La biblioteca dell’Università di Yale, negli Stati Uniti, una delle più prestigiose del mondo, conserva tra le sue collezioni storiche un nucleo di dipinti piuttosto particolari, a dir poco.
Si tratta di ritratti, di uomini e di donne, realizzati con la tecnica tutta europea dei colori a olio su tela da Lam Qua (1801-1860), uno tra i primi artisti cinesi a confrontarsi con le tecniche e lo stile della pittura occidentale.
Le sue opere rivelano infatti una conoscenza piuttosto approfondita di artifici del tutto estranei alla grandiosa tradizione pittorica cinese, come il chiaroscuro, lo sfumato e la prospettiva matematica.

D’altronde, Lam Qua nacque e fu attivo a Canton, la città più cosmopolita della Cina antica, porto internazionale dove operavano le numerose Compagnie delle Indie Orientali europee e statunitense. Egli ebbe dunque modo di entrare in contatto precocemente con l’arte degli stranieri. Sicuramente conosceva George Chinnery (1774-1852), pittore inglese che visse e fu attivo per molti anni tra Macao e Canton, ma non sussistono prove che l’artista europeo impartisse lezioni al più giovane cinese, sebbene il loro stile mostri indubbiamente delle affinità.
Quel che è certo è che Lam Qua riuscì nel volgere di pochi anni a entrare nelle grazie nono solo degli acquirenti cinesi che apprezzavano la novità che quella pittura di gusto esotico rappresentava, ma degli stessi europei, che gli commissionarono diversi ritratti, genere nel quale si specializzò.
Tra i suoi impegni artistici più rilevanti, si deve ricordare proprio la cospicua serie di ritratti conservata a Yale. Essa è il risultato della collaborazione tra Lam Qua e Peter Parker (1804-1888), missionario statunitense che ebbe il merito di introdurre in Cina le metodologie della medicina occidentale.
A partire dal 1836, e fino al 1855, Parker commissionò al pittore cinese dipinti che raffigurassero senza alcun filtro i pazienti più gravi che il medico ebbe a curare.
Il risultato è un vero e proprio repertorio di terrificanti deformità anatomiche.
I malati vengono ritratti in una posa classica, per la maggior parte sono ben vestiti, seduti o sdraiati, l’espressione del volto che non tradisce quella sofferenza che di certo doveva essere lancinante.
Sembra quasi che Lam Qua abbia deliberatamente deciso di isolare il male, inserendo in quelle composizioni altrimenti pacate, masse tumorali più o meno abnormi, sui visi, sui corpi, a volte purulente, in un campionario di oscenità cancerose che mai prima si erano viste, così, esposte sotto le mentite spoglie di un sorriso appena accennato, tra il fruscio vellutato di un abito in seta e un’ulcera sanguinolenta.
Nella pittura tradizionale cinese l’anatomia ha svolto da sempre un ruolo piuttosto defilato, soprattutto se si confronta con la centralità che il corpo umano ha invece avuto nelle arti figurative europee, a partire dalla Grecia classica.
I ritratti di Lam Qua costituiscono uno dei primi tentativi in questo ambito nella storia dell’arte cinese, e non lasciano perciò indifferente lo spettatore che viene il più delle volte destabilizzato da immagini allo stesso tempo naturalistiche e disturbanti.
Nonostante tale impatto visivo faccia quasi vacillare, resta l’abilità innegabile di Lam Qua nel destreggiarsi in una pittura estranea al repertorio tradizionale del suo paese, lirica e potente anche in quei ritratti di mercanti di Canton – cinesi e stranieri – che lo hanno reso tra i protagonisti dell’origine dell’arte figurativa moderna del Regno di Mezzo.

PS
Scrivendo questo breve articolino e guardando le immagini dei ritratti medici di Lam Qua, il mio pensiero è andato a un giorno di agosto del 2007. Ero a Tianjin, e andai a visitare un tempio buddhista piuttosto noto ai locali e per niente frequentato dai turisti. Il lungo viale che introduceva al portale principale del santuario era fiancheggiato da una moltitudine di derelitti che chiedeva la questua, mostrando le più atroci deformità corporali che abbia mai visto.
Un’esperienza straziante, indimenticabile.
E insieme un grande insegnamento.
A volte basta andare poco oltre la propria quotidiana ‘comfort zone’ per essere catapultati nell’errore.