Appena l’ho visto, lì, disteso per orizzontale, nella sua teca ad altezza fianco, a simulare la posizione in cui è rimasto per oltre due millenni, intatto, immobile, quasi a sfidare l’eternità; appena l’ho visto ho provato, credetemi, una fortissima emozione.
Era lì, davanti ai miei occhi, fisicamente presente, a circa dieci centimetri dalla mia mano, solo un vetro trasparente ma infrangibile ci separava, impossibile però da violare. Avrei voluto toccarlo o almeno sfiorarlo, come si fa con la reliquia di un santo; avrei voluto sentirne la consistenza.
Era così bello, con i suoi colori accesi nonostante la sua età veneranda, e i suoi personaggi misteriosi, animali e umani, simboli ed emblemi di una mitologia di cui è praticamente persa memoria, sfida insoluta per tutti quegli studiosi che cercano da tempo di decifrarne il linguaggio. Un rebus complicato e affascinante, così difficile da svelare proprio perchè non se ne conosce l’alfabeto.
Era così bello, splendido nel suo inalterato stato di conservazione, così bello che quasi sembrava una fotocopia dell’originale. L’ho immaginato, non nego. Che i responsabili della sua conservazione, giustamente preoccupati per la sua tutela, abbiano deciso di far viaggiare a insaputa di tutti una sua riproduzione invece che l’originale. Ho sentito dire, tra l’altro, che è già successo, che in mostre sull’arte cinese fossero esposti falsi, ma in pochissimi hanno obbiettato. D’altronde, in questa nostra era digitale e virtuale, sono le immagini che costituiscono la mostra, e poco potrebbe importare se la riproduzione sostituisse l’originale, poiché il pubblico troverebbe comunque soddisfazione per la sua necessità celebrale di associare immagini.
Tuttavia, io sono tra quelli che ancora preferisce ammirare il reperto unico, poiché – vi assicuro – l’effetto è diverso, e non ci sarà mai nessuna fotografia o stampante 3D che riuscirà a riprodurre fedelmente la patina che si è posata su un oggetto nel corso del tempo. Mai.
Comunque, a parte queste considerazioni, mi ha profondamente emozionato vederlo lì così vicino a me nella sua superba integrità. Proprio quel capolavoro che imparai ad amare sui libri al tempo dell’università, studiando quell’arte cinese che tanto ha contribuito a cambiare la mia vita, non solo professionale.
Già allora, quasi vent’anni fa, questo capolavoro era un punto nodale per comprendere l’evoluzione della cultura cinese al tempo della dinastia degli Han Occidentali (206 aC-9 dC). Per la preparazione dell’esame era argomento che non si poteva trascurare. Poi, da allora e fino a oggi, me lo sono ritrovato più volte, ma sempre sui libri, solo su fotografia.
Oggi invece era lì, davanti ai miei occhi. Meraviglioso.
Lo Stendardo Funerario di Xin Zhi, la marchesa di Dai.
Il drappo fu posato nel II secolo aC sopra il sarcofago più interno della tomba di questa nobile dama, moglie di Li Cang, primo ministro dello stato di Changsha, nel sud del continente cinese. E’ lei, la marchesa, che campeggia al centro della scena raffigurata sullo stendardo, accompagnata da ancelle e ossequiata da due figuri inginocchiati, mentre intorno si svolge la misteriosa teorie mitologica e religiosa.
La sua tomba fu realizzata a poca distanza da quella del marito e da quella del figlio, nel sito a tutti noto col nome di Mawangdui. E lì è rimasta, solitaria e perfetta, per oltre due millenni. Finchè, tra il 1972 e il 1974, gli archeologi cinesi non riportarono alla luce le tre tombe, sicuri di poterle ritrovare facilmente grazie alla tradizione documentaria che nel passato ne aveva conservata memoria.
La scoperta è stata tra le più sensazionali dell’archeologia internazionale del XX secolo. I reperti all’interno dei tre tumuli furono ritrovati in condizioni pressoché perfette, risparmiati dall’azione implacabile del tempo grazie alla fortunosa combinazione di particolari condizioni ambientali. L’intero corredo delle tre tombe è così ritornato a nascere. Lacche di eccezionale qualità, sete di straaordinario fascino, testi antichi vergati su listelli di bambù o su seta con calligrafia ordinata e minuziosa, sigilli in oro e pietra, e tutti gli altri oggetti che i tre nobili vollero portare con sé nel viaggio verso l’Aldilà.
Tuttavia, il pezzo che più entusiasmo fu certo lo Stendardo, che divenne in pochi anni il simbolo perfetto di quell’epoca gloriosa della cultura cinese.
Come per magia, inoltre, ha sconfitto il trascorrere del tempo anche il corpo della Marchesa. Inspiegabilmente, infatti,i ricercatori cinesi ritrovarono praticamente intatte le membra di quella nobildonna, con molti dei dettagli del suo viso, del suo torso e dei suoi arti tanto integri che non sembrava possibile che quel corpo avesse più di duemila anni. Perfino i tessuti morbidi; pure le vene più importanti si potevano vedere, anche ad occhio nudo. Forse i procedimenti di mummificazione utilizzati, forse le condizioni ambientali del sarcofago che si è tramutato in una sorta di camera iperbarica, oppure tutti questi fattori assieme, hanno fatto sì che anche quelle carni divenissero immortali. Oppure, forse ragioni a noi oscure, che vanno oltre l’ambito della scienza per entrare in quello della magia (un brivido mi percorre la schiena…).
Tant’è che quella dama rifulge eterna ancora oggi in tutta la sua austera bellezza. Forte più di prima, tanto che per lo meno una parte degli splendidi accessori del suo corredo, riesce ad affrontare il lungo viaggio tra lo Hunan Provincial Museum, dove i reperti di Mawangdui sono conservati, e Palazzo Venezia, a Roma. Nel centro nevralgico di quella città che dominò il mondo occidentale nello stesso periodo in cui la Cina fu unificata dagli Han, che diedero a quell’immenso territorio asiatico prosperità commerciale ed economica inedite fino ad allora.
Lo stendardo, alcune lacche, le sete e altri oggetti appartenuti al Marchese, a sua moglie e al loro figlio sono in mostra a Palazzo Venezia dal 3 luglio 2014 al 16 febbraio 2015, intitolata Le leggendarie tombe di Mawangdui. Arte e vita nella Cina del II secolo A.C.. Un’occasione praticamente irripetibile per ammirare oggetti di superba bellezza e per conoscere meglio certi aspetti della cultura tradizionale cinese.
In mostra si proiettano anche due video che contestualizzano quel fenomenale ritrovamento archeologico; è presente inoltre un manichino che ritrae la marchesa così come doveva apparire mentre era in vita (iil corpo imbalsamato no, non c’è…); l’apparato didattico è piuttosto esaustivo, seppure pieno zeppo di errori grammaticali e di battitura (è vero che la mostra è stata organizzata per intero dalla Cina ma il Ministero per i Beni Culturali italiano che l’ha promossa, poteva pure prendersi la briga di rileggere i testi prima di affiggerli in quelle sale di sua pertinenza….). Non c’è inoltre un cataloghino, un librino a ricordo della mostra che consenta un qualche approfondimento, neanche una cartolina, ma solo un misero depliant a quattro pagine, praticamente una fotocopia. Che dire, è come se da Pompei spedissimo in Cina venti-trenta reperti per una mostra, e che a Pechino la allestissero negli spazi più reconditi e di difficile accessibilità della Città Proibita. Ci rimarremo male, no?