A Torino il Giappone, la sua cultura e le sue arti attraggono senz’altro un numero sempre crescente di estimatori. Il culmine di questa attenzione dei piemontesi per l’Oriente è stato raggiunto nell’autunno del 2008, con l’apertura di quello straordinario spazio espositivo che è il MAO (Museo di Arte Orientale), un vero e proprio tempio dell’arte dell’Asia in Italia, del quale spero in futuro di avere occasione di scrivere in questa sede.
Di arte e di cultura giapponese, inoltre, si occupa a Torino, da più di trent’anni, la scuola Yoshin Ryu, all’iniziativa della quale si deve l’organizzazione nel recente passato di alcuni eventi molto interessanti.
L’ultimo in ordine di tempo, tenutosi nell’affascinante cornice di Palazzo Barolo tra il 14 novembre e il 20 dicembre 2009, ha riguardato un aspetto della civiltà giapponese non certo trascurabile, ovvero il teatro Nō. La mostra, intitolata “Omote. Le maschere del teatro Nō”, proponeva una selezione di maschere realizzate dal maestro Nomura Ran, residente a Hiroshima e guida di una rinomata scuola di intaglio tradizionale che tuttora produce maschere per i migliori attori del paese. L’evento costituiva il terzo episodio di una rassegna (“Giappone. Lo spirito nella forma”) che nel 2007-2008 aveva avuto come tema “Ceramiche e bonsai” e nel tardo 2008 la calligrafia (“Shodo”).
Per il teatro Nō la maschera assume significati che vanno ben oltre l’interpretazione di un ruolo. Essa è il personaggio. O meglio, incarna lo spirito più profondo ed emozionale del personaggio, e per traslazione diventa simbolo di un’idea, di una condizione umana, di uno stato dell’essere. L’attore stesso prova una totale identificazione con la maschera, e quindi con il ruolo da interpretare, scegliendo di annullare la propria personalità per cedere alle suggestioni dell’ultraterreno, elevandosi dall’ambito mondano a quello divino. Per questo le maschere raggiungono la fama, non solo in quanto oggetti d’arte di ineguagliabile bellezza, ma soprattutto per l’alone di sacralità che le circonda.
Una sacralità, invero, tutta giapponese, sintesi originalissima di Shintosimo e Buddhismo, come si è delineata nel corso dei secoli, durante i quali la “Via degli Dei” (lo Shintosimo) si è fusa con la dottrina di origini indiane proveniente dalla Cina.
D’altronde, tutto il teatro Nō è fortemente imbevuto di questa profonda religiosità, dalle origini, e prima ancora di queste. La messa a punto dei canoni di questa raffinatissima forma teatrale si deve sostanzialmente a Zeami Motokiyo (1363-1443) che poté farlo grazie soprattutto al’appoggio dello shōgun, il “generalissimo”, Ashikaga Yoshimitsu (1358-1408). Fu Zeami, egli stesso figlio di un valentissimo attore, Kan’ami Kiyotsugu (1333-1384), che trasformò il Sarugaku, la forma teatrale alla quale si erano dedicati i suoi avi e lui da giovane, nel Nō, conferendole una caratura artistica sublime; fu Zeami a ideare decine di sceneggiature, più o meno originali, che a tutt’oggi costituiscono una buona parte del repertorio del Nō; fu Zeami a creare una scuola di grande successo che avrebbe poi ispirato altri attori, i discendenti dei quali ancora oggi calcano i palcoscenici. Ma soprattutto, fu Zeami a scrivere dei testi nei quali, con eleganza di scrittura e inimitabile sofisticatezza di contenuti, rendeva noti i principi teorici ed estetici del suo teatro, guida per tutte le successive generazioni di attori. Ed è soltanto paradossale che i suoi testi – tra cui il più noto “Fūshi kaden” e i successivi “Shikadōsho” e “Nōsakusho” – siano a lungo rimasti inediti, fino al 1883, anno in cui il primo fu finalmente pubblicato, nonostante nei secoli precedenti il teatro Nō incodizionatamente a loro si rifacesse per i suoi sviluppi.
Gran parte della sofisticatissima estetica del teatro Nō deriva da una profonda assimilazione di concetti religiosi, molti dei quali di matrice Zen, ovvero quella scuola del Buddhismo originatasi in Cina che in Giappone ottenne straordinari consensi, soprattutto per l’appoggio che le diedero i membri della classe dei samurai. Alcune delle forme artistiche giapponesi più tipiche – come la pittura a inchiostro (sumi-e), la cerimonia del the (chanoyu) e l’arte di disporre i fiori (ikebana) – sono dirette emanazioni dello Zen, così come lo è il teatro Nō, pur tenendo presente l’apporto fondamentale dello Shintosimo. La semplicità, la sintesi, la rarefazione, la moderazione, la malinconia, sono tutti elementi presenti nel teatro di Zeami che si possono immediatamente mettere in relazione ai principi della dottrina Zen. D’altronde Zeami nel 1422 diventò monaco, pur continuando a dedicarsi al teatro. Allo Zen si deve ricondurre anche lo speciale rapporto che lega gli attori più esperti di una scuola agli allievi più giovani: così come in passato, ancora oggi il Maestro non insegna la sua arte con la teoria, bensì mostrando al discepolo la sua tecnica, così che egli possa in seguito esercitarsi nell’imitazione. Quello di ‘dare l’esempio’ è uno dei
cardini filosofici dello Zen che, come si può ben immaginare, piacque fin da subito ai militari, naturalmente inclini più all’azione che alle elucubrazioni.
In questo contesto di filosofia Zen connessa con i cardini del teatro Nō, si può anche spiegare dunque la funzione della maschera. Essa è sintesi di Vuoto e Pieno (altro concetto base dello Zen) che unisce il lavoro dello scultore, l’interpretazione dell’attore, le luci e le ombre dell’ambientazione scenografica, il dramma dell’esistenza umana, l’insonadabile mistero del divino e, naturalmente, la partecipazione del pubblico. Il Nō è rappresentazione teatrale complessa, di difficile interpretazione, che richiede allo spettatore non solo pazienza e predisposizione per performaces lunghe e a volte estenuanti, ma anche previa conoscenza di una simbologia sofisticata, se non ermetica, e di multiformi rimandi culturali. Insomma, il Nō nacque come teatro élitario e tale rimane, sebbene oggi i tempi delle rappresentazioni siano notevolmente ridotti e il pubblico sia ben più preparato. Tuttavia, la sua grandiosa carica emotiva rimane intatta nonostante il trascorrere dei secoli e le traformazioni della modernità.
La mostra di Torino apre con decisione anche al pubblico italiano le porte di quell’arte sublime che è il teatro Nō. Le maschere del Maestro Nomura Ran sono infatti bellissime e di certo hanno aperto un varco su quel mondo.
Inoltre, il catalogo pubblicato in occasione dell’esposizione contiene chiavi di lettura utilissime per la comprensione di quest’arte. Tra i testi, voglio segnalare il saggio di Matteo Casari, professore presso l’Università di Bologna e già autore di alcuni interventi sul Nō, tra i quali la recente monografia “Teatro nō. La Via dei maestri e la trasmissione dei saperi”, CLUEB, Bologna 2008. Per quanto mi riguarda, ho assistito nel 2009 (mi pare) ad una sua conferenza sul Nō presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli, che ho molto apprezzato, non solo per lo stile chiaro e conciso dell’esposizione ma anche perchè il Casari proiettò fotografie e filmati esclusivi molto interessanti del suo archivio personale, ripresi durante la sua lunga frequentazione giapponese di note scuole di teatro Nō.
Infine, vorrei complimentarmi con la Yoshin Ryu, oltre che per l’organizzazione della mostra, anche per aver pubblicato l’elegante catalogo – accompagnato da un bel volumetto con la riproduzione dei disegni di maschere del Maestro Nomura Ran – in proprio, senza cioè affidarsi ad una casa editrice esterna, come usualmente si fa. E’ una lungimirante dimostrazione di consapevolezza della qualità del proprio lavoro che certo avrà premiato.