A restarci un po’ di tempo, può capitare che si finisca col prendere le abitudini, il ritmo di un posto.
In Inghilterra, in questo periodo, le ore giornaliere di luce sono tantissime. E’ ancora imbrunire alle undici di sera ed è già giorno alle tre e mezzo del mattino.
Sarà per questo che in meno di una settimana ho preso a dormire pochissimo, in breve adeguandomi all’alternarsi di buio e luce di questa terra nordica. In pratica non c’è notte qui e, si sa, è la notte che concilia il sonno, non il giorno.
Non dormo e, così, scrivo.
Tuttavia, ho come l’impressione che, per spiegare questa mia sorta di insonnia, a questa motivazione ‘geopatica’ se ne debbano aggiungere altre, così che la diagnosi possa dirsi completa. La verità è che avverto fortissima una specie di fibrillazione. Mi succede che, ogni giorno, a sera, dopo una giornata di visite e incontri, tornato alla base stanchissimo, mi dico convinto che quello di cui avrei bisogno è una lunghissima sessione di sonno, di quel tipo pesante e senza sogni. Eppure, appena sdraiato protetto dal tepore della copertina che qui, nonostante l’estate, non guasta mai, comincio a riflettere su quel che ho visto, su quello che vedrò nel tempo che ancora resterò qui e su quello che, purtroppo lo so, non riuscirò a vedere, poiché qui vedere tutto è impossibile. Sono le undici di sera. Mi giro e mi rigiro tra le lenzuola; mi verrebbe da alzarmi e mettermi al tavolino; fumo un’altra sigaretta?; no, meglio di no, che quelle anche oggi non mi sono mancate; infine, mi costringo a dormire, che non è possibile che non abbia sonno dopo un’intera giornata in piedi, a camminare da un posto all’altro di questa immensa megalopoli. Con difficoltà, ma alla fine mi addormento. Qualche ora e poi, automaticamente, alle tre e mezzo, se va bene alle quattro, mi risveglio, al dolce cinguettio degli uccellini che solo interrompe l’assoluto silenzio.
Non dormo e, così, scrivo.
Scrivo perchè scrivere è l’unico modo che conosco per fermare il tempo, per custodire un’emozione. Certo, anche una foto ferma l’istante, anche una ripresa, e pure un oggetto ha il potere di assorbire l’attimo, di scatenare nella memoria di ognuno il ricordo del tempo passato. Persino un biscottino può accendere la luce tra le ombre dell’oblio, come spiegò mirabilmente un certo scrittore francese che si dedicava alla “Recherche”, e molti secoli prima, una raffinatissima dama di nome Murasaki, autrice di quel capolavoro della letteratura giapponese che è il Genji monogatari.
Così, scrivo.
Se potessi esaudire un desiderio, ora, vorrei che tutto quello che in questi giorni transita nella mia testolina, non molto capiente in verità, nonostante l’involucro (vedi cranio) sembri all’apparenza di notevoli proporzioni (un ‘testone’, per così dire), se potessi esaudirlo, chiederei che i miei pensieri fossero tutti messi per iscritto, rigurgitati sul foglio. Ho come l’impressione che ciò mi guarirebbe dalla mia ‘insonnia britannica’ e riuscirei quindi a dormire per un numero di ore più adeguato.
Così però non sarà e quindi debbo forzatamente selezionare gli argomenti su cui scrivere, poiché su tutto non potrò, conscio però che un giorno, chissà quando, magari sgranocchiando un dolcetto, il tremito di un déjà vu aprirà un varco nella mia memoria e mi riporterà in questo tempo, giugno-luglio del 2011, e in questo luogo, l’Inghilterra.
La realtà è che Londra per gli appassionati di arte orientale è un vero e proprio delirio. Pressoché infinite, infatti, sono le possibilità di avere un contatto con questo genere di manufatti antichi, tra musei, antiquari, collezionisti e case d’aste. Il meglio del meglio, in quantità spropositate. Ancora questa volta, nonostante abbia visitato questa capitale in molte occasioni, non posso non rimanere stupito dalla varietà di occasioni che si possono avere per ammirare oggetti d’arte cinese e giapponese, così che, sempre, per quanto lungo possa essere stato il periodo di soggiorno, alla fine, al momento di ripartire, ho sempre la sensazione di avere perso qualche occasione, di non aver visto qualcosa di importante, e che è necessario che torni al più presto. Sono sincero, Londra è senza dubbio la città che preferisco per soddisfare la mia passione e il mio lavoro. Non ha rivali, nel mondo intero.
Tra l’altro, a Londra si trova anche quello che considero come il museo più bello al mondo: il Victoria & Albert.
In un’altra occasione, sempre su questo mio diario ‘aperto’, ho avuto modo di svelare questa mia predilezione per questo museo inglese. Le motivazioni che allora adducevo rimangono le stesse anche oggi, nonostante il trascorrere del tempo e i nuovi musei che nel frattempo ho avuto modo di conoscere.
Una tra queste ragioni, tra le moltissime, come scrivevo, è che questo museo è un’entità oltremodo viva, pulsante, in ininterrotta evoluzione. Non c’è stata volta, tra le numerose in cui ho avuto l’occasione di visitare questo museo nell’ultimo decennio in cui non abbia trovato delle novità, tra piccole e grandi, che mi abbiano offerto stimolanti spunti di riflessione. Tra mostre temporanee, nuovi allestimenti, pubblicazioni, tenendo in ogni caso presente che le sue collezioni permanenti sono così vaste che non basterebbe una vita intera per conoscerle tutte.
Ancora una volta, in quest’ultima occasione, ho avuto conferma dell’inesauribile vitalità di questo straordinario contenitore di tesori. Anzi, a dire il vero, questa volta le novità erano tali che alla sorpresa e alla soddisfazione, si sono aggiunti anche sentimenti e sensazioni quali l’ammirazione, la gratitudine e persino la devozione.
Dopo alcuni anni di lavori, infatti, è stato finalmente riaperto al pubblico il sesto piano del museo, quello in cui da sempre erano ubicate le stupefacenti raccolte ceramiche. E’ stato un riallestimento necessario che, a quanto ricordo, è avvenuto in seguito ad un furto. La direzione si è decisa allora a modernizzare l’intero reparto soprattutto per motivi di sicurezza, poiché le vetrine di una volta, antiche e pur bellissime, non garantivano più un’adeguata protezione agli oggetti. Così, repentinamente, è partita una lunga fase di lavoro. Come me, in molti non avranno gradito questa chiusura che ha precluso per molto tempo la visione degli oggetti. Il vecchio allestimento, a parte la sicurezza, permetteva allo studioso di interagire con un numero eccezionale di pezzi. Le vetrine erano stipate di moltissimi oggetti così che i veri capolavori si alternavano ad esemplari meno importanti. Proprio questi ultimi, magari mai pubblicati, erano nella mia opinione i più interessanti e utili al conoscitore di ceramiche, fornendo quegli indispensabili confronti sui quali si basa lo studio scientifico degli oggetti d’arte. Per dire, devo studiare un pezzo esemplare di una tipologia ceramica meno nota, non riesco a trovare analogie e similitudini tra quelli pubblicati;una situazione che può scatenare ansia; calma, stai certo che una visita alle collezioni del V&A risolverà questo dilemma poiché, quasi sempre, tra quelle troverai l’oggetto somigliante, che in questo museo c’è tutto, o quasi. Anche questo: il V&A ha la capacità di trasmettere sicurezza, serenità, la madre, la balia di tutti i poveri storici dell’arte come me.
Ora, fatte queste premesse, il mio timore era che nel nuovo allestimento da poco completato tutto ciò potesse essere finito per sempre. Che i curatori, la direzione, gli architetti, avessero optato per un diverso tipo di sistemazione degli oggetti, prediligendo un ‘concept’ più minimale, con una selezione di pezzi, ognuno isolato rispetto all’altro, trasferendo le ceramiche meno importanti nei depositi. Grandissima parte dei musei del mondo ha scelto questo genere di allestimento, preferendo esporre solo i capolavori e relegando al tenero oblio dei magazzini tutto il resto. Gli studiosi, ovviamente, potranno richiedere la visione privata di questi pezzi meno importanti. Tuttavia, volete mettere il piacere della scoperta solitaria di un oggetto tra migliaia con la fredda richiesta di visione di un pezzo conservato nei depositi?
L’ascensore velocemente mi porta verso il sesto piano. Sono in ansia. Come reagirò a questa nuova esperienza?
Giubilo! Le porte si aprono e, iniziata la visita, subito mi rendo conto che sì, le vetrine e la loro disposizione sono cambiate, tutto è nuovo, leggero, arioso e luminoso, ma la quantità di oggetti in esposizione non è affatto diminuita. Anzi! Il numero dei pezzi è addirittura cresciuto rispetto alla precedente sistemazione. Lungo le numerose sale di cui si compone questo piano del V&A, si vedono migliaia e migliaia di ceramiche e porcellane, di ogni genere, inglesi, europee, medio-orientali, americane e naturalmente cinesi, coreane e giapponesi. Alcuni spazi si caratterizzano per un approccio didattico, educativo. In una delle sale, ad esempio, si spiega praticamente in cosa consista un oggetto in ceramica, quali siano le differenze tra le varie composizioni terrose (ceramica, porcellana, terracotta, grés, etc.), quali siano le varie tecniche per realizzare un manufatto ceramico. Così in questo spazio sono esposti oggetti di varie datazioni e luoghi di provenienza, per un approccio interdisciplinare. In questa amplissima sala si trovano anche alcuni laboratori, forniti di paste ceramiche e di tutti gli utensili necessari, nei quali alcuni addetti sono pronti a spiegare praticamente come nasca un oggetto ceramico. In questa sezione non poche sono le occasioni di toccare un pezzo antico per soddisfare anche le necessità del tatto. Vi è pure una piccola sala studio con alcuni libri di libera consultazione e numerose postazioni con computer, grazie ai quali il visitatore può effettuare una ricerca su un particolare genere di manufatto ceramico, tra quelli conservati in museo.
Tuttavia, la novità che più mi ha colpito è la presenza in alcune delle nuove sale di una sorta di deposito aperto. Mi spiego meglio. Le vetrine con gli oggetti ‘di prima scelta’ sono sistemate lungo le pareti, secondo tradizione museografica. Al centro della capiente sala, invece, si trovano due altre enormi vetrine, lunghe quasi come tutta la stanza e altrettanto alte; tra loro, al centro perfetto della sala, scorre un ampio corridoio chiuso sui due lati brevi da due imponenti porte a vetro trasparente. Le vetrine lunghe sono stipate di una quantità travolgente di pezzi, sistemati secondo ordini cronologici e tipologici, in maniera analoga a quello che si può vedere nei magazzini dei musei. Lo spazio centrale, invece, non aperto all’accesso del pubblico ma ben visibile dall’esterno, è utile al personale scientifico del museo, attrezzato con scala e tavolino per facilitare la ricerca di un oggetto.
La sala più spettacolare, a mio parere, è quella ubicata su uno dei due punti esterni del piano. Più piccola delle altre, mostra al suo interno una meravigliosa vetrina di forma semicircolare,al cui interno si vede una parte consistente delle strepitose raccolte di porcellana cinese da esportazione della dinastia Qing (1644-1911). Un vero e proprio tripudio ceramico, così drammaticamente fragile eppure così commovente nel suo svolgersi, tra pezzi di inusitata bellezza e perfezione cromatica, grazie ai quali si può davvero comprendere quale parte essenziale abbia svolto la porcellana nella storia dei contatti tra il grande impero orientale e l’Occidente. Tutte le ‘famiglie’ di questo genere ceramico sono rappresentate in questa sorta di Monolite Sacro che riesce ad imporre al visitatore, specialista, appassionato o semplicemente curioso, un silenzio esterefatto e la riflessione sui fatti del nostro passato.
Proprio la porcellana cinese da esportazione è l’argomento di un’ulteriore sorpresa che questa visita al V&A mi ha riservato. Di recentissima uscita è infatti un elegante volume edito dalla V&A Publishing, la casa editrice interna al museo, dedita alla pubblicazione degli studi riguardanti le collezioni del Victoria & Albert. Ricchissimo di bellissime fotografie di una parte dei pezzi conservati in museo, alcuni dei quali inediti fino ad ora, questo libro si distingue inoltre per apparato di testo consistente, grazie al quale è possibile approfondire la propria conoscenza sulla storia della porcellana cinese da esportazione. E’ inevitabile che esso, nel volgere di pochissimo tempo, diventi un punto di riferimento imprescindibile per gli appassionati di questo genere artistico, una nuova pietra miliare nello studio di questa interessantissima materia.
Gli autori di questo lavoro sono Rose Kerr, che è stata per lungo tempo curatore nel dipartimento di arte estremo-orientale del V&A, e senza dubbio una delle più stimate esperte di porcellana cinese del mondo; Ming Wilson, Senior Curator dello stesso museo, autrice nel 2004 di un volume sulle giade cinesi conservate nel V&A, presente in questo libro sulle porcellane da esportazione con un contributo; e, infine, Luisa Mengoni, attuale curatore delle collezioni cinesi del museo. La compresenza in questo lavoro di Rose Kerr e Luisa Mengoni, rappresentanti rispettivamente il recente passato e il presente, mi è sembrata una scelta di saggezza e responsabilità, per certi versi esemplare di una gestione oculata e serena della ricerca scientifica. Ho avuto l’impressione come se si fosse trattato di una sorta di ‘passaggio di consegne’ di conoscenze ed esperienze, come se il Maestro abbia voluto trasmettere al miglior Discepolo il proprio sapere. Tutto ciò per il bene del tempio (in questo caso il museo, ma nel caso specifico del V&A i due termini non mi sembrano così lontani). Un sistema semplice, che sembrerebbe scontato, che tuttavia denota una lungimiranza e un rigore che solo raramente ho visto applicato, quasi mai se penso all’esempio italiano. Tra l’altro, ho incontrato insieme Rose e Luisa in tempi recenti e la mia impressione è che, a vederle insieme, questa compenetrazione, quasi una complicità, trasparisse dalla loro vicinanza.
In ultimo, vorrei però spendere ancora altre poche parole su Luisa. Non farò delle sviolinate sulla sua preparazione scientifica poiché non è necessario: per essere lì dov’è, nel posto che occupa, bisogna aver dimostrato, e costantemente dimostrare, il proprio valore, il proprio impegno e il proprio entusiasmo. Posso però dire che ella è perfetto esempio di come uno studioso italiano possa ottenere le più grandi soddisfazioni nel proprio ambito di lavoro, non precludendosi alcun traguardo anche se questo a prima vista sembra lontanissimo. Luisa è per me quindi un esempio di ‘italianeità’ da ammirare e lodare, di come uno studioso italiano possa interagire senza alcun complesso di inferiorità con le deputate migliori menti del pianeta. Complimenti, quindi, Luisa, sono fiero di te!
Chissà se, chi dovrebbe preoccuparsi se un italiano di ingegno trova la propria strada all’estero invece che in Italia, non contribuendo così alla crescita di questa nazione sull’orlo del baratro, conoscendo la storia e le soddisfazioni di Luisa, sia per un momento conscio di quante perdite intellettuali continuiamo ad avere…
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