelli senza i quali la storia dell’arte non esiste, che fino hanno fatto? Non dicevi di essere uno ‘storico dell’arte’?”
Ebbene, quegli oggetti esitono, eccome! La penisola italiana è ricchissima di manufatti cinesi e giapponesi importati nel passato; inoltre, non mancano i documenti dell’epoca, preziosissimi per capire alcuni meccanismi con cui avvenne il contatto. Personalmente, ho avuto la conferma di tutto ciò in quello che è stato il mio primo studio di ampio respiro, riguardante la collezione storica di arte e cinese e giapponese di Palazzo Pitti, a Firenze. Allora dedicai molto tempo allo studio analitico degli oggetti ma, soprattutto, consultai un’enorme mole di documenti antichi. Mi si chiari allora un quadro esaltante, tanto che riuscì a pubblicare un volume di ben 500 pagine (“Dalle Indie Orientali alla corte di Toscana. Collezioni di arte cinese e giapponese a Palazzo Pitti”, Firenze 2005), nel quale ripercorrevo la storia del gusto per l’Estremo Oriente e le sue arti a Firenze, dal XV al XX secolo. Dopo di allora, la maggior parte delle cose che ho scritto – tranne alcune eccezioni – ha riguardato lo sviluppo di questo argomento, che continua sempre più a piacermi.
Tra i personaggi storici che maggiormente hanno contribuito a creare quel ‘ponte’ di cui vi parlavo, occupa sicuramente un ruolo preminente Matteo Ricci (1552-1610), gesuita maceratese in Cina dal 1582 al termine della sua vita. Un uomo di capacità intellettive superiori, capace come pochi di intuire la complessità di un sistema culturale, quello cinese, così diverso dal suo. Tenace e perspicace, Matteo Ricci comprese che la Cina non era un paese ostile nei confronti degli stranieri per pregiudizio: il confronto e lo scambio potevano avvenire a patto, però, che si inserissero nell’ambito di alcune regole, prima tra tutte il rispetto per l’autorità e per l’autonomia del Grande Impero.
Come non ammirare la sua scelta di realizzare un mappamondo ponendovi al centro non l’Europa, com’era norma nella geografia occidentale del tempo, bensì la Cina? I cinesi poterono così prendere atto dell’esistenza di altre civiltà conservando per il proprio paese il ruolo di “Regno di Mezzo”, centro del mondo, che credevano fermamente spettasse loro per storia e diritto. D’altra parte, il gesuita riusciva così a penetrare nelle strette maglie della complicata psicologia cinese, facendosi accettare dalla comunità, soprattutto dall’elite intellettuale. Matteo Ricci ebbe questa meravigliosa intuizione già nel 1584, anno in cui, dopo aver personalmente disegnato la mappa, ne diede alle stampe alcune copie. In seguito, ne avrebbe realizzato altre versioni sempre più aggiornate e dettagliate, alcune dipinte a mano con chiare velleità artistiche, finchè una fu richiesta dallo stesso imperatore Wanli (1573-1620) che volle appenderla addirittura nella sala del trono. Matteo Ricci non fu mai ammesso al cospetto dell’imperatore il quale tuttavia lo conosceva e apprezzava moltissimo se nel 1601 egli stesso richiese al gesuita di trasferirsi a Pechino, nel recinto della Città Proibita, per prestare servizio a corte, stipendiato dall’Impero. Incuriosito dall’aspetto di quell’europeo, Wanli non si abbassò a riceverlo ma richiese che fosse ritratto in un dipinto.
Il più grande merito di Matteo Ricci fu dunque quello di cercare
l’integrazione con il popolo cinese. Perciò egli per prima cosa si appropriò degli strumenti per il dialogo: oltre ad imparare gli usi, i costumi e le tradizioni, si impegnò fin da subito per apprendere la lingua cinese. Fu talmente bravo che nel volgere di pochissimi anni riuscì a scrivere dei trattati con i difficili ideogrammi estremo-orientali: il “De Amicitia”, raccolta di detti sul tema dell’amicizia, fu completato già nel 1595. A quel tempo il Ricci era già conosciuto da tutti col nome cinesizzato di Li Madou, con il quale è ancora ricordato in quel paese. In seguito egli avrebbe continuato a scrivere, soprattutto testi riguardanti il catechismo, ma anche libelli di carattere scientifico, tra i quali la traduzione dal latino al cinese dei primi sei libri dell’”Euclides elementorum libri XV” di Cristoforo Clavio (Roma 1574).
La divulgazione dei traguardi scientifici occidentali fu di vitale importanza nell’operato di Matteo Ricci. Pur non essendo uno scienziato nel vero senso del termine, il gesuita riuscì proprio grazie alle sue conoscenze matematiche e astronomiche, acquisite a Roma durante il noviziato, ad entrare nelle grazie della corte imperiale. In particolare Li Madou pose le basi per la riforma dell’ormai antiquato calendario cinese, dimostrando in più occasioni agli astronomi cinesi la maggiore precisione delle previsioni di quello occidentale. Il suo lavoro in quest’ambito fu poi continuato dai suoi successori, e in particolare dal gesuita Johann Adam Schall, divenuto Direttore dell’Ufficio Imperiale delle Osservazioni Astronomiche di Pechino nel 1644.
La cartografia, la matematica, la linguistica, l’astronomia: Matteo Ricci comprese immediatamente che queste sue conoscenze avrebbero contribuito al raggiungimento del fine che si era prefissato, che era anche lo scopo per cui da Roma era stato inviato in Cina, ovvero la conversione dei cinesi alla dottrina cristiana. Il sogno di Matteo Ricci era grandioso: convertire l’Imperatore e i maggiorenti dell’aristocrazia. Al contrario di altri missionari in Oriente, i gesuiti compresero che per divulgare la parola di Cristo a tutta la società cinese era preferibile puntare subito in alto, piuttosto che dedicarsi agli strati meno abbienti della popolazione. Si poteva quindi sfruttare la naturale apertura e la tolleranza dei cinesi – devoti soprattutto al sistema confuciano di tipo etico – verso le novità religiose, diffondendo i concetti cristiani nel loro valore universale e spirituale, liberi da forzati rimandi culturali all’Occidente e alla Chiesa di Roma. In questo si impegnò Matteo Ricci, che altro non fece che seguire le linee guida messe a punto da Padre Alessandro Valignano (1539-1606), Vicario in Oriente per l’Ordine dei gesuiti. Tutto ciò traspare dal volume “Tianzhi shiyi” (“Vera esposizione del Signore del Cielo”), catechismo semplice e adatto alle conoscenze dei cinesi pubblicato da Li Madou nel 1603, nel quale il missionario tentava, con un certo successo, di mediare tra la fede cristiana e l’innata spiritualità dei cinesi.
In ognuna delle città cinesi in cui soggiornò Matteo Ricci fondò delle comunità cristiane molto attive, frequentate da un buon numero di convertiti, alcuni dei quali personalità intellettuali di spicco, come Li Zhizao e Xu Quanchi. Soprattutto, però si integrò perfettamente nel sistema cinese, tanto che si può dire che diventasse egli stesso un cittadino cinese, in particolare agli occhi di quel grande popolo. Ne è dimostrazione la presenza di un suo ritratto nella galleria di uomini illustri scolpita in un fregio in marmo che orna la sala d’onore del Millenium Museum di Pechino, inaugurato nel 2000. Solo ad un altro occidentale, il veneziano Marco Polo, è stato concesso lo stesso onore, di figurare nella storia cinese insieme a personaggi quali Qin Shi Guandi, l’Imperatore che riunificò la Cina nel 221 a.C., o Den Xiaoping (1904-1997), statista del Novecento e mente dell’attuale rinascita economica del grande Impero cinese.
Nel 2010 cade il quattrocentesimo anniversario della morte di Matteo Ricci. Una ricorrenza di grande importanza che coinvolge un gran numero di istituzioni dislocate in tutto il mondo, tra mostre, convegni e commemorazioni, culminanti, a mio avviso, nella grande esposizione che si terra in tre sedi (Pechino, Shanghai e Nanchino) tra il febbraio e il luglio del 2010, intitolata “Matteo Ricci, incontro di civiltà nella Cina dei Ming”.
Alcuni eventi hanno avuto già inizio nel 2009, come la mostra “Ai crinali della storia. Padre Matteo Ricci fra Roma e Pechino”, curata da Antonio Paolucci e Giovanni Morello, e tenutasi nel Braccio di Carlo Magno del Vaticano, dal 30 ottobre 2009 al 24 gennaio 2010. Io l’ho visitata e l’ho apprezzata. Ho così ripercorso l’avventura che è stata la vita di questo grande personaggio, dagli inizi nella sua Macerata al trasferimento nella Roma dei papi per studiare nell’ordine dei Gesuiti, fondato solo qualche decennio prima da Sant’Ignazio di Loyola; da Lisbona all’India, e quindi a Macao, da dove sarebbe poi iniziato il lento e faticoso viaggio di avvicinamento, con soggiorni prolungati in molte altre città cinesi, verso la Città Proibita. Nella mostra si susseguivano dunque ritratti e oggetti, manoscritti e libri, alcuni dei quali di mano dello stesso Ricci. Nella sezione finale ampio spazio era riservato alla descrizione della Cina in cui il celebre gesuita operò, con oggetti d’arte e di alto artigianato, appartenenti a quelle tipologie che meglio rappresentano l’incontro tra la cultura occidentale e quella del “Regno di Mezzo” all’epoca del viaggio di Matteo Ricci, sul finire della dinastia dei Ming (1368-1644). Gran parte di questi manufatti cinesi proveniva dal Museo d’Arte Orientale di Roma, alcuni dal Museo Etnologico di Parma, altri da istituzioni di vario tipo anche estere.
Unica nota un po’ stonata di questa mostra, a mio parere, il catalogo. A parte la qualità di alcune immagini veramente bassa, al limite della leggibilità dell’opera, i saggi che si susseguono nel volume (edito da Allemandi, Torino, e presentato nientemeno che da Benedetto XVI) mostrano una certa ripetitività di informazioni, come se non ci fosse stato accordo nel comitato scientifico perchè ognuno degli autori si occupasse di un aspetto specifico dell’argomento. Non voglio con questo dire che i saggi non siano validi, tutti, ma spesso mi sono ritrovato a leggere le stesse notizie per più volte mentre, al contrario, ho avuto difficoltà nel reperire rapidamente un’informazione di cui avevo bisogno, dovendo in molti casi ‘ripassare’ tutti gli articoli a questo fine.
Per prendere visione del programma di eventi connessi con le celebrazioni per Matteo Ricci, si consulti il sito all’indirizzo http://padrematteoricci.it/