Domenica, 15 maggio 2011
Partire, andare altrove, visitare e, perché no, ritornare. E’ uno dei più grandi piaceri che la vita mi abbia offerto e che, spero, mi offrirà.
Nei viaggi si possono scoprire sempre nuovi posti, altre città, oppure si può ritornare in luogo in cui si era già stati. E qualche volta il ritorno è così emozionante che sembra proprio come la prima volta, o forse meglio.
Questo ho provato durante la mia seconda visita a Lisbona, che qui mi appresto a raccontarvi.
Il viaggio è lungo, è vero. Così lungo da sembrare intercontinentale. Da Firenze, dove vivo, si va in treno a Bologna, si aspetta, quindi si sale sull’aeroplano della TAP che, in un trasbordo di circa tre ore, ti scarrozza in Portogallo. Per un risultato di circa otto (?!?) ore di viaggio, un’enormità considerata la distanza, che non è oltre i 1800 chilometri. Tuttavia, arrivato a Lisbona, il bus per la città è a un passo dall’uscita dall’aeroporto, così che tutto il trasferimento in città è abbastanza semplificato. Il mio hotel si trova a Saldanha, una zona che non è in realtà tra le più suggestive per assaporare le atmosfere uniche di questa capitale. Tra l’altro, proprio nei pressi di questo quartiere, durante la mia ultima visita a Lisbona, devo dire, ho subito un furto a mano armata. Mi trovavo allora nel Parque Edoardo VII, erano le 13 circa, e mi stavo dirigendo verso il Museu Calouste Gulbenkian. Un balordo, un ragazzino, senz’altro minorenne ma già assuefatto ad ogni tipo di droga pesante, mi avvicinò con un pretesto mentre ero seduto ad una panchina del parco per riposarmi, mi distrasse e in un attimo mi puntò un coltello alla gola. Non ebbi granché paura (che eroe!), pensai di reagire, lui era un ragazzetto magro, sudato e tremolante e io un ragazzone, grande, grosso e consapevole, eppure aprìi il portafogli, lui prese le poche banconote e scappò. Corse verso un rialzo del parco, io lo inseguì (chissa perché, poi…) urlandogli “Figlio di …!” (a questo punto parte la musichetta de “Il buon il brutto e il cattivo”). In un istante apparve dietro di me, correndo, un tipo sportivo, jeans, scarpe da tennis e cappellino da baseball. Scoprìi più tardi che quest’ultimo era uno sbirro in borghese, appostato lì per prendere in sacco quelli che, evidentemente da un certo tempo, terrorizzavano turisti ignari per derubarli, come me per l’appunto. Naturalmente il poliziotto travestito non raggiunse il ladro, nonostante quest’ultimo fosse a due passi, che fuggì felice per il colpo. Io persi duecento euro in contanti, avevo la camicia “della domenica” strappata per uno strattone del delinquente, e così andai all’appuntamento che avevo col direttore del Gulbenkian, In più, all’incontro arrivai in un ritardo mostruoso per il tempo che ci volle a fare la denuncia ai poliziotti che nel frattempo mi avevano raggiunto per raccogliere i miei dati…
Così oggi, a qualche anno di distanza dal fattaccio, arrivato a Lisbona e scoperta la zona dell’hotel, ho ricordato tutto quel brutto avvenimento, ho avuto un brivido, la pelle d’oca e una certa paura.
In breve, però, ho risolto il tutto. Raggiunto l’albergo, sono subito riuscito e mi sono ritrovato in un piccolo ristorante, tra i pochi aperti nella domenica lusitana in quella zona, ho mangiato un fantastico bacalhao alla griglia con aglio e patate lesse, una buona porzione di vinho tinto e un bicchierino di porto. Così, combinato a dovere, sono ritornato a piedi verso l’albergo e, forza della memoria che tutto rinvigorisce e trasforma in esperienza, mi sono messo al tavolino della mia bella stanza per scrivere questa lettera.
A portata di mano, il mio inseparabile tabacco in forma di bionde e il libretto di Fernando Pessoa, quella guida di “Lisboa. Quello che il turista deve vedere” che lo scrittore portoghese scrisse nel 1925 per amore della sua città natale, e che in vita non riuscì a pubblicare, così che quella sua opera meravigliosa fu scoperta solo dopo la sua morte, qualche anno fa. Da pochi lustri coloro i quali visitano la capitale del Portogallo hanno a disposizione uno strumento di conoscenza straordinario, grazie al quale possono scoprire le tante bellezze di questa città.
Lunedì, 16 maggio 2011
Fermata del Metro Saldanha. Si può acquistare un biglietto giornaliero, o pluri giornaliero, con il quale si possono usare tutti i mezzi pubblici, sotterranei e di superficie. Tuttavia, se si è buoni camminatori, e non si debbono fare spostamenti veloci, allora questo biglietto è pressoché inutile, poiché i punti ‘cruciali’ di Lisbona sono così ravvicinati che si possono anche raggiungere camminando. E camminare è, a mio parere, uno dei modi più belli per scoprire un luogo, avendo così la possibilità di vedere scorci che altrimenti passerebbero inosservati, usando un autobus, una macchina oppure la metropolitana. L’importante, però, è che non si abbia molta fretta e che si abbia una certa propensione a camminare. In questa occasione io avevo tutto a mio favore, peccato che – non ricordando in un primo momento le dimensioni della città – abbia subito fatto il biglietto giornaliero… Poco male.
Comunque, la prima tappa della mia prima giornata a Lisbona è stato subito il quartiere dell’Alfama. Chi arriva qui, e chi abbia letto Pessoa, sa che questo è il luogo in cui la cultura tradizionale di questa città dà il suo meglio.
Le casupole si sovrappongono senza alcuna teoria, così che i tetti rossi si alternano ai bianchi e ai gialli delle pareti delle costruzioni, abbacinanti al riflesso del sole oceanico.
E’ lunedi così che, come in gran parte del resto del mondo e senza plausibili spiegazioni, i più importanti musei di Lisbona rimangono chiusi. Tuttavia il Castello di Saõ Jorge è aperto. L’avevo visitato qualche anno fa, ma non ho avuto difficoltà a riandarci, poiché ne vale la pena.
Il panorama da questa altura è veramente eccezionale. Si vede tutta la città, dall’alto sia la parte che da sul Rio Tejo, sia quella verso l’interno con il brulichio delle persone, delle macchine e della vita di Lisbona. Poi, dopo aver apprezzato la veduta con immancabile scatto fotografico a memoria futura, è il tempo di una passeggiata tra le mura del castello vero e proprio, quindi una visita al museo. In quest’ultimo, ordinato e di moderna concezione, si trovano essenzialmente cocci. Tra questi, però, ho notato alcuni frammenti di porcellana cinese del periodo tra il XVII e il XVIII secolo, per lo più. Questo vuol dire che nel castello, in quello stesso lasso di tempo, si usava in qualche modo il vasellame cinese, ed è una notizia non da poco. Tuttavia, l’attrazione più significativa di questo luogo non sono né le rovine né i rimasugli di ceramiche, bensì alcuni altezzosi pavoni che liberi scorrazzano per i giardini del castello. Maschi dal piumaggio fantasmagorico e femmine dall’audace sexappeal. I turisti imitano i suoni di questi volatili, i pavoni un po’ ne prendono atto un po’ si defilano, io me ne sto beato al tavolino del Café, sorseggiando una bibita per combattere un caldo che già alla mattina presto si fa sentire; l’umidità è altissima, però di tanto in tanto arrivano folate di venticello dall’Atlantico che stemperano non poco i fastidi della calura, peraltro ancora preestiva.
Non lontano dal Castello, sempre nell’Alfama, si trova anche la prima vera meta del mio viaggio a Lisbona. Si tratta del Museu das Artes Decorativas, unico altro museo aperto di lunedì a Lisbona. Questo bel museo è in realtà lo spazio espositivo di una Fundação, voluta da Ricardo Espírito Santo Silva, un facoltosissimo banchiere, mecenate e amante dell’arte, che nel 1953 donò allo stato portoghese la sua collezione e il palazzo in cui oggi si trova, a patto che le istituzioni trasformassero il suo dono in uno spazio pubblico. Così è accaduto e all’interno del bel palazzo antico che si affaccia elegante sul Largo das Portas do Sol, sono conservate opere di vario genere e periodo che ben rappresentano l’evoluzione delle arti portoghesi dal XVI al XIX secolo.
Tuttavia, il maggior orgoglio di questa istituzione è la scuola che vi ha sede. Gli iscritti si specializzano nello studio delle tecniche artistiche tradizionali, dall’ebanisteria alla fonditura, dal cesello alla tessitura, dall’intarsio ligneo all’oreficeria. Non solo teoria, però. Gli studenti, infatti, imparano praticamente a lavorare i materiali secondo le antiche tecniche dell’artigianato artistico. Ho avuto il privilegio di visitare lo spazio dedicato all’esposizione delle opere realizzate dagli studenti. Sono copie di arredi di vario tipo, tra quelli conservati in musei, in tutto è per tutto eguali agli originali, usando materiali di prima scelta e tecniche di assemblaggio dell’epoca. Questi oggetti sono in vendita, naturalmente, e i clienti facoltosi che acquistono queste riproduzioni non mancano, stando alle parole della gentile mia accompagnatrice, la dottoressa Conceição Amaral, direttrice del museo. Dal mio punto di vista è una iniziativa che ha grandissimi meriti, grazie alla quale sarà possibile mantenere memoria dei traguardi tecnici e stilistici del passato. E non solo per le menzionate riproduzioni ma anche, e soprattutto, nell’ambito dei restauri conservativi, ai quali so che gli studenti della Scuola partecipano con esiti lodevolissimi.
Martedì, 17 maggio 2011
Pioviggina, ma l’afa non accennua ad attenuarsi. Tuttavia, confesso, poco mi importa della situazione meteoreologica e, soprattutto, essa non ha alcun effetto sul mio stato d’animo che è, a dir poco, felice.
Oggi ho infatti intenzione di far visita agli amici Jeorge Welsh e Luisa Vinhas, nel loro negozio nella centralissima Rua da Misericordia, molto vicino al Largo do Chiado, zona nevralgica per il turismo a Lisbona, molto nota anche per il Cafè A Brasileira, con la sua celebre statua in bronzo di Pessoa che si gusta il passaggio degli avventori tra i tavolini all’aperto di questo bar.
Jorge e Luisa hanno una galleria di arte cinese e giapponese tra le più belle che abbia mai visitato, con oggetti di una qualità che farebbe l’invidia di molti musei nel mondo. Si tratta quindi di un negozio, aperto al pubblico e quindi qui posso parlarne, con merci in vendita, ma la disposizione dei manufatti e il loro pregio rendono questo luogo molto più simile ad un museo che ad una bottega. La loro specialità è l’arte cinese e giapponese da esportazione. Soprattutto porcellane cinesi delle dinastie Ming (1358-1644) e Qing (1644-1911) e manufatti giapponesi di tipo Nanban, ovvero prodotti in giappone con forme e motivi di gusto europeo, destinati sia all’estero ma anche al mercato interno per chi, tra i giapponesi, si fosse fatto coinvolgere dai temi esotici. Questo stile artistico si originò ed ebbe il suo momento di maggior splendore in epoca Momoyama (1573-1615), ma anche in seguito si produssero opere d’arte di questo tipo. Iniziò dunque con l’arrivo dei portoghesi nel 1542-1543, i primi occidentali giunti in Giappone, ed ebbe le sue folate più tardive quando a tutti gli stranieri il governo degli shōgun Tokugawa aveva proibito di avere contatti commerciali con l’Impero del Sol Levante. Ad eccezione degli olandesi protestanti che, relegati a Nagasaki, poterono continuare a svolgere una dose minima di traffici con l’altero popolo giapponese, sotto stretto controllo governativo.
Bene, nel negozio di Welsh e Vinhas si possono ammirare moltissimi oggetti di tipo Nanban, gran parte dei quali di qualità superba, a volte rarissimi, a volte raffinatissimi. Qui, al contrario dei musei, a volte questi tesori si possono anche toccare, accarezzare, palpare. Ovvio, bisogna essere per lo meno Francesco Morena, o avere un portafogli di grandissima capienza. Meno male che almeno sono Francesco Morena, altrimenti altro che toccare…
Dopo aver pranzato con Jorge e Luisha, manco a dirlo a base di succulento pesce freschissimo e ottimamente cucinato, mi organizzò rapidamente per raggiungere il Museu Nacional de Arte Antigua. Durante il precedente viaggio a Lisbona questo scrigno dei tesori fu la mia meta principale. Lo visitai più volte e ne studiai approfonditamente le collezioni, ovviamente in particolare quelle di arte cinese e giapponese. Allora non potei non godere della sua strepitosa collezione di pittura occidentale e trascorsi moltissimo tempo, estasiato, ad ammirare le Tentações de Santo Antão di Bosch, forse l’opera simbolo di questo museo, e una delle più celebrate della storia dell’umanità. Questa volta la mia visita è stata brevissima. Quasi non era in programma. Ma, come per un segno di rispetto, ho voluto infine a tutti i costi ritornarci anche se solo per un’ora. Una passeggiata rapida, quindi. A chi si rechi in Portogallo, però consiglio vivamente di riservare almeno mezza giornata a questo museo. Soprattutto per chi come me è appassionato di arte cinese e giapponese. E’ questo infatti il luogo in cui, solo per dirne una, si conservano i più grandiosi paraventi giapponesi con scene dell’arrivo dei Portoghesi. Databili all’inizio del XVII secolo, questi dipinti, e quegli altri di simile tema sparsi per il mondo, offrono allo spettatore una visione di un avvenimento storico di portata eccezionale, ovvero il primo incontro tra due culture, due mondi, quello dell’Europa e quello del Giappone, che avrebbe in seguito contribuito a cambiare le sorti della storia umana. Senza contare che, come nel caso delle due coppie del Museo di Lisbona, a parte il soggetto, la qualità pittorica di questi di questi paraventi è in molti casi altissima. D’altra parte, molti tra loro furono realizzati da esponenti di spicco della Scuola Kanō, la più prestigiosa del tempo, al servizio dei personaggi più influenti del Giappone del XVII secolo.
Mercoledì, 18 maggio 2011
Assistere ad una nascita, si sa, è come partecipare ad un miracolo. La nascita di un bambino, anche questo si sa, è ovviamente il miracolo più entusiasmante. Tuttavia, vi assicuro, anche la nascita di un museo può, per chi come me vive anche di questo, scatenare emozioni fortissime.
Il lieto evento è accaduto a Lisbona, non mercoledì 18 maggio 2011 (sarebbe stato troppo…) ma solo qualche decina di mesi fa, nel 2009. L’hanno battezzato Museu do Oriente. Quando venni a Lisbona la volta precedente era in gestazione. Esisteva allora la Fundação Oriente, che visitai. Si studiava, si organizzavano eventi, c’era una biblioteca. Ma il museo, no, non c’era. Ora c’è. Ubicato in Avenida Brasilia, sulla via verso la celebre Torre de Belém, è un edificio di recente ristrutturazione che in origine serviva come stoccaggio dei baccalà (non mi stupisce considerando l’onnipresenza di questo gustosissimo pesce in Lisbona). La concezione della divisione dei suoi spazi e degli allestimenti è quindi modernissima, avanzatissima. Vi sono a disposizione tre amplissimi piani in cui sistemare le opere ariosamente. E’ infatti luci e sistemazione dei manufatti sono molto suggestive. Accompagnato dapprima dalla direttrice del museo, la simpaticissima dr.a Maria Manuela d’Oliveira Martins, ho avuto modo di sapere che in origine l’idea era quella di esporre l’enorme mole di oggetti in possesso del Museo a rotazione. Tuttavia, mi è sembrato di capire, la selezione di oggetti ora realizzata e le difficoltà di continui spostamenti hanno mosso la direzione a mantenere questa attuale scelta per un periodo più lungo, attualmente senza scadenza. Come non comprendere, in effetti, questa soluzione. Molti degli oggetti sono infatti così spettacolari, complessi nella loro pluralità di elementi che non è difficile immaginare a quali peripezie tecniche si vada incontro ogni volta che si debba spostarli. Infatti, oltre ad una importante sezione di oggetti d’arte di tipo museale, come comunemente si intende, questo Museo si è concentrato sull’esposizione di manufatti che chiariscano al pubblico alcuni aspetti peculiari delle culture orientali, dall’India al Giappone, via Indonesia, Asia Centrale, Sud-Est asiatico e Cina, in particolare la religiosità. Mi spiego meglio. Spostare un vaso di ceramica, una scultura di bronzo, per quanto grandi e delicati essi siano, è un conto. Provate invece a smantellare un intero altare taoista. Pur non essendo molto antico, certo del Novecento, esso si compone di una grande quantità di pezzi, di materiali diversi, da assemblare e smontare ogni volta… Bene, nel Museu do Oriente, tutto un piano è occupato da questo genere di opera. Lo spettacolo per il visitatore, di ogni età, è assicurato. Vere e proprie installazioni, nelle quali colori spregiudicati si impongono tra gli antri scuri che, adeguatamente, separano ogni vetrina dall’altra. Gruppi di sculture, tessuti sgargianti, divinità prepotenti, un vero e proprio viaggio tra le credenze di un continente.
L’altro piano, si diceva, ospita invece una selezione di oggetti in possesso del Museo, che si possono dire sicuramente più artistici. Ceramiche dal Neolitico al XX secolo; un gruppo di oggetti per raccontare Macao e il suo rapporto con il Portogallo; quindi, sculture di ogni tipo, una bella raccolta di snuff bottles e un gruppo di gioielli giapponesi in miniatura, tra netsuke, inrō e tsuba.
Non entrerò nel dettaglio di queste collezioni, senz’altro meritevoli di ammirazione. D’altra parte, esiste già in vendita un catalogo ben illustrato di tutte le opere in esposizione. Già, un catalogo, già pronto a meno di due anni dall’inaugurazione del Museo. Non ricchissimo di dettagli, ma una traccia. Domanda: “Esistono molti musei in Italia, anche tra quelli in vita da decenni, che possono vantare un catalogo?”
Naturalmente, ampi spazi del museo sono lasciati liberi per le esposizioni temporanee che qui si susseguono senza interruzioni. Al pian terreno, ad esempio, c’era una piccola, ma divertentissima mostra sui giocattoli in Asia, dagli anni cinquanta ad oggi, dagli aquiloni cinesi ai semplici origami, dagli snodabili zoomorfi indonesiani ai robottoni giapponesi degli anni Settanta. Una chicca, e immagino quanto i bambini abbiano potuto gradire questa sorpresa, pur non potendo usare quei fantastici balocchi.
Io ero al museo anche per visitare quella che allora si teneva. Intitolata “Encomendas Namban. Os Portugueses no Japão da Idade Moderna” e curata per la parte scientifica dall’amica Alexandra Curvelo, mostrava una selezione di circa cinquanta pezzi per l’appunto di arte Nanban. Un gruppo di oggetti accuratamente selezionati, ognuno dei quali esposto con cura e grazia per evidenziarne la spettacolarità. Al merito qualitativo proprio di ognuno dei pezzi va senz’altro affiancato il gusto dell’allestimento. Luci soffuse e ben direzionate, fondo nero e silenzio assoluto. In una parola una mostra piccola ma perfetta che, sono sicuro, ha emozionato gli specialisti quanto il pubblico comune. Rimarrà senz’altro a lungo nella mia memoria, come esempio da tenere a mente nel prossimo futuro. Inutile dire che al Museu do Oriente ho trascorso gran parte della mia giornata e che all’uscita non avvertivo alcuna stanchezza di sorta.
In conclusione del mio breve viaggio a Lisbona, nella serata di questo ricco mercoledì, in macchina ho raggiunto via costa la vicina Estoril, nota per il suo Gran Premio motociclistico e forse più come luogo di vacanza della nobiltà portoghese e internazionale, da lungo tempo a questa parte. Non vi scriverò perché ero lì. Però, vi assicuro, lo spettacolo che la Natura offre al tramonto nei venti chilometri circa che separano Estoril da Lisbona è da mozzare il fiato, davvero.
“Io lo inseguì”? Mamma mia…