E’ da tempo ormai che è stata messa in scena la morte dell’arte giapponese. Da una decina d’anni circa, da quando cioè la crisi globale ha cominciato a fiatare sul collo delle potenze economiche mondiali, Giappone compreso. Quel momento ha coinciso più o meno con l’ascesa inarrestabile del mercato dell’arte cinese. Paradossalmente le due cose – declino dell’arte giapponese e contemporanea fortuna dell’arte cinese – sono l’uno conseguenza dell’altra. Mi spiego. Chi fa il mercato dell’arte non sono soltanto gli acquirenti, ovvero quei privati cittadini che, nutrendo una reale passione per una qualche tipologia di oggetto, ne acquistano esemplari. Il mercato dell’arte è invece soprattutto cosa da mercanti. Prima che un oggetto finisca tra le mani dell’acquirente finale, vi è solitamente una serie di passaggi intermedi, per cui quello stesso oggetto si vende tra professionisti del mercato dell’arte: antiquari, intermediari, freelances, avventurieri, e chi più ne ha più ne metta. Va da sé che – nella stragrande maggioranza dei casi – lo spirito che anima queste transazioni commerciali si basi più sul potenziale economico di un oggetto che sulla sua reale qualità. Per questo, con il prepotente ingresso in questo mondo dell’arte cinese e di compratori estremo-orientali, è iniziata una caccia senza tregua all’oggetto cinese che certo avrebbe avuto più possibilità di essere venduto, e a prezzi senza dubbio più vantaggiosi. Questo modo di agire ha non solo fatto sì che le quotazioni dell’arte cinese raggiungessero livelli ormai stratosferici, con conseguente ‘infezione’ del mercato (il prezzo sale, sale, sale, ma ad un certo punto diventa così alto che l’oggetto non si vende più), ma ha anche segnato un generale disinteressamento del mercato verso altre forme d’arte orientale, tra cui quella giapponese. Faccio un esempio, certo banale ma che a mio parere riflette l’attuale situazione. Se entrate in un negozio di antiquariato in Italia, e nella vetrina dedicata alle ‘curiosità’ orientali trovate soltanto arte cinese (spesso di qualità bassissima), certo penserete che l’arte giapponese non è degna di essere esposta in quell’espositore. Non è così. Quell’antiquario ha fatto quella scelta solo a fini (comprensibili) di commercio, nella speranza che uno dei facoltosi e numerosi acquirenti cinesi di passaggio nella sua città possa comprare uno dei suoi pezzi, eliminando così del tutto quella fascia di acquirenti in cerca di un oggetto bello e a prezzo abbordabile, non importa se cinese o giapponese. Tuttavia, la sempre maggiore selezione operata dai mercanti cinesi, i quali non voglion altro che oggetti imperiali di epoca Qing, tralasciando del tutto il resto (lo stesso discorso che qui si fa sull’arte giapponese potrebbe benissimo farsi sull’archeologia cinese, anch’essa moribonda, e solo per questioni di mercato), si sta pian piano ritorcendo contro noi stessi: gli oggetti imperiali sono naturalmente destinati ad esaurirsi e intanto abbiamo fatto tabula rasa di tutto il resto.
Ma l’arte giapponese è cosa troppo bella perché una ‘moda’ possa eliminarla, dalle nostre vite come dal mercato. Ed infatti il suo appeal è rimasto inalterato anche in questi anni di crisi. La cultura del Sol Levante è sempre molto apprezzata, soprattutto dai giovani, che si appassionano con grande intensità ad alcuni suoi aspetti, come il fumetto e i cartoni animati. Generi che fanno anche da traino per l’arte antica, considerando quanto le forme d’arte contemporanea giapponese facciano riferimento alla tradizione. Così, non è peregrina l’ipotesi che il giovane appassionato di manga fattosi grande decida di comprare una originale stampa giapponese.
L’arte giapponese, dunque, sembra morta, ma in realtà non lo è. Lo dimostra il fatto che, dopo anni di transizione, anche Christe’s a Londra abbia organizzato recentemente delle aste sui manufatti provenienti dall’arcipelago estremo-orientale. Si è così interrotto l’incontrastato predominio di Bonham’s che, nonostante le difficoltà, ha sempre tenuto vivo un dipartimento di arte giapponese, organizzando almeno due aste all’anno.
L’asta di arte giapponese di Christie’s si è tenuta l’11 novembre 2015, ed è stata quindi organizzata per l’Asian Week di Londra, di cui abbiamo più volte avuto occasione di scrivere recentemente. L’asta si intitolava Aestethic Intuition: Collecting Japanese Art in Post-War London, a stigmatizzare la provenienza tutta britannica dei manufatti offerti all’incanto. Il catalogo è introdotto niente meno che da Victor Harris, già curatore della sezione giapponese del British Museum, il quale scrive proprio sugli sviluppi del collezionismo londinese di arte giapponese nella seconda metà del Novecento: il suo intervento si intitola Some Reflections on the Post-war London Collectors. Nomi di grande spicco, come Sir Harry Garner (1891-1977), Anne Hull Grundy (1926-1984), Jack Hillier (1912-1995), Oliver Impey (1936-2005), Roger Soame Jenyns (1904-1976) e altri ancora, con i quali si delinea un quadro molto vivo e appassionato del collezionismo di arte nipponica in Europa.
L’asta è stata un successo, come non se ne vedeva da molto tempo per l’arte giapponese nel mondo. Ha totalizzato quasi 2.000.000 di sterline di vendite per soli 51 lotti, sui quasi 200 che componevano il catalogo. L’oggetto più ambito è stato sicuramente la scatola per cosmetici (tebako) al lotto 151, aggiudicata per 326.500 £, appena al di sopra della stima di partenza (300.000 £). Sontuosamente laccata, la scatola deve aver fatto parte del celebre corredo di lacche realizzato per il matrimonio della Principessa Chiyo, figlia del terzo shogun Tokugawa Iemitsu (1604-1651) e nipote di Ieyasu, lo shogun che ha unificato il Giappone all’inizio del Seicento. Gran parte di questo meraviglioso gruppo di lacche è conservato presso il Tokugawa Art Museum di Nagoya, ma alcuni pezzi sono anche in altri musei in giro per il mondo, tra cui il Museo delle Culture di Milano (Mudec).
Simile cifra (314.500 £) anche per il lotto 146, uno straordinario pannello laccato realizzato da Shibata Zeshin (cm. 36,8 x 78,1), artista di grande versatilità che negli ultimi anni è asceso nell’olimpo degli autori giapponesi più ricercati. Raffigurante un corvo in ambientazione notturna, il pannello faceva parte della collezione di Sakamoto Goro.
Tra gli oggetti più belli figurava senz’altro una scultura in legno raffigurante il Buddha Amida Nyorai (lotto 68, stima 200.000-300.000 £) risalente al periodo Heian (X secolo). Alta 78 cm., è stata realizzata utilizzando un unico blocco di legno, secondo una consuetudine tecnica in voga in quell’epoca. Inedita fino all’asta, per la sua autenticazione è stato necessario che fosse sottoposta a esame carbonio, il quale ha confermato l’analisi stilistica. Un manufatto che sicuramente apparteneva in origine ad un tempio.
Con piacere, si nota anche la presenza tra i lotti venduti di stampe dell’Ukiyo-e. Certo non si tratta di xilografie di basso profilo, ma di alcuni tra i maggiori capolavori di quell’arte che ha avuto tra i suoi protagonisti autori del calibro di Hokusai, Utamaro e Hiroshige. Stampe di questi artisti non mancavano tra quelli offerti da Christie’s, ma a me piace segnalare il ritratto a mezzobusto dell’attore di teatro Kabuki Ichikawa Omezo I nel ruolo di Ippei (lot 84), di Toshusai Sharaku, autore enigmatico che fu attivo solo per pochi mesi nel 1794: un’immagine a me molto cara, venduta in questa occasione a 62.500 £.
Un successo dunque, ma bisogna pur notare che molti lotti sono andati invenduti e che quelli sopra ricordati, benché aggiudicati, sono stati tutti acquisiti praticamente al prezzo di stima: non vi è stata dunque grande competizione per accaparrarseli. La via verso la rinascita dell’arte giapponese è perciò ancora lunga, e molto si deve e si può fare. L’importante è che qualcosa si sia mosso: magari qualcuno comincerà a riservare a questi manufatti la considerazione che indubbiamente meritano.