Maitreya meditabondo. Corea, inizio del VII secolo. Bronzo dorato, 90 cm. altezza. Seoul, Museo Nazionale.

Un capolavoro per grazia manifesta

Poche immagini, in tutti i luoghi del pianeta e in tutti i tempi della storia dell’umanità, possono vantare una simile grazia.
Per l’armonia delle misure, per l’eleganza della posa, per il profondo senso di devozione che trasmette, per la finezza dei dettagli scultorei.
Per questi e per molti altri motivi, il Maitreya in bronzo dorato del Museo Nazionale di Seoul è uno dei più plateali capolavori non solo dell’arte coreana, ma di tutta l’Asia.
La divinità è raffigurata al culmine della giovanile vitalità. Le carni sode dell’esile corpo raccolte nel fremito dell’eterno divenire, evocato da sussurri che si espandono attraverso la forza e la gioia della meditazione, il cardine della dottrina buddhista.
Maitreya è il Buddha del Futuro, il messia di cui ancora si attende l’arrivo, che coinciderà con l’inizio di una nuova era di prosperità. Egli attende paziente il momento del suo ingresso nella scena della fede, trascorrendo quegli attimi incomputabili nel Tushita, uno dei paradisi del Buddhismo.
Attende meditando, naturalmente, e a questa attesa senza tempo fa riferimento la posa con cui è raffigurato in questa eccezionale scultura coreana, con le dita della mano destra che toccano il viso leggermente chino verso il basso, il gomito dello stesso braccio posato sulla coscia piegata della gamba corrispondente, in un atteggiamento nel complesso disinvolto eppure regale, che solo può competere al più elevato degli esseri senzienti.
Ancora non è un Buddha, mentre attende nel Tushita. Lo sarà. Per il momento rimane un bodhisattva, un Illuminato che non ha varcato la soglia dell’assoluta trascendenza. Maitreya è l’unica divinità dell’affollato pantheon buddhista che è al contempo Buddha e bodhisattva, in sorprendente analogia con l’assimilazione tra Dio e Cristo diffusa nei Vangeli.
L’iconografia che lo riguarda riflette questa sostanziale dualità che è in realtà unità espansa, presentando Maitreya di volta in volta, a seconda dei contesti, come un Buddha – ieratico e spoglio di ogni orpello – oppure come un bodhisattva, più accondiscendente nel modo in cui si manifesta ai fedeli.
Pur privo di quei gioielli e attributi che identificano solitamente i bodhisattva, il Maitreya di Seoul esprime dunque una condizione di attesa. Non solo nella posa ma, soprattutto, nell’espressione del suo volto coronato da una tiara a tre ogive, da cui traspare un’accentuata umanità, nella dolcezza in cui si arcuano le labbra, quasi un sorriso, riverberato nel taglio morbido degli occhi socchiusi e nell’ampia curva delle sopracciglia che si dispiegano sintetiche tra la fronte bassa e il naso deliziosamente puntuto.
Una sintassi semplice ed elegante che si anima decisamente nel drappeggio della veste, mosso in una sequenza di ondulazioni cadenzate che richiamano solo parzialmente il naturalismo della statuaria di gusto ellenistico del Gandhara, superata ormai per effetto dell’ibridazione con i modi più specifici della tradizione dell’Asia più orientale.
E infatti, il Maitreya di Seoul è l’eco grandiosa di sviluppi già delineati in Cina qualche decennio prima, nelle icone buddhiste dell’epoca dei Qi Settentrionali (550-577), ad esempio, nelle quali forte si sente l’afflusso dei paradigmi dello stile indiano Gupta, con la sua predilezione per dinamiche lineari più geometrizzanti e ritmiche.
L’anonimo artista coreano autore di questo capolavoro ha dunque assimilato e rielaborato certi modelli cinesi, e li ha poi trasmessi oltre i confini della penisola, in Giappone, paese allora alle prese con la prima e più veemente infatuazione per il Buddhismo.
Una leggenda vuole che un altrettanto straordinario Miroku Bosatsu (il bodhisattva Maitreya in lingua giapponese) in legno di canfora sia stato donato al tempio Kōryūji di Nara nell’anno 603 dal principe Shōtoku (574-621), il più convinto promotore del Buddhismo nell’arcipelago estremo-orientale. Se questa tradizione corrispondesse al vero, il Maitreya di Seoul, che ne è con molte probabilità il prototipo, era allora già conosciuto, poiché le due opere hanno tali evidenti affinità stilistiche che ancora oggi rimane incerta l’attribuzione per la scultura nel tempio nipponico, tra chi pensa che sia opera coreana e chi invece la ritiene di manifattura giapponese. Analogie che appaiono ancora più stringenti se si confrontano queste due sculture con un altro, anch’esso molto venerato, Miroku Bosatsu, solo di poco più tardo e conservato presso il tempio Chūguji di Nara, che mostra invece più chiari caratteri giapponesi, soprattutto nell’ostentata frontalità dell’immagine e, anche, in certi tratti specifici del volto. Quest’ultimo Miroku conserva ancora la mandorla sul retro, posizionata tra spalle e testa, che pure doveva essere presente nelle altre due icone coreane.

Maitreya meditabondo.
Corea, inizio del VII secolo.
Bronzo dorato, 90 cm. altezza.
Seoul, Museo Nazionale.

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