La storia della pittura asiatica del Novecento è in molti casi la storia dell’incontro tra la gloriosa tradizione orientale e stimoli eterogenei provenienti prevalentemente dall’Europa, ormai diffusi capillarmente in quei territori come conseguenza della massiccia presenza coloniale di molti stati occidentali.
Il risultato di questa combinazione è per certi versi entusiasmante.
Si tratta a tutti gli effetti di una pittura nuova nella quale, in estrema sintesi, lo spirito dell’arte estremo-orientale si manifesta attraverso modalità sperimentali, più moderne e – soprattutto – trasversali, per la consapevole ma mai pedissequa assimilazione dei canoni della pittura europea più all’avanguardia.
Il Vietnam è probabilmente il paese della vastissima area geografica del Sud-est asiatico in cui questa inedita propensione degli artisti orientali all’ibridismo si è espressa con maggiore forza ed eleganza.
Gli esordi di questa fase della pittura vietnamita si collocano nel terzo decennio del Novecento, allorché Victor Tardieu (1870-1937) fondò a Hanoi l’Ecole des Beaux-Arts, con la fondamentale collaborazione di Nguyen Van Tho (1890-1973). L’artista francese concepì quella istituzione secondo schemi accademici già ben collaudati a Parigi. Tuttavia, egli ebbe l’intuizione di inserire nell’offerta formativa della scuola alcuni insegnamenti che rinverdissero la tradizione di quel paese tanto affascinante tra cui, ad esempio, l’utilizzo della lacca come pigmento pittorico.
L’iniziativa di Tardieu rifletteva anche in ambito artistico un nuovo approccio del governo francese nell’amministrazione del protettorato indocinese. Dopo diversi decenni in cui aveva cercato solamente di imporre le sue volontà in tutti i campi, ora agiva con maggiore moderazione, prediligendo la via della cooperazione, restituendo finalmente dignità alla millenaria civiltà vietnamita.
Fu una scelta vincente, grazie alla quale gli artisti locali poterono confrontarsi con un metodo di insegnamento dei saperi artistici che era differente nella sostanza da quello di tradizione confuciana fino ad allora propugnato, in base al quale la trasmissione avveniva quasi esclusivamente nell’ambito familiare, di generazione in generazione, o quanto meno in maniera diretta tra allievo e maestro.

Le Pho, Vaso con fiori, 1975.

Le Pho fu tra i più talentuosi giovani che frequentarono l’Ecole subito dopo la sua fondazione.
Nato nel 1907 in una delle più influenti famiglie del paese (suo padre era stato Viceré del Tonchino, la più alta carica istituzionale affidata dai francesi ai locali), Le Pho seguì i corsi di Tardieu tra il 1925 e il 1930.
Già allora si distinse per uno stile suo proprio nel quale elaborava i canoni del post-impressionismo francese divulgato dal maestro (amico di Matisse) utilizzando la seta, supporto tradizionale della pittura estremo-orientale, in soggetti che riflettevano un profondo amore per la sua terra.
In quegli stessi anni giovanili, sperimentò anche l’uso della tecnica della pittura a lacca, raggiungendo pure ottimi risultati. Tuttavia, la sua allergia per quel materiale – già tossico per sua natura – gli impedì di cimentarsi ulteriormente in quell’ambito, così che le sue opere a lacca sono davvero rarissime.
Già i suoi dipinti giovanili si caratterizzavano per una ricca ma delicata policromia, che ben rifletteva un’indole piuttosto incline alla malinconia.
Il suo repertorio includeva composizioni di fiori, o meglio nature morte floreali, e ritratti femminili, soggetti che rimarranno una costante in tutta la sua produzione successiva.
Nel 1931 Le Pho – già apprezzato in patria per le sue composizioni di grande impatto visivo – ricevette una borsa di studio per recarsi in Europa. Di stanza a Parigi, nei due anni successivi ebbe l’occasione di visitare anche il Belgio (Bruges), la Germania (Colonia) e l’Italia, rimanendo particolarmente impressionato dall’arte dei cosiddetti ‘Primitivi’ e da quella rinascimentale che poté ammirare in Toscana (risiedette a Fiesole per un periodo e fu colpito soprattutto dalle opere di Sandro Botticelli e Domenico del Ghirlandaio), echi della quale si ritrovano anche nelle sue opere successive, soprattutto nell’impostazione si potrebbe dire ‘classica’ delle sue figure.

Le Pho, Madonna col Bambino, 1938.

In alcuni casi, come nell’evocativa composizione con la Madonna col bambino del 1938 circa, il riferimento stilistico ai maestri del Rinascimento europeo è quasi testuale, una sorta di omaggio, sebbene le caratteristiche fisiognomiche dei due personaggi e l’ambientazione della scena mostrino evidenti rimandi alla cultura tradizionale vietnamita.
Al ritorno in Vietnam nel 1933 ricevette l’incarico di insegnare proprio presso l’Ecole des Beaux-Arts dove si era formato.
L’anno successivo si sarebbe recato in Cina. A Pechino ebbe l’occasione di visitare i maggiori musei e le più importanti collezioni private della capitale. L’influenza dell’arte tradizionale cinese nell’opera di Le Pho è tuttavia marginale, sebbene suoi echi si percepiscano per il riflesso che essa indubbiamente ebbe sullo sviluppo della cultura artistica vietnamita, nell’uso calligrafico della linea ad esempio, o più in generale in certe atmosfere che pervadono molte delle sue composizioni.
A Hanoi Le Pho rimase fino al 1937, anno in cui fu selezionato come membro della commissione per l’allestimento del Padiglione Indocinese organizzato per l’Esposizione Universale che si teneva allora a Parigi.

Le Pho con la moglie Paulette e i figli.

Da quel momento la capitale francese sarebbe diventata la sua città, fino alla fine dei suoi giorni. In un caffé del Quartiere Latino nel 1945 avrebbe conosciuto Paulette, poi divenuta sua moglie, grazie alla quale avrebbe finalmente lenito il dolore per la perdita in giovane età della madre (fu essenzialmente allevato dallo zio). Soprattutto, a Parigi nel 1938 avrebbe inaugurato la sua prima esposizione personale (promossa dall’ambasciata indocinese) con la quale sarebbe iniziata una lunga carriera costellata di successi.
Pur non vivendoli personalmente, Le Pho non rimase indifferente agli importanti e drammatici fatti storici che riguardarono il suo paese, dalla liberazione dai giapponesi nel 1945 e dai francesi nel 1954 ai due decenni di occupazione americana, e ciò si evince chiaramente analizzando le principali tematiche dei suoi dipinti, ancora fortemente incentrate sui luoghi natii e i suoi abitanti, raffigurati con vena malinconica e nostalgica, quasi volessero evocare la condizione, sebbene consapevole e non forzata, di esilio del suo autore.
Nel 1940, con la dichiarazione di guerra tra Francia e Germania, Le Pho fu arruolato nell’esercito francese; in quegli anni sarebbe comunque riuscito a trascorrere certi periodi a Vence, non lontano da Nizza, dove – nel 1943 – ebbe modo di conoscere Matisse, il suo maggiore riferimento pittorico insieme a Bonnard.
A questa fase della sua vita si legano le vicende di uno dei suoi dipinti più famosi, un grande Nudo di donna (cm. 90,5 x 180,5), venduto presso Christie’s Hong Kong il 26 maggio 2019 (lot 107) a oltre un milione di euro.

Le Pho, Nudo di donna, 1931.

Le Pho era particolarmente legato a quest’opera, con la quale aveva scardinato uno dei tabù della pittura tradizionale vietnamita, che per l’appunto non consentiva la rappresentazione del nudo. Realizzata nel 1931, l’artista la portò con sé ovunque si spostasse, e quindi in Francia nel 1937. Prima di partire per il fronte la lasciò come garanzia alla sua proprietaria di casa, che in effetti la vendette come saldo per gli arretrati dell’affitto dell’appartamento.
Stessa sorte toccò anche allo straordinario La moglie del mandarino (cm. 81 x 130), anch’esso realizzato nel 1931. Si tratta sicuramente di uno dei più suggestivi dipinti che Le Pho abbia realizzato, manifesto di uno dei più ispirati periodi della sua lunghissima carriera.
Il taglio orizzontale della composizione è ardito, con la bellissima donna raffigurata seduta di tre quarti dal bacino in su, le mani dalle dita affusolate posate l’una sull’altra sulle gambe, la testa solo leggermente piegata verso il basso, l’espressione del volto elegante e pensierosa, scandita dal taglio regolare degli occhi e dalla piccola bocca carnosa velata di smalto rosso, un punto di luce per la perla all’orecchio, il nero corvino dei capelli legati con una crocchia bassa, vestita di un semplice ma raffinato abito bianco; bianco che domina anche la struttura cromatica del cachepot con ramo fiorito sulla sinistra della composizione; sul fondo si apre un’ampia nicchia centinata, oltre la quale un ramo in verità secco e la massa di un cespuglio.

Le Pho, La moglie del mandarino, 1931.

E’ un dipinto dalle atmosfere eteree, senza tempo, la cui bellezza si basa sull’equilibrio del disegno e sull’uso di colori tenui giustapposti con grazia, con un effetto finale che ricorda certa pittura surrealista, ad esempio alcune composizioni di Magritte, nella quale non mancano però echi della grafica estremo-orientale. Le Pho è abile come pochi nel restituire le atmosfere del Vietnam ai tempi della dominazione francese, piegato nell’onore ma fiero della sua tradizione.
La moglie del mandarino e Nudo di donna appartengono alla prima delle tre fasi cronologiche in cui è usualmente suddivisa l’opera di Le Pho. Essa si colloca tra gli esordi e la fine della Seconda Guerra, e comprende dunque sia gli anni della formazione e dell’insegnamento a Hanoi, sia il primo viaggio in Europa e il periodo iniziale del lunghissimo soggiorno a Parigi.
In questa prima fase l’artista, pur avendo appreso i modi per l’utilizzo della tecnica di origine europea dell’olio su tela, dimostra progressivamente di preferire la seta come supporto (spesso incollandola su una base in carta spessa), sulla quale svolge le composizioni a inchiostro e colori. Nell’ambito di questo primo periodo, secondo molti critici il 1938 fu un anno particolarmente felice nella carriera dell’artista vietnamita, durante il quale realizzò dipinti intrisi di eterea grazia, raffigurazioni di donne esili e bellissime, collocate in ambientazioni pervase da un sentimento onirico e nostalgico.

Le Pho, La primavera, 1955.

Le opere del secondo periodo, conosciuto come Romanet dal nome del gallerista francese che rappresentò Le Pho a Parigi dal 1946 al 1962, si caratterizzano senz’altro per una colorazione più accesa, ancora più fauvista rispetto agli anni precedenti. L’artista continuò a prediligere la tecnica dell’inchiostro e dei colori su seta, adeguata tuttavia a un approccio evidentemente più moderno per soddisfare il suo gusto ormai in tutto matissiano.
Nonostante la vivacità cromatica, i dipinti di questo periodo non celano però l’amarezza e la tristezza di Le Pho per le drammatiche vicende che in quel periodo sconvolgevano il suo paese d’origine.
Analogie stilistiche con le opere del secondo periodo si ritrovano nei dipinti della terza fase, realizzati tuttavia prevalentemente con la tecnica dell’olio su tela. Il periodo è conosciuto come Findlay, dal nome del famoso gallerista statunitense che gestì in maniera praticamente esclusiva la produzione di Le Pho dal 1962 in poi, garantendo all’artista notorietà e successo anche in America. In realtà, Le Pho avrebbe praticamente smesso di dipingere nel 1990, anno in cui ebbe un grave incidente automobilistico.
Le opere di Le Pho rappresentano dunque un momento di incontro tra culture artistiche solo apparentemente inconciliabili. La loro forza risiede proprio nel loro essere miscela di stimoli tanto diversi. Nonostante egli ottenesse un certo successo già da giovane, e poi nel corso della sua lunghissima carriera, in anni recenti le quotazioni delle opere di questo talentuoso artista sono in costante crescita, grazie soprattutto all’interesse che suscitano nei collezionisti vietnamiti, le cui attuali disponibilità economiche sono piuttosto importanti.

Le Pho, Autoritratto, 1931.