La musica è stata una mia grande passione. Scrivo ‘è stata’ non perchè ora non mi piaccia la musica, anzi. Tuttavia, fino a qualche anno fa, i ritmi della mia vita erano letteralmente scanditi dalla musica. Una musica potente, di batteria pulsante e tragici riffs di chitarra e basso; lunghissime cavalcate di improvvisazioni sonore, coi tempi di tamburi ossessivi e amplificazioni distorte. Ebbene sì, per molto tempo, dall’adolescenza a qualche anno fa, ho trascorsi numerosissimi pomeriggi, e nottate, a suonare in un gruppo rock. Poi, senza rimpianti, il meccanismo si è rotto e ho ‘appeso la chitarra (Gibson Les Paul, ovviamente…) al chiodo’, e sono passato tra coloro i quali la musica l’ascoltano e non la producono. A quei tempi (si tratta solo di dieci anni fa in effetti, ma quanto lontani mi sembrano ora!), oltre a suonare musica composta da noi, spesso con la band ci dilettavamo a suonare brani musicali altrui che qualche volta, incoscientemente, riproponevamo anche al pubblico durante i nostri concertini. Avevamo quindi in repertorio anche delle cosiddette covers, quindi. Erano pezzi che, ovviamente, ci piacevano particolarmente, capolavori di gruppi storici della musica rock, oppure canzoni di gruppi contemporanei che ci avevano particolarmente colpito. Rifacevamo questi brani a modo nostro, non cercando di riprodurli fedelmente, primo perchè anche volendo non saremmo riusciti a farlo considerando i limiti del nostro potenziale tecnico (almeno del mio…), poi anche perché quella non era la nostra intenzione. Credetemi, è così. Quello delle prove era il momento in cui più spesso suonavamo queste covers. Bastava che uno di noi tre accennasse ad un riff, o ad un pattern di batteria, che subito gli altri capivano di cosa si trattasse, e partiva così la cover. Nella maggior parte dei casi il tutto finiva lì; alcune volte, però, si decideva di ‘studiare’ il pezzo, e allora si preparava più accuratamente l’interpretazione. Tra le cover ‘estemporanee’, ovvero quelle della durata di qualche minuto a prova, così per divertirci, c’erano sicuramente gli hits di alcuni nostri musicisti-mito, come i Led Zeppelin oppure Jimi Hendrix. Non posso certo ricordare tutte le volte in cui abbiamo ‘suonicchiato’ Whola lotta love oppure Foxy lady, godendo tutti da pazzi per quelle escursioni nella storia del rock. Tuttavia, a nessuno di noi è mai passato per la testa, neanche lontanamente, di riprodurre in pubblico brani come quelli che ho ricordato. Ripeto, prima di tutto perchè non saremmo stati capaci di farlo degnamente; poi, e in questo caso direi soprattutto, perchè in quei casi anche farlo ‘a modo nostro’, senza preoccuparci della verosomiglianza, ci sembrava come una sorta di ‘profanazione’, un’invasione in un ambito che a quel tempo consideravamo sacro, nel senso letterale della parola. Chi eravamo noi, esserini con la chitarrina, le voci stridule e quattro tamburelli, per osare riprodurre indegnamente in pubblico Achilles last stands o Purple Haze? Vi assicuro, tra noi della band, ne parlammo raramente, ma eravamo ben in accordo sul fatto che quelle opere meritavano un maggiore rispetto, e per questo non le studiammo (o forse si, ma ognuno per conto proprio, o almeno io lo feci, con risultati non certo esaltanti, lo ammetto…), e non le suonammo mai in pubblico, se non tra amici stretti e in certi particolari momenti.
Trascorso il tempo della musica ‘suonata’, posso dire che non ho ancora perso l’abitudine di riservare a certi argomenti un particolare rispetto. E’ vero, diventando più adulti si acquisisce una maggiore consapevolezza dei propri mezzi, svaniscono i meccanismi della ‘mitizzazione’ e si comincia perciò a considerare certi personaggi che prima si ‘santificavano’ (lo giuro, al tempo, io Jimi Hendrix lo pensavo dotato di aureola e poteri magici!) come uomini, o donne, particolarmente dotate sì, ma non super-uomini. Si potrebbe a questo punto intavolare una lunga discussione su cosa sia la Genialità e per quali caratteristiche si possa identificare un Genio, e quindi elevarlo al di sopra dei comuni mortali. Tuttavia, non cadrò in questo tranello, di iniziare queste riflessioni ‘paragnostiche’ e al limite della decenza intellettuale, e mi limiterò a riaffermare quello appena scritto, ovvero che a una certa età si costruisce un certo tipo di giudizio, che non può valere in un altro momento della propria vita, proprio perché i termini di paragone, gli elementi per giudicare, sono nel frattempo cambiati, radicalmente.

Una foto di Fosco Maraini con una Ama di Hekura, 1954

Con queste motivazioni-giustificazioni, ora, a pochi mesi dal mio ingresso ufficiale negli ‘anta’, ho coraggio e sufficiente consapevolezza per poter scrivere qualcosa su un personaggio che in altri momenti della mia vita ho considerato come una sorta di mito, un ‘Jimi Hendrix’ della yamatologia. Mi riferisco, ovviamente, a Fosco Maraini (1912-2004).
Nella mia formazione di appassionato e studioso della cultura giapponese, l’opera di Fosco Maraini è stata rivelatrice. Nella mia memoria rimarrà indelebile per sempre soprattutto la lettura del suo Ore giapponesi (1957; bellissima e tuttora disponibile la versione illustrata edita da Corbaccio), un testo che ha avuto, ed ha tuttora, una straordinaria capacità di trasmettere emozioni. Non solo a chi si occupi dello studio della cultura giapponese, ma ad un pubblico più vasto ed eterogeneo, tant’è vero che esso ebbe numerose traduzioni in tutto il mondo ed un eccezionale risultato nelle vendite, divenendo di fatto un vero e proprio bestseller. Maraini sciveva infatti benissimo, utilizzando un linguaggio colto ma non pedante, ben comprensibile ad un pubblico ampio, non solo ad un ristretta cerchia di specialisti. Ore giapponesi contiene è vero una grande quantità di informazioni sulla cultura nipponica, ma è anche un racconto di viaggio, il resoconto romanzato di un’esperienza vissuta in prima persona in un paese che allora, immediatamente dopo la fine della guerra, si apprestava ad affrontare una serie di cambiamenti sociali, economici e culturali di portata epocale. Maraini già conosceva il Giappone: vi si era recato con la sua famiglia sul finire del 1938, con una borsa di studio incentrata sui costumi tradizionali degli Ainu, la popolazione indigena dell’Hokkaidō, l’isola più settentrionale dell’arcipelago nipponico. Vi era rimasto anche a borsa scaduta, trasferendosi a Kyoto come lettore di lingua italiana all’Università, a guerra mondiale già scoppiata. Convinto anti-fascista, avrebbe subito le terribili angherie del governo e dell’esercito giapponese allorché si dissolse l’alleanza con l’Italia che stava allora ripudiando il suo recente e tristissimo passato fascista. Gli eventi della durissima prigionia, sua, di sua moglie e delle sue piccolissime figlie, costituiscono la parte finale di Ore giapponesi. In un crescendo di soprusi, sofferenze per fame e condizioni igieniche al limite della sopravvivenza, il racconto di Maraini si fa capolavoro, letteratura altissima e testimonianza di un tempo in cui vita e morte correvano a braccetto, alternandosi senza pietà nelle esistenze di uomini più o meno coraggiosi.

Una foto di Fosco Maraini con una Ama di Hekura, 1954

Tuttavia, affermare che Fosco Maraini sia stato ‘solo’ un buon scrittore, un viaggiatore, esperto di Giappone, che visse un’esperienza personale particolarmente drammatica, sarebbe per lo meno riduttivo, e inoltre non renderebbe giustizia ad un personaggio tra i più affascinanti e poliedrici del Novecento. Egli fu antropologo ed etnologo di spessore, autore di numerosi saggi scientificamente irreprensibili; tibetologo riconosciuto, autore di Segreto Tibet, un volume di successo pari a Ore giapponesi, in cui raccontò i suoi due viaggi in Tibet (1937, 1948) al seguito del professor Giuseppe Tucci; scrittore e poeta ispiratissimo, inventore di quel linguaggio “metasemantico” che si dispiega in tutta la sua baldanza ne Le Fànfole (1996), e nel seguito di quest’ultimo (Gnosi delle Fànafole, 1994); conoscitore d’arte, per aver pubblicato collezioni di arte giapponese in Italia e aver curato mostre di rilievo; alpinista di prima linea e sportivo dal fisico scultoreo, per aver accompagnato sul finire degli anni Cinquanta importanti spedizioni sui colossi del Karakorum. Esperienze, dunque, diversificate ed emozionanti, alle quali Maraini partecipò sempre portando con sé attrezzature fotografiche e cinematografiche.
La fotografia è stata per Fosco un mezzo fondamentale nell’ambito delle sue ricerche. Nel corso di una vita lunga e avventurosa, egli scattò migliaia di bellissime fotografie, i negativi delle quali si trovano oggi nel Centro di Studi Orientali Viesseux-Asia, nella sua Firenze, insieme alla sua ricca biblioteca sulle culture orientali, alle quale, purtroppo, negli ultimi mesi si accede con sempre maggiori difficoltà, per motivi organizzativi, immagino…

Una foto di Fosco Maraini con una Ama di Hekura, 1954

Le sue fotografie, pubblicate in numerose occasioni da lui stesso, furono esposte in una straordinaria selezione nel 1999, in una mostra itinerante intitolata Il Miramondo. La prima sede dell’esposizione fu Firenze, presso il Museo Marino Marini. Fu allora – nel corso dell’inaugurazione – che io, timido e giovane neolaureato in arte giapponese, mi feci avanti e, con l’aiuto della prof.ssa Sagiyama, mi presentai al grande Fosco Maraini. Pochissimi minuti, giusto il tempo di stringerci la mano (una mano robusta, ferma, nonostante i quasi novant’anni), scambiarci due parole (“Ah, così ha scritto una tesi su Toshusai Sharaku?”, “Sì, professore, è un artista che mi affascina…”, “Bene, allora molti auguri!”) e incrociare gli sguardi, il suo luminoso attraverso le spesse lenti da vista. Brevi istanti, che allora mi riempirono di orgoglio, del tipo “Ho stretto la mano a Maraini!”, cosa che avrei potuto dire fino a pochi anni prima se avessi incontrato, a proposito di un altro genere di mito, qulcuno del tipo di Ozzy Osbourne dei Black Sabbath…
Ho iniziato a scrivere questo articoletto su Fosco Maraini accennando a quei miti, di ogni tipo, che accompagnano certe fasi della vita di ognuno di noi, non tutti ovviamente ma molti. Maraini, e i suoi scritti, hanno fatto il loro ingresso nella mia vita in un momento diverso, all’epoca dell’università, e poi negli anni immediatamente successivi alla laurea, quando ebbi più tempo e disposizione per studiare con maggior profitto le culture dell’Asia. Oggi, ascolto ancora volentieri, con gaudio, il rock e le canzoni che mi piacevano allora; così come, leggo – e rileggo – con riverenza i capolavori letterari di Maraini.

Una foto di Fosco Maraini con una Ama di Hekura, 1954

Ne ho approfittato proprio recentemente, allorché ho acquistato il volume de “I Meridiani” Mondadori dedicato a Maraini (Pellegrino in Asia. Opere scelte, 2007), nel quale compaiono integralmente Ore giapponesi e Segreto Tibet (senza però corredo di immagini), oltre ad una selezione tra la sua ampia opera, con introduzioni, saggi e apparati di Franco Marcoaldi e Francesco Paolo Campione. Avevo letto naturalmente i singoli scritti citati, ma ho acquistato l’elegante libro della prestigiosa collana con la volontà di omaggiare questa grande figura che tanto mi ha dato, e alla quale tanto debbo.
Migliore occasione d’altronde non poteva esserci. Ricorre infatti quest’anno il centenario della nascita di Maraini e in molti si sono mossi per organizzare degni festeggiamenti, soprattutto nella sua amata Firenze (v. programma degli eventi). Pur non potendo esser presente a tutti gli incontri, non ho voluto mancare di visitare la mostra di sue fotografie che si è tenuta presso Palazzo Medici Riccardi. Intitolata L’incanto delle Donne del Mare. Fosco Maraini. Fotografie. Giappone 1954 (catalogo Giunti Editore), essa è in realtà la riproposizione di un’esposizione che si tenne a Lugano e in altre sedi a partire dal 2005.
Maraini raccolse queste fotografie nel corso di una spedizione che guidò nel 1954 sull’isola di Hekura, ubicata al largo della costa occidentale dell’isola di Honshū. Su questa piccola isoletta viveva allora una delle ultima comunità di Ama del Giappone, ovvero i residui sconvolti dall’incipiente industrializzazione di una popolazione ben più ampia di giapponesi dediti esclusivamente alla pesca quale fonte di sostentamento. Alle donne Ama era per tradizione secolare assegnato il compito di pescare nei fondali marini le conchiglie awabi, una leccornia apprezzata in tutto il Giappone. Maraini documentò con eleganza straordinaria l’attività di queste bellissime donne intente a recuperare i frutti del mare, senza l’ausilio di alcuno strumento se si eccettua una sorta di coltellaccio. Scendendo in profondità in apnea fino anche a dieci metri e oltre, queste regine del mare erano le ultime eredi di una tradizione che molto ispirò la letteratura e l’arte giapponesi, soprattutto nel periodo Edo (1615-1868). Ritenute simbolo di un erotismo baldanzoso e genuino, le donne Ama compaiono nei romanzi di Ihara Saikaku come nelle xilografie dell’Ukiyo-e, nei netsuke come nelle fotografie di epoca Meiji (1868-1912).
Il grande Fosco riuscì in questa sua impresa documentaristica a penetrare tra le diffidenze di un popolo per certi versi ancora allora emarginato dagli altri giapponesi, convincendo con gentilezza e sagacia le donne del mare a mostrarsi in tutta la loro straripante fisicità. I corpi quasi del tutto nudi, scolpiti, si impongono in immagini di rara bellezza, sia alla luce del sole, sia tra gli abissi marini (Maraini utilizzò per le riprese subacquee un sorta di scafandro per la macchina fotografica, che fece costruire per l’occasione, memore delle sue esperienze di qualche tempo prima alle isole Eolie). Non si impongono però le spettacolari immagini per carica erotica (anche se l’esposizione del nudo femminile dovette facilitare il successo di queste immagini quando esse furono pubblicate al ritorno in Europa, su varie riviste internazionali): Maraini cercò tra quei corpi statuari, tra quelle abitazioni semplici quasi sgangherate, tra quegli oggetti umili eppur utilissimi, l’eco di un mondo sull’orlo della definitiva scomparsa; ne immortalò l’essenza tra vibranti nuances di nero, bianco e grigi, regalando a tutti noi un’emozione senza tempo.
Nell’impossibilità di definire la figura camaleontica di Fosco Maraini, questo forse si può affermare, che sia stato un ricettacolo di emozioni e sensazioni, con la dote non comune di riuscire a trasmettere la sua esperienza come pochi son riusciti a fare. Chiunque voglia, potrà così mettersi sulle tracce della sua vita straordinaria, lasciando da parte falsi miti e retoriche leggende, per inseguire un sogno dal quale non ci si sveglia neanche a occhi aperti.