Matsushima ah!
A-ah, Matsushima, ah!
Matsushima, ah!
[Matsuo Bashō, 1644-1694]
Matsushima
Il sole era allo zenit quando noleggiammo la barca per raggiungere Matsushima. Dopo due ore di navigazione, approdammo alla spiaggia di Ojima.
E’ stato detto e ridetto, ma è un fatto certo che Matsushima non trova bellezza pari in Giappone. Questo luogo non ha nulla da invidiare ai famosi laghi cinesi di Tung-ting e di Si. La baia, aperta a sud-est, copre tre leghe, e l’acqua è limpida come quella del fiume Tsin-tang. Ne emerge un gregge di isole: alcune erette come un dito verso il cielo, altre mollemente sdraiate nell’acqua a descrivere un arco inclinato da est a ovest. Vi sono isole che sembrano portare un isolotto sul dorso e altre che se lo stringono al seno: isole-madri e isole-bambino.
I pini sono di un verde intenso e scuro. I venti del mare hanno scolpito i loro rami in forme di un’eleganza incomparabile, come i gesti delle mani di una dama di classe.
Sono isole concepite nel Caos primordiale dal dio dei dirupi? Certo né il pennello di un pittore e tanto meno il genio di un poeta possono rendere giustizia a questa meraviglia della Creazione.
Ojima – “l’Isola maschio” – le cui spiagge si spingono al largo, è in effetti una
penisola. Vi ho visitato l’eremo del maestro zen Ungo e mi sono inchinato alla roccia su cui sedeva a meditare. Nella pineta s’incontrano qui e là rifugi d’anacoreti, coperti di covoni di paglia dai colori caldi, o di rami di pino. Visione tanto piacevole ed attraente che noi ci spingevamo fino all’uscio senza una presentazione né un motivo. Eravamo ancora là al sorgere della luna, apprezzando il cambiamento del paesaggio al sopravvenire del buio.
Tornando sulla costa, trovammo una camera d’albergo che si affacciava al mare. “Cavalcando vento e nubi”, passammo la notte a godere di questo spettacolo in piena felicità.
Fatti prestare le ali dalla gru
per raggiungere Matsushima
piccolo usignolo
Questa fu la terzina di Sora; da parte mia andai in bianco, senza trovar sonno. Quando avevo lasciato definitivamente la mia vecchia capanna, Sodo mi aveva dedicato una poesia in cinese su Matsushima, Hara Anteki m’aveva offerto un waka in cui si leggeva: “L’isola dalle coste bordate di pini” e avevo ricevuto ancora degli hokku composti da Sampu e da Jukushi. Li presi dalla bisaccia, accontentandomi di sognare comodamente con loro.
(Matsuo Bashō (1644-1694), brano dall’ Oku no Hosomichi (奥の細道), 1689; “L’angusto sentiero del nord”, traduzione dal giapponese di Nicolas Bouvier, traduzione italiana e note di Cesare Barioli; pubblicato on line da Cascina Macondo)
Tristemente cercando materiale per questo ricordo di Matsushima e di tutti i giapponesi morti in quel maledetto 11 marzo, mi sono imbattuto in un volume di Donald Keene, Travelers of a Hundred Ages through 1,000 years of Diaries, New York 1999. Leggendo il capitolo di questo lungo saggio sulla letteratura giapponese di viaggio dedicato all’opera Miyako no tsuto (“Doni dalla capitale”) del poeta monaco Sōkyū (attivo nel XIV secolo) e all’ovvio confronto tra questa e l’Oku no Hosomichi di Bashō (p. 185), un brivido gelido mi ha percorso la schiena.
Riporto letteralmente il passo in inglese:
“The names Taga, the Narrow Road of Oku, and Sue no Matsuyama are like the first notes of three great symphonies by Bashō, but Sōkyū does not supply any further music. Even Matsushima failed to excite Sōkyū, though Bashō’s evocation of the pine-covered islands rising from the sea will never be forgotten even if an earthquake should some day submerge them.” (……….)
Eh, decisamente niente di più adatto.