Teorema
Se OrientArt si occupa di Arte Orientale e l’Oriente è tutto quello sterminato territorio che si trova a est di Bari, allora può trovare spazio anche una mia riflessione sull’Arte Indiana, nonostante l’arte e la cultura del subcontinente indiano non siano proprio la mia specialità.
Logica conseguenza del Teorema
Come posso allora non scrivere qualcosa a proposito della mostra che si tiene dal 26 ottobre 2013 al 31 maggio 2014 presso la Casa dei Carraresi di Treviso intitolata Magie dell’India. Dal Tempio alla Corte, capolavori d’Arte Indiana, che è proprio dedicata alla millenaria cultura indiana?
Risultato
Beh, allora scrivo, che scrivendo scrivendo, e prima ancora leggendo leggendo, e insieme ammirando ammirando, di sicuro imparo qualcosa, che non fa mai male.
A mia memoria non ricordo che in Italia sia mai stato organizzato un evento sull’India così ambizioso. La mostra di Treviso, infatti, curata da Marilia Albanese, Renzo Freschi e Adriano Màdaro, propone al pubblico godimento una nutrita selezione di manufatti che coprono un arco cronologico che spazia dal III millennio a.C. all’inizio del Novecento.
Un lungo viaggio tra i meandri di una civiltà grandiosa e molto complessa, che ha avuto la straordinaria capacità di trasformare le diversità e le contrapposizioni in una ricchezza piuttosto che in occasioni di scontro e intolleranza. Non che in India i rapporti tra le differenti comunità siano stati sempre idilliaci e privi di incomprensioni (anche oggi esistono diverse ‘zone calde’, e il rischio che si sfoci nella violenza è palpabile); tuttavia, in maniera opposta a quanto è accaduto (e accade) in altre zone del globo terrestre, la miscela in teoria sempre esplosiva che si scatena allorché varie etnie si trovino a condividere medesimi spazi vitali, ha avuto in India una più pacifica elaborazione. Non intendo affermare che che tutti gli Indiani siano santi e che l’India sia terra che ispiri santità, mentre su tutto il resto del pianeta vivano diavoli e depravati; ma quel che è certo è che – nonostante la presenza da sempre anche in quella gigantesca penisola di sopraffattori autori di meschinità di ogni genere – l’indole di quei popoli è naturalmente portata all’integrazione, all’accoglienza e alla spiritualità. Ed è questa forse la più importante Magia di questa cultura che, è ormai a tutti noto, è destinata a diventare nei prossimi anni protagonista assoluta dello scacchiere mondiale.
Non si spiegherebbe altrimenti come sia stato possibile che una simile quantità di culti diversi abbiano potuto convivere dall’antichità fino ai giorni nostri. Non come compartimenti stagni, però, ma ognuno influenzando profondamente gli altri, recependo, rielaborando e facendo propri alcuni specifici tratti. E non si tratta solamente delle dottrine originarie dell’India, come l’Induismo, il Buddhismo e lo Jainismo, ma anche di religioni straniere come l’Islam, il Cristianesimo e le dottrine dei Parsi, senza contare le miriadi di comunità solo apparentemente meno influenti come quella dei Sikh.
Un calderone dal fascino irresistibile, quindi, dal quale si è generata una cultura quanto mai variegata e ricca di declinazioni. Una eterogeneità estrema, che tanto ha attratto gli europei e gli altri cosiddetti ‘occidentali’ da molti secoli a questa parte, e in special modo nel Novecento, allorché intellettuali di spessore (Herman Hesse per citarne almeno uno) e semplici persone alla ricerca di un’identità a rischio di perdersi tra i ritmi maniaci della modernità (vedi gli hippies negli anni Sessanta-Settanta), compirono (realmente o virtualmente) una parte del proprio cammino spirituale proprio in quella terra incantata e incantatrice.
Questa eccezionale compresenza di stimoli tanto diversi ha avuto un suo ovvio riflesso anche nell’arte, soprattutto nella scultura e nella miniatura, che possono considerarsi tra le forme artistiche più rappresentative dell’India tradizionale. Dal punto di vista iconografico, infatti, l’arte indiana costituisce una vera e propria sfida per chi voglia comprenderla: migliaia e migliaia di divinità, ognuna delle quali preposta ad occupare uno degli infiniti sentieri che possono mettere il fedele nella prospettiva di raggiungere uno degli altrettanto molteplici gradi di Verità che costituiscono l’ultima Conoscenza. Un fiume in piena di volti, corpi, costumi, attributi, con i quali si costruisce un pantheon di sublime molteplicità. Un’accolità di membra e maschili e femminili, molti dei quali si caratterizzano per una fortissima carica erotica (molto bello e istruttivo, a proposito dell’Eros nell’arte indiana, il saggio di Giuliano Boccali nel catalogo della mostra trevigiana): un’unione sessuale che dall’ambito mistico penetra tra gli uomini e le donne sulla terra, ai quali sono rivolti gli insegnamenti di testi come il noto Kama Sutra, compilati come fossero manuali per istruirsi all‘ars amandi.
Gli oggetti di arte indiana in mostra a Treviso sono stati selezionati proprio per offrire al pubblico un’idea di questa strepitosa molteplicità che raggiunge il suo acme proprio in ambito filosofico-religioso. Per questo la mostra è organizzata in sezioni che danno conto di questa esuberanza, alle quali se ne aggiungono altre che sviscerano ulteriori peculiarità della civiltà indiana: ad esempio, l’arte favorita presso le corti dei maharaja e lo sviluppo delle relazioni tra India e Italia, con particolare riferimento all’immaginario creato da Emilio Salgàri (1862-1911), lo scrittore che – pur non avendo mai visitato l’India – è riuscito coi suoi racconti a costruire la fantasia ‘indiana’ degli italiani: come non ricordare le avventure di Sandokan, lette attraverso le pagine di un libro o guardate attraverso la pellicola di un film per la televisione?
L’Italia svolge un ruolo davvero fondamentale in questa mostra trevigiana dedicata all’India, non solo per la sezione salgariana. Nel catalogo si susseguono infatti solamente saggi di studiosi italiani, per lo più docenti universitari. Ma quel che è davvero straordinario è che tutti gli oggetti in esposizione, alcuni dei quali autentici capolavori della creatività artistica indiana, siano stati reperiti in Italia, in alcuni musei pubblici (tra i quali il MAO di Torino), ma soprattutto grazie alla generosità di alcuni collezionisti privati, che hanno accettato di privarsi di alcuni dei loro oggetti per un periodo abbastanza lungo (oltre sette mesi!).
La spiegazione di questa scelta sta tutta nelle parole di Renzo Freschi, uno dei curatori della mostra che, in calce al suo breve intervento introduttivo all’espozione, ha scritto: “Abbiamo infine deciso di reperire le opere esclusivamente in Italia: per far conoscere al pubblico un’India che annovera nel nostro Paese studiosi di fama internazionale, musei importanti e collezionisti appassionati”.
E non è poco! In un ambito, quello della storia dell’arte che, molto spesso, si nutre esclusivamente delle immagini relative alle opere conservate in quei musei e in quelle collezioni pubbliche e private che hanno maggiore forza di divulgazione, sapere che esistono conoscitori e collezionisti che entrano in possesso di opere solo per soddisfare il proprio desiderio di godimento estetico e culturale, e sapere che questo accade entro i confini dell’Italia, tutto ciò mi infonde serenità. Grazie a loro, anche noi potremo per un certo periodo far parte di una comunità privilegiata, e di questo non possiamo che essere grati agli organizzatori della mostra.