Fabriano Fabbri è docente di Storia dell’arte contemporanea presso l’Università di Bologna. Anche se questa notizia non si sapesse, leggendo il suo ultimo libro, “Lo zen e il manga. Arte contemporanea giapponese” (Bruno Mondadori, 2009) si capisce subito che il suo mestiere è insegnare. Il suo volume è infatti un ottimo manuale sull’arte giapponese dal secondo dopoguerra a oggi, tanto efficace didatticamente che spero di poterlo usare anch’io come tale per i miei studenti a Napoli, se un giorno l’Università decidesse di avviare un corso del genere.

Un buon manuale, secondo me, deve essere scritto con un linguaggio semplice e chiaro; le immagini devono riuscire ad essere di compendio al testo, e viceversa (non funziona cioè soffermarsi su un’opera senza che la si illustri, il lettore troverà difficoltà a ricordarla); gli argomenti si devono susseguire in maniera progressiva (ad esempio, in scansione cronologica), così che chi legge avrà come voglia di “vedere come va a finire”. Ebbene, il libro di Fabbri ha tutte queste caratteristiche; inoltre egli usa un linguaggio divertente e movimentato, tratto proprio dalla contemporaneità di cui scrive e, soprattutto, fa numerosissimi richiami a generi artistici diversi da quello visuale, ad esempio il cinema e la letteratura.

Yoshitomo Nara

In più, il libro di Fabrizio Fabbri, non solo si legge, ma si può anche ascoltare. Si, c’è una colonna sonora suggerita dall’autore tra le righe, che corre parallelamente al testo. E’ una cosa che ho apprezzato moltissimo: sarà perchè, pur non conoscendoci, credo che io e Fabbri abbiamo moltissimo in comune, almeno dal punto di vista degli ascolti musicali. Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin, John Lennon, Clash, Radiohead, Marlene Kuntz, Interno 17 (si, proprio loro!), solo per ricordarne alcuni tra i tanti che compaiono, sono nomi della musica che non mi lasciano indifferente, che hanno accompagnato, e che tuttora accompagnano, buona parte della mia vita, insieme a tanti altri. Fabbri fa spesso riferimento soprattutto ai testi di questi musicisti per spiegare alcune delle atmosfere che pervadono l’arte giapponese contemporanea. La sua è per me una giusta trovata, che un po’ gli invidio (benevolmente, chiaro): d’altronde, per uno come me che si è finora occupato quasi esclusivamente di arte tradizionale giapponese, non sarebbe stato facile fare riferimenti alla musica antica di quel paese. O almeno, un simile tentativo mi avrebbe costretto ad entrare in un campo in cui non mi trovo perfettamente a mio agio. Non solo la musica tradizionale giapponese, per quello che conosco, non è infatti nelle mie corde, ma a mia parziale giustificazione ricordo quello che asseriva Fosco Maraini nel suo “Ore giapponesi”, e cioè che l’Oriente non ha trasmesso una cultura musicale di grandissimo livello, soprattutto se la confrontiamo con quella, invece eccelsa, dell’Europa.

Qualcuno si potrebbe a questo punto chiedersi cosa c’entrino quei musicisti citati da Fabbri, tutti invariabilmente europei e statunitensi, con l’arte giapponese? Com’è possibile che l’autore non abbia minimamente pensato ad artisti giapponesi, tra quelli che hanno dominato la scena musicale nipponica – che pure esistono – negli ultimi sessant’anni?

Takashi Murakami, My lonesome cowboy

Io mi sono dato questa risposta. L’arte contemporanea, al contrario di quella antica, è il risultato di una evidente ‘globalizzazione’ (chi può mi suggerisca un altro termine più idoneo…). Cioè, gli artisti non hanno alcuna difficoltà nel relazionarsi con quello che accade negli altri luoghi del pianeta; anzi, sentendosi essi parte di un dialogo artistico più ampio, privo di confini, si misurano con temi e concetti comuni, che si possono dire universali. Tanto più che non è un’eccezione che alcuni di loro si trasferiscano in altri paesi ritenuti più vivaci dal punto di vista artistico. E’ successo anche ai giapponesi, e fin dal tardo Ottocento. Allora la meta preferita era l’Europa, Parigi in particolare. Dopo la Seconda Guerra il baricentro culturale del mondo si è spostato a New York, metropoli nella quale hanno transitato, per l’appunto, molti artisti nipponici in cerca di fortuna, ad esempio Yayoi Kusama e Yoko Ono.

Tuttavia, le radici di ogni artista restano tali nonostante l’emigrazione. E’ per questo che è giusto raccogliere l’arte contemporanea giapponese sotto i due temi – lo Zen e i Manga, entrambi prodotti specifici della cultura del Paese del Sol Levante – suggeriti da Fabbri fin dal titolo, e leit motif del testo intero. Nonostante la globalizzazione dell’arte, dunque, gli artisti giapponesi, nel loro insieme, conservano una propria identità collettiva, continuando a speculare sui cardini della famosa dottrina buddhista che fondamentale ruolo ha svolto nell’evoluzione dell’arte antica del paese, e su una straordinaria tradizione nei campi del disegno, della caricatura e della sintesi.

Kusama Yayoi

Ritornando alle domande sulla musica, i brani citati da Fabbri quindi, pur non essendo giapponesi, riflettono un clima culturale ampio, in cui tutti sul pianeta possono identificarsi. Jimi Hendrix e i Doors, ad esempio, fanno immediatamente venire alla mente esperienze lisergiche, ribellioni sessantottine e libertà di espressione; così come i Sex Pistols e i Clash rimandano ad una cultura anarchica sovversiva, di rifiuto; o ancora, i Radiohead e i Subsonica raccontano di alienazione, straniamento e digitalizzazione dei sentimenti. Per concludere, Fabbri giustamente pensa che per il suo lettore-tipo sia sufficiente citare musicisti internazionali, e perfino italiani, per richiamare alla memoria delle atmosfere internazionali, universali e generazionali. Tanto più che proprio lo Zen e i Manga hanno a loro volta influenzato, e continuano a farlo, moltissimi artisti non giapponesi, ma europei e statunitensi, in un continuo e benefico rimando di stimoli culturali.

Non scriverò nulla sul come si sia evoluta l’arte giapponese contemporanea nello specifico. Chi ne fosse incuriosito potrà leggere il libro di Fabbri per farsene un’idea abbastanza precisa. Mi limiterò a notare che l’autore fa giustamente iniziare questa storia verso la metà degli anni Cinquanta con il gruppo Gutai, precursore di molte tendenze dell’arte internazionale di oggi, che ha più sofferto che beneficiato del supporto del critico francese Michel Tapié; per arrivare fino alle ultimissime tendenze, gran parte delle quali in debito di fortissima gratitudine verso le intuizioni di Takashi Murakami e Yoshitomo Nara, veri e propri guru dell’arte giapponese degli ultimi due decenni.