E’ stata l’ultima mostra che ho visto prima che il tempo si fermasse.
The Porcelain Room.
Ho un ricordo vivissimo di quella sera a Milano, verso la fine di gennaio.
Una fila lunghissima.
Di quelle belle però.
Senza carrelli, mascherine e l’ansia che ti possa scappare uno starnuto o un colpo di tosse, che è magari conseguenza ‘solo’ delle troppe sigarette di una vita…
Fondazione Prada.
Non c’ero mai stato e, confesso, non avevo alcuna particolare aspettativa. Mi dicevo, ammetto a posteriori con scarsa apertura mentale: “Cosa c’entrano poi le porcellane cinesi con scarpe e borse di lusso, in un ambiente che solitamente trova più affinità con l’arte contemporanea rispetto a quella antica?”
Una certezza però ce l’avevo, ed era salda fin da prima che mi mettessi in fila.
La mostra che avrei visitato era stata organizzata dagli amici Luisa Vinhais e Jorge Welsh, formidabile coppia di mercanti e conoscitori luso-londinesi specializzati proprio nell’arte cinese e giapponese da esportazione. Sono anni che seguo le loro acquisizioni, oggetti nella gran parte dei casi speciali per qualità e rarità, presentati attraverso la pubblicazione di imponenti volumi con illustrazioni straordinarie e testi redatti dai più noti specialisti del settore.
Una sicurezza, insomma.
In fila.
Mentre ero in coda, cercavo di capire quale fosse il tipo di pubblico che si apprestava a visitare l’esposizione.
Ora, sono ben conscio che le inaugurazioni siano più che altro occasioni mondane, nelle quali – rispetto a quello culturale – l’aspetto conviviale domina assoluto. Di solito, la passeggiata tra gli oggetti e i pannelli didattici si risolve in pochi minuti, soprattutto se la visita si conclude con buffet e brindisi.
Altro che mostra!
Orde di attempate signore truccate al parossismo si scatenano tra tartine untuose e spritz annacquati. Gruppetti di giovani promesse della storia dell’arte con noccioline e vino bianco stazionano in pose dinoccolate ai margini della ressa. Altolocati funzionari di musei, agghindati per l’occasione, commentano l’allestimento anche se l’hanno a malapena intravisto.
Qualcuno non si muoverà neanche per un istante dal tavolo imbandito, alcuni riempiranno il bicchiere tante di quelle volte che alla fine a stento riusciranno a reggersi in piedi, altri – l’ho visto, credetemi – faranno incetta di frutti da mettere in borsa, nel mentre l’incredulo cameriere accenna allibito “Signora, quegli ananassi che ha preso sono solo ornamentali…”, sentendosi di conseguenza e candidamente rispondere “Lo so, lo so, stanno bene anche nella mia cucina, però, non può negarlo!”.
Gente di questo stesso genere affollava in parte anche lo spazio al pian terreno della Fondazione Prada riservato alle libagioni (parche, minimaliste, del tipo ‘cucina molecolare’). Tuttavia, prima di darci a contestabili bagordi (salutisti, però!), tutti eravamo disposti ad aspettare il nostro turno per visitare la mostra che era stata allestita al piano superiore dell’edificio principale del complesso.
In fila.
Sempre in coda, osservando la platea, mi chiedevo allora quante tra quelle persone fossero lì per le porcellane e quante invece per esigenze di partecipazione mondana, esponenzialmente più sentite in questo caso per il diretto coinvolgimento di Fondazione Prada, riconosciuto ricettacolo di folle di estimatori, organizzatore di eventi che diventano immancabilmente imperdibili, di qualsiasi tipo essi siano.
In sincerità, ho avuto la sensazione che poche tra quelle persone avessero mai visto una porcellana cinese antica, e forse neanche mai ne avevano sentito parlare.
Ma non importa, anzi!
L’idea di organizzare una mostra sul vasellame cinese alla Fondazione Prada, di sicuro richiamo mediatico, proprio per questo è quindi buona, innovativa e lungimirante. Divulgare tra neofiti un tema così affascinante, attraverso l’esposizione di oggetti dall’indubbio fascino estetico, è senza dubbio un’ottima idea, soprattutto in un’epoca storica come questa in cui viviamo, nella quale si percepisce spesso l’arte antica come troppo complessa perché possa essere compresa da tutti, troppo incatenata al passato perché possa entrare nella contemporaneità.
Non è così.
Ed è quindi giusto che si aprano nuove frontiere di conoscenza per far sì che tutti ne possano apprezzare la raffinatezza formale e intuirne la grande portata storico-artistica.
Con questi presupposti, non mi aspettavo certo che l’allestimento concertato per la mostra ‘The Porcelain Room’ potesse essere di tipo tradizionale, con gli oggetti sistemati secondo freddi criteri cronologici oppure stilistici, pannelli esplicativi, didascalie, insomma quelle diffuse modalità che hanno caratterizzato finora l’organizzazione di un’esposizione dedicata alle porcellane cinesi.
Non mi sbagliavo.
Giunti al terzo piano dell’edificio, grazie al passaggio per verticale in uno spazioso e futuristico ascensore, quel che apparve ai miei occhi era una sorta di camera iperbarica rivestita sull’esterno di tessuto scurissimo, che nulla lasciava presagire di quel che si sarebbe visto al suo interno. Una specie di monolite impenetrabile, uno scrigno invalicabile, un contenitore più simile alla Kaaba che a uno spazio per eventi d’arte.
Come in un pellegrinaggio, aspettai di poter accedere (un’altra fila…) a quello che voleva esplicitamente essere un sacrario, un santuario dedicato al più fragile dei tesori: la porcellana.
L’impatto che ebbi varcando la soglia di quel tempio fu tremendo.
Nell’oscurità più totale si illuminava sulla sinistra una sinfonia di bianchi e di blu. Vasi, bottiglie, scodelle e piatti, grazie ai quali si dava conto dell’origine dei rapporti commerciali tra l’Europa e la Cina, iniziati agli albori del Cinquecento e proseguiti senza interruzioni nei secoli a venire. All’incirca cinquanta pezzi, un nucleo dunque consistente, per raccontare i primi arrivi di porcellane cinesi nel cosiddetto ‘Vecchio Continente’, in un’epoca in cui la miscela di cui si costituiva quell’impasto – duro, impermeabile, sonoro, bianchissimo – era ancora per noi un mistero, che sarebbe stato svelato solo nei primi anni del Settecento alla corte di Augusto il Forte, Elettore di Sassonia, collezionista insuperato di vasellame cinese e giapponese e promotore delle fornaci di Meissen, la prima fabbrica europea di porcellane.
Un ‘incipit’ di tutto rispetto che, tuttavia, ancora conservava parte dell’approccio ‘classico’ all’allestimento di una mostra di arte antica, con gli oggetti sistemati all’interno di ripiani in vetrine di tipo tradizionale. Non vidi didascalie, una scelta che mi spiegai come un invito allo spettatore a concentrare tutta la sua attenzione sul piacere di ammirare un oggetto, evitando – come in realtà spesso accade – che si finisca per leggere il cartellino non attribuendo per contro la giusta importanza al manufatto stesso. D’altra parte, per chi avesse voluto, era disponibile una spartana brossurina sulla quale erano indicate tutte le informazioni essenziali sui singoli pezzi.
Da questo antro ‘bianco e blu’ si apriva un lungo corridoio, la seconda sezione della mostra. Due fasce di luce si irradiavano nella zona centrale delle due pareti. Due uniche, basse vetrine incassate nell’oscurità prevalente, ognuna delle quali stipata con un numero imprecisato, grandissimo, di capolavori della porcellana da esportazione del Settecento destinata alla tavola. Zuppiere, contenitori, sculture, candelabri, in forma zoomorfa, naturalistica oppure stilizzata, a colori vivaci o più tenui.
Nessun pezzo in particolare era messo in evidenza rispetto ad altri, e tutti erano invece collocati l’uno vicinissimo all’altro. Una scelta che voleva esplicitamente scardinare quella tendenza a gerarchizzare prevalente negli allestimenti tradizionali, e a volte piuttosto fastidiosa, in realtà. Grazie a questa inedita modalità, al contrario, ogni spettatore poteva autonomamente decidere quale oggetto elevare a proprio preferito, assecondando così il suo gusto personale, in un processo di responsabilizzazione critica che mi sembrò già sulle prime molto interessante.
L’effetto complessivo era dunque abbacinante, un vero e proprio tripudio di forme e colori, di smalti traslucidi che si stendevano sulle superfici come fossero l’iride del mondo. Una gioia per gli occhi, e per l’anima.
E non era ancora finita. L’apoteosi della mostra fu infatti raggiunta con l’ultima delle tre sezioni, un ambiente posto in conclusione del corridoio, in posizione opposta rispetto alla prima sezione con i ‘bianchi e blu’.
Una vera e propria ‘Camera delle porcellane’ si schiuse ai miei occhi: non potei fare a meno di rimanerne estasiato. Centinaia di piatti, vasi, statuette si disponevano con una certa attenzione alla simmetria sulle quattro pareti e sul soffitto della sala. Fitti fitti, appaiati, quasi a sovrapporsi, fino a sfiorarsi, in un equilibrio che all’apparenza sembrava precario, e che era invece il risultato di complessi calcoli matematici e spaziali.
Ho avuto un brivido immaginando il momento dell’allestimento. Il mio pensiero non è andato a chi l’ha concepito, ma alle persone che fisicamente l’hanno montato. Ho visto degli equilibristi, dei contorsionisti, muoversi agili come si trovassero all’interno di una composizione di domino: se cade un pezzo, e si rompe, un piatto in porcellana del Settecento, c’è un certo margine di certezza che cascheranno per conseguenza tutti gli altri, così che da ‘The Porcelain Room’ si sarebbe passati in un istante a un’opera di Pistoletto, nella quale agli stracci si sostituiscono cocci e frantumi di pasta invetriata.
Ho contemporaneamente immaginato a quanto possa essere ammontata la polizza assicurativa per un allestimento così rischioso, e ho anche apprezzato la disponibilità dei numerosi prestatori che hanno aderito al progetto, intuendone le grandi potenzialità scenografiche e di divulgazione.
Non c’è dubbio che l’effetto finale di quest’ultima sala riecheggiasse quegli ambienti che furono allestiti in tutta Europa a partire dalla metà del Seicento, dapprima in Portogallo e Olanda e poi in Germania, Francia e pure in Italia. Cabinets concepiti per ospitare quel fragile lusso, la porcellana dell’Asia più lontana, ambita da pressoché tutti i nobili europei, ammirata per le sue specifiche caratteristiche estetiche, specchio dell’innato desiderio dell’uomo di conoscere le culture altre.
Ricordo perfettamente che uscii dal cubo piuttosto frastornato.
E non solo per una tale massa di capolavori della porcellana cinese da esportazione. Sulle prime, mi sembrò quasi di non poter accettare un allestimento così ‘fuori dagli schemi’, in tutto diverso da quello che avevo fino ad allora visto. Ma se, a distanza di qualche mese, la memoria di quella visita è ancora così vivida, indelebilmente impressa nella mia mente, allora qualcosa (molto in realtà) ha funzionato.
Ricordo anche che all’uscita cercai per molti minuti un banchino dove poter acquistare il catalogo, che sicuramente sarebbe stato bellissimo, pensavo, considerando gli altri libri pubblicati da Vinhais-Welsh. Ma fu inutile. Non c’era un catalogo. Sulle prime ci rimasi un po’ male ma poi capii.
La mostra era stata concepita per stupire, chi come me mastica l’argomento ma, soprattutto, chi ne è del tutto a digiuno. Anzi, la mostra era stata esplicitamente ideata più per il grande pubblico che per lo specialista, che comunque non avrebbe potuto non apprezzare quello sfavillio di delicati tesori.
Uno spettacolo, dunque, nel senso più ampio di questo termine. Una messa in scena in tutto barocca, ridondante, vulcanica. Un’esperienza come mai avevo visto. Un modo sensato per far avvicinare tutti, proprio tutti, all’inusitata bellezza dell’oro bianco proveniente dalla Cina.
Non ho notizia se la mostra, in origine in chiusura il 28 settembre 2020, sarà prorogata in conseguenza dei fatti che tutti noi conosciamo. Anche se non lo fosse, credo e spero che chi possa si prenda il tempo per visitarla. Da parte mia, lo consiglio vivamente, fosse solo per rispetto di chi si è mosso con tanta grazia e sicurezza per allestirla nonostante l’ansia di lavorare tra le fragilissime tessere di un domino in porcellana.