Per noi tutti l’Isola di Pasqua è un luogo tra i più affascinanti che esistano sulla faccia della Terra. Noi europei l’abbiamo segnato sulle carte solo a partire dalla domenica di Pasqua del 1722, allorché l’ammiraglio olandese Jacob Roggeveen (1659-1729) vi approdò per la prima volta: vi rimase solo quel giorno di festa, poi ripartì per le sue esplorazioni in quei mari ignoti. Da allora, tuttavia, molti navigatori europei vi ritornarono, contribuendo in maniera sostanziale a snaturare quel luogo fino ad allora incontaminato.
Isolata nel bel mezzo dell’immenso Oceano Pacifico, separata da migliaia e migliaia di chilometri da ogni altra terra abitata (a est dal Cile, paese al quale appartiene per amministrazione politica, e a ovest dalle più vicine isole dell’arcipelago della Polinesia), questa piccola isola ha ospitato una cultura che ha prodotto nel corso della sua storia una serie di reperti che – ancora oggi e nonostante l’impegno di innumerevoli studiosi e ricercatori di fama internazionale – continuano a rimanere misteri insoluti.
Mi riferisco ovviamente, e prima di tutto, a quelle gigantesche statue in pietra generalmente note con il nome di moai. Quei maestosi monoliti disseminati in molti luoghi di quel territorio, quasi a scrutare l’immensità del blu di mare e cielo che circonda inesorabile l’isola. Figure ieratiche, per certi versi inquietanti, espressione di una civiltà antica. Non ho una mia idea sul motivo per cui queste impresionanti sculture furono realizzate, se potessero servire come idoli di una religione ancestrale, oppure se siano ritratti di antenati, uomini importanti dei clan che si susseguirono al potere nel corso dei secoli. So per certo però che la loro grandiosità e l’assenza di documentazione certa che le riguarda, sono stati motivi sufficienti perchè in molti abbiano creduto e credano che siano in realtà vestigia di una civiltà extraterrestre o atlantidea: del resto – così spiegherebbero gli amanti delle Civiltà Perdute – quale popolo primitivo (quali erano in realtà gli abitanti dell’isola) aveva a disposizione una tecnologia sufficiente non solo per sbozzare quei massi enormi, ma soprattutto per trasportarli dalle cave ai luoghi prescelti per la loro ubicazione?
Ad alimentare il mistero di quest’isola, oltre ai moai, contribuiscono anche quelle tavolette lignee dette rongo-rongo sulle quali si dispongono ad incisione segni grafici a noi solo parzialmente noti. Una sorta di scrittura anch’essa arcaica, usata per chissà quali finalità, difficile da decifrare anche per il numero esiguo di tavolette sopravvissute all’azione logorante del tempo: ne esistono verosimilmente solo ventisei in tutto il mondo.
Ricordo che durante la mia infanzia anche a casa mia c’era un volume, tipo quelli che ancora oggi si pubblicano magari come allegato ad un quotidiano, dedicato alle civiltà scomparse. Apriva ovviamente con Atlantide, il Mistero dei Misteri, e poi ne analizzava altri. L’ho sfogliato più e più volte, e ricordo anche che lo utilizzai quando in un numero di Topolino di allora lessi una storia sul Continente Mu: volevo sapere di più su quella terra mitica, e in quel volume-da-salotto-di-casa-con-bambini-adolescenti trovai qualche altra congettura. Ricordo anche che ai tempi trovai più soddisfacente la spiegazione nella storia di Paperino e nipoti ma, disdetta, non ricordo più quale fosse!
In tempi più recenti ho però imparato che nell’isola di Rapa Nui (il nome con cui i suoi abitanti identificavano la loro terra) si realizzavano anche altre forme d’arte. Una in particolare mi ha particolarmente affascinato, non tanto per quell’alone di mistero che la circonda, che pure è presente, quanto invece per la finezza che caratterizza la sua esecuzione e la potenza delle sue immagini.
Mi riferisco a quelle sculture note col nome di maoi kavakava, un termine che fa riferimento ancora alle figure maoi e alle loro costole (kavakava). Si, proprio alle loro costole. Ed è chiaro il motivo di questa denominazione. A guardare queste straordinarie statuette, si nota infatti immediatamente la scarnificazione dei loro corpi, così estrema che tutte le costole sono immediatamente visibili. Una mortificazione della carne che contrasta invece con la silurante espressività dei loro occhi, spesso sottolineati da intarsio di altri materiali quali la conchiglia proprio a marcare quello sguardo che non molto ha dell’umano.
Forse antenati, forse divinità. Non è importante. Quello che colpisce è la straordinaria vitalità di queste opere d’arte primitiva, plasmate nelle più diverse qualità del legno. Materiale, il legno, di cui v’era scarsissima disponibilità su Rapa Nui, una terra piuttosto aspra e brulla, sfruttata fin nella sua linfa dagli abitanti dell’isola. Per questo è probabile che gli artisti utilizzassero anche quei tronchi e rami che arrivavano su quelle coste sospinti dalle correnti oceaniche, relitti di viaggi marini di lunghezza spropositata. L’arrivo sulle spiagge di un tale tesoro ‘esotico’ meritava un intaglio accuratissimo con il quale si cercava di sfruttare tutta quella rara materia disponibile: le forme prendevano così vita seguendo le naturali conformazioni del legno, come se il movimento del personaggio scolpito vivesse già ‘in potenza’ nel tronco o nel ramo. E’ l’oceano forse che ha voluto che la materia continuasse a vivere. L’artista-demiurgo le ha poi infuso la scintilla della creazione, pura espressione di una civiltà per certi versi ancora misteriosa. E per questo, ancor di più affascinante.
* Per maggiori approfondimenti sull’arte e la cultura dell’Isola di Pasqua si veda: Splendid Isolation: Art of Easter Island, catalogo della mostra, New York 2002.