“Le parole sono importanti!!!”
Così recita strepitando il protagonista di un noto film diretto da un regista molto appassionato di giochi infantili, tipo i girotondi. “Certo che sono importanti!”, aggiungo io annuendo.
Tra le parole importanti, alcune a mio parere sono più importanti di altre. Meritano una riflessione, debbono essere soppesate. Soprattutto se le parole in questione sono definizioni, prima di tutto se le parole in questione sono definizioni che riguardano la propria persona. Ad esempio, non so se possiate immaginare quante riflessioni abbia io dedicato alla ricerca del termine più giusto per definire il mio mestiere. Più volte, ad esempio, ho simulato (solitamente davanti allo specchio…) il dialogo con un ipotetico nuovo conoscente al quale avrei dovuto chiarire con una sola, unica parola (una definizione per l’appunto), come trascorra io le giornate, non solo per soddisfare una passione ma anche per ‘sbarcare il lunario’.
Pare facile, no? Allo specchio, magari, ma quando si tratta di situazioni diciamo ‘non intime’, la questione nel mio caso non si dirime quasi mai in modo automatico. Certo molto dipende dal tipo di interlocutore con cui mi confronto. Non c’è alcun problema con persone hanno in qualche modo a che fare col mondo dell’arte, ovviamente. Tuttavia, non penserete mica che io, nel quotidiano, abbia solo rapporti con questo genere di persona? Immaginate le scene in cui mi possa trovare quando il fruttivendolo, il gommista, il bagnino della piscina che frequento, il genitore del compagno di classe dei miei figli e così via, può capitare, mi chiedano che lavoro faccia. Alla mia risposta, si aprono scenari alternativi: silenzi con sguardo indagatore spesso accompagnato da uno “Scusa?”; oppure “Ah, come Sgarbi, vero?”; cambi repentini di argomento; tentativi di capirne di più (“E in che consiste?”); un tale, una volta, serenamente, molto serenamente, mi disse: “Ah, ho capito, allora non fai nulla dalla mattina alla sera, vero?”.
Poiché questa è una storia che va avanti da un certo numero di anni, appena ne ho avuto la possibilità, nei casi che ritengo possano evolversi in maniera per me sconcertante ho imparato a risolvere il tutto con un semplice ma efficace “Insegno all’università”. Professore, dottore, funzionario, ispettore. Queste sono definizioni inoppugnabili, che non ammettono incomprensioni, che rasserenano l’interlocutore che a volte, incuriosito, si spinge più in là e chiede ”Ah, e cosa insegna?”, “Arte dell’Estremo Oriente” rispondo. Non di rado, questa specificazione scardina le certezze appena prima conquistate, e così potrei andare avanti nel racconto di queste mie piccole disavventure per molto ancora. Tuttavia, le citate categorie non soddisfano appieno la mia ricerca della ‘definizione perfetta’ per il mio lavoro. E’ vero, sono dottore specializzato, insegno e sono ispettore per il Ministero, e quindi funzionario, anche se senza portafoglio. Ma non le sento calzanti per la mia professione.
Ma allora, che lavoro faccio, una volta per tutte?
Premetto, necessariamente, che di lavoro si tratta. Anche solo perché grazie a questo lavoro ho soddisfatto da anni a questa parte tutte le necessità pratiche, mie e della mia famiglia. Esso consiste nello studiare, il quale ha a sua volta come risultato la pubblicazione di libri, saggi e schede, l’organizzazione di mostre, consulenze e prestazioni di vario genere per enti pubblici e privati cittadini, tutto nel campo dell’arte cinese e giapponese. A detta di qualcuno sarei un ‘esperto’ nel mio ambito professionale. Per altri sarei un ‘conoscitore’ della materia. Per altri ancora sarei un ‘intenditore’ di arte orientale. Per alcuni, forse, potrei anche essere solo un ciarlatano, sbruffone e profittatore (addirittura!). Quasi quasi capisco le reazioni di cui ho scritto appena sopra, di quelle persone che alla domanda “Che lavoro fai?” si sentano rispondere “Esperto d’arte”, oppure “Conoscitore”, o ancora “Intenditore”. In realtà, io mi ritengo piuttosto uno storico dell’arte, uno studioso di arte, e penso che la migliore di tutte le definizioni sia quella esistente nelle lingue anglosassoni, ovvero “scholar” (che in italiano non si traduce “scolaro”, ovviamente, con o senza pantoloncini corti…).
Tuttavia anche esperto, intenditore e conoscitore sono definizioni che per certi versi inquadrano la mia professione, a patto che siano usate secondo corretto significato etimologico. Esperto è infatti colui cha ha esperienza, e quindi si diventa esperti col tempo, per l’appunto acquisendo esperienza. Ma chi può dire quale sia il grado perfetto di esperienza, raggiunto il quale chi esperisce è finalmente diventato esperto? Socraticamente, si potrebbe affermare che la condizione sublime di Esperto (con la E maiuscola) non si può raggiungere, e per questo si può solo essere “un po’ esperti”. Stesso discorso si potrebbe organizzare anche per spiegare la definizione “intenditore”, che rispetto a esperto è temine ancor più vago. Più complessa è invece la questione “conoscitore”, poiché nell’ambito della storia dell’arte questa parola ha da più di un secolo una particolare valenza. Nello studio dell’arte occidentale dalla metà circa dell’Ottocento si sono susseguite numerose figure di Conoscitori, alcuni dei quali diventati col tempo famosi per le loro proverbiali capacità di giudicare un’opera d’arte solo guardandola: Morelli, Berenson, Longi, Zeri e molti altri. Fiumi di parole sono stati spesi per cercare di spiegare le capacità di questi personaggi, impareggiabili nel dare una “carta di identità” ad un dipinto altrimenti anonimo. Così sono usciti dall’oblio capolavori di Raffaello, Caravaggio e altri Maestri dell’arte. Eppure, nonostante i saggi, le pubblicazioni, i suggerimenti e gli insegnamenti, non credo che esista una ben definita metodologia pragmatica e didattica seguendo la quale si può raggiungere la condizione di Conoscitore. Io ritengo che sia necessario saper guardare e toccare un oggetto, studiare sui libri, conoscere le fonti, ascoltare i consigli degli altri, avere umiltà, ammettere di poter sbagliare e ammettere lo sbaglio e, soprattutto, lasciarsi tentare sempre da una cauta curiosità che questa è sempre buona guida.
A questo punto vi chiederete: “Ma tutto questo groviglio di parole (a proposito de “Le parole sono importanti!”…) cosa avrebbe da spartire con le “Lacche cinesi nell’asta della San Giorgio del 13 marzo”?
Il fatto è che, cominciando a riflettere su questo gruppo di oggetti cinesi proposto dalla Casa d’Aste San Giorgio all’interno della vendita di arte orientale che si terrà a Genova in quel giorno, il mio pensiero è andato man mano sempre più concentrandosi sulle questioni di cui sopra ho scritto. E più precisamente mi sono chiesto “Con quale approccio dovrei approfondire l’argomento lacche cinesi, in relazione a quegli oggetti reali, tangibili, ora in Liguria e tra qualche settimana chissà dove?”. Come storico dell’arte, come studioso-scholar, come esperto, come intenditore, come conoscitore, oppure, ahime!, come neofita, presuntuoso o ciarlatano? Chi si occupa di
arte, a mio parere, dovrebbe sempre farsi domande del genere, a maggior ragione se se ha l’occasione di confrontarsi con un argomento alquanto complicato com’è quello delle lacche cinesi. E’ vero, infatti, che – pur esistendo una corposa bibliografia su questo tema – non moltissime sono le certezze storico-artistiche, soprattutto in relazione ai manufatti in lacca dell’ultimo millennio. Mentre le scoperte archeologiche hanno contribuito a chiarire l’evoluzione della tecnica della laccatura per i periodi più antichi, portando alla luce reperti presenti in contesti ben delineati, riguardo ai pezzi più recenti la documentazione storica – l’unica che consenta attribuzioni inoppugnabili – è più scarna, limitandosi a qualche fonte scritta e alla presenza di qualche firma o marchio di regno sugli oggetti. Considerando quanto, nell’arte cinese, sia labile il confine tra autentico, copia, modello e falso, si può comprendere con quale cautela si debbano giudicare queste marche di regno. Così, il metodo più usato dagli esperti per giudicare le lacche cinesi è finore rimasto quello dell’attribuzione su base stilistica e tecnica. Roba da Conoscitori insomma, con tutto quello che di vago può risultarne. Tuttavia, soprattutto nel mondo della storia dell’arte, le ipotesi, le proposte e i suggerimenti sono essenziali, a patto che chi li abbia formulati sia sempre pronto a ricevere la critica, beninteso che questa sia costruttiva e supportata da un certo bagaglio di prove. In sintesi, come si dice, “metto le mani avanti” sulle attribuzioni che seguono, conscio dell’ineffabilità dei miei stessi giudizi…
Prodotto dalla lavorazione di una resina che si estrae dalla pianta della Rhus verniciflua, la lacca ha nella cultura cinese una storia plurimillenaria. Già in epoca neolitica era usata per rivestire oggetti di vario genere, con lo scopo di levigarli, lucidarli e impermeabilizzarli. I manufatti più antichi erano privi di decorazione. Tuttavia, certi ornati compaiono già su oggetti laccati della dinastia Shang (XVI-XI secolo a.C.). Nel corso della cosiddetta Epoca degli Stati Combattenti (476-221 a.C.) gli artisti specializzati nella lavorazione della lacca erano capaci di creare manufatti di straordinaria bellezza e perfezione tecnica, tra i quali si distinguono quelli ritrovati nella tomba del marchese Yi di Zheng nella provincia dello Hubei, realizzati intorno al 433 a.C.. In epoca Han (206 a.C.-220 d.C.) le tecniche della laccatura si perfezionarono ulteriormente. Gli artisti, consci della bellezza dei propri lavori, non di rado firmarono e datarono le loro opere. Inoltre, essi potevano permettersi di vendere i loro manufatti a prezzi davvero altissimi, molto più alti rispetto ad analoghi oggetti in bronzo od altri materiali. Da allora l’evoluzione dell’arte della lacca non ha avuto pause. Gli artigiani e gli artisti specializzati nella lavorazione di questo materiale hanno sperimentato incessantemente nuove tecniche, producendo oggetti di inusitata bellezza e grandissimo fascino estetico.
Una delle tipologie di lacca cinese che maggiormente entusiasma, i collezionisti di oggi come gli acquirenti nel passato, è quella dei manufatti lavorati a intaglio (in cinese xipi o tixi), tecnica messa a punto con maggiore consapevolezza all’incirca nel periodo compreso tra il IX e il X secolo, tra la fine della dinastia Tang (618-907) e l’inizio di quella Song (960-1279). Lacche intagliate di altissima qualità furono prodotte in diversi momenti di tutta la successiva storia artistica cinese, durante le dinastie Yuan (1279-1368), Ming (1368-1644) e Qing (1644-1911).
Grazie all’aggiunta di vari coloranti, le vernici laccate possono presentarsi in diverse colorazioni. Tuttavia, insieme al nero, il colore preferito in Cina è stato, per lo meno dalla dinastia Han, quello rosso, ottenuto con la miscela di vernice e cinabro. Prima di valutazioni estetiche, il motivo di questa predilezione dei cinesi per il rosso ha a che fare con il Taoismo. Come in Europa, infatti, anche in Cina nell’antichità si credeva che questo minerale potesse trasformarsi in oro. Proprio i taoisti erano convinti che bere da tazze in oro potesse prolungare la durata della vita. Per traslazione, essi credevano che anche il cinabro, per le sue presunte proprietà di mutazione, potesse essere usato come ingrediente fondamentale per creare l’agognato elisir di immortalità. E’ molto probabile, quindi, che i contenitori in lacca rossa, ancora nella dinastia Ming, fossero creati in gran parte per essere utilizzati nei rituali taoisti, soprattutto nell’ambito della corte imperiale. D’altronde lo stesso imperatore, i suoi familiari e i più alti funzionari della burocrazia statale erano gli unici che potessero permettersi l’acquisto di manufatti in lacca rossa, poiché questi erano davvero molto costosi: il cinabro era di per se stesso raro e prezioso e, inoltre, la realizzazione di una buona lacca, che fosse degna del sovrano celeste, richiedeva la sovrapposizione di un grandissimo numero di strati di vernice e un tempo di lavorazione lunghissimo. Così, paradossalmente, le lacche rosse potevano raggiungere prezzi anche molte volte più alti di analoghi oggetti in oro oppure in argento.
Tra le lacche cinesi proposte dalla San Giorgio ve n’è una, quella al lotto 280, in cui benissimo si nota la sovrapposizione di diverse stesure di lacca, grazie all’alternarsi di uno strato nero e di uno rosso ben visibile nella sezione. Questa scatola per incenso (xianghe) ha sezione circolare e si compone di due metà di analoghe dimensioni, una delle quali funge però da coperchio, riconoscibile per la presenza al centro, sulla sommità, di una pietra di opale. L’intera superficie esterna del piccolo contenitore (diam. cm. 8 ) è, come si è detto, lavorata ad intaglio in basso rilievo con un motivo geometrico continuo dall’andamento concentrico. Questo pattern decorativo è uno tra i più tipici dell’arte cinese. Si tratta del cosiddetto motivo ruyi, letteralmente “come desideri”, termine con il quale si designa una sorta di scettro in uso ai monaci buddhisti, simbolo di autorità religiosa. La sommità di questo arnese liturgico ha una forma più o meno trilobata che col tempo è diventata un motivo ornamentale molto diffuso, utilizzato prevalentemente come bordura. Nelle lacche intagliate il motivo dei ruyi ha avuto una grande fortuna. Si può ricordare anche che la più antica lacca intagliata, una scatolina cilindrica risalente al V secolo d.C., è decorata proprio questo ornato. Quest’ultimo si può presentare in due varianti principali. In una il lobo superiore è arrotondato, così che la testa assume la forma di quell’antico tipo di occhiali privi di stecche laterali che si sostengono solo con la curva superiore sul naso: perciò questa variante è nota come ‘a forma di occhiali’. Nell’altra il lobo superiore è appuntito così che il motivo assume la forma di un cuore: perciò è detto ruyi ‘a cuore’. Nella nostra scatola, quest’ultima variante è presente nella sezione inferiore, mentre quella a’ occhiali, caratterizza il lato superiore. Si sa che le due tipologie di ruyi coesistettero già in epoca Song. A questo periodo, o nella prima parte della dinastia Yuan, risale la realizzazione di questa affascinante lacca intagliata, offerta dalla San Giorgio con un prezzo di partenza di Euro 4000-5000. Cara? E se fosse stata d’oro, quanto pensate avreste potuto pagarla? Al tempo in cui fu prodotta fu venduta, come scritto sopra, ad un prezzo maggiore di un analogo oggetto in oro…
Ad un periodo di poco posteriore al tempo in cui questa scatola della San Giorgio fu realizzata risalgono anche alcune fonti documentarie in cui si ricordano lacche intagliate cinesi. La più antica è forse il Butsunichi-an kō motsu mokuroku, inventario dei beni presenti nella pagoda Butsunichi-an del tempio buddhista Enkakuji di Kamakura in Giappone, documento che però riprende testualmente un inventario più antico, del 1320. Le notizie risalgono quindi agli ultimi anni dell periodo Kamakura (1185-1333). Non deve sorprendere che informazioni su questo tipo di manufatto cinese si trovino in Giappone, poiché il paese del Sol Levante era allora in costante contatto commerciale con il grande Impero continentale. Alla grande civiltà cinese i giapponesi si ispiravano allora con costanza, in tutti gli ambiti, dalla politica alla religione, dall’architettura alle varie arti. Tutto ciò che era cinese entusiasmava, così che gli oggetti di là provenienti erano tenuti in grandissimo conto. Tra questi, proprio le lacche rosse intagliate, alle quali gli artigiani nipponici si rifecero quando iniziarono a produrre in autonomia un analogo tipo di manufatto laccato, noto agli studi come Kamakura bori, ovvero “intaglio di Kamakura”. Ad alimentare questa sperimentazione tecnica contribuì senz’altro in maniera rilevante il dono di 58 scatole di lacca rossa inatagliata inviato nel 1403 dall’imperatore cinese Yongle (1360-1424) allo shōgun giapponese Ashikaga Yoshimitsu (1358-1408) per ringraziarlo per l’impegno che questi aveva dimostrato nel debellare la pirateria che infestava i mari comuni ai due paesi. Per tutto questo proprio nei musei e nei templi giapponesi sono tuttora conservate numerose lacche cinesi della cui storia molto si conosce, utilissime dunque per quegli studiosi che tentano di mettere ordine nella altrimenti difficilissima cronologia di questo genere di manufatti. A qualche decennio dopo la compilazione dell’inventario dell’Enkakuji risale anche la prima e più autorevole fonte antica cinese in cui si fa menzione delle lacche. Si tratta del notissimo Geguyaolun (“I criteri essenziali delle antichità”), un vero e proprio manuale per conoscitori d’arte scritto nel 1388 da Cao Zhao. L’autore suggeriva di constatare la qualità di una lacca rossa intagliata in base al numero di strati di vernice sovrapposti di cui si componeva.
Dunque, Cao Zhao scrisse il suo saggio a due decenni dall’instaurazione della dinastia Ming (1368-1644). La prima parte di quest’epoca si può considerare come il ‘momento d’oro’ nell’arte della lacca rossa intagliata. Esiste infatti un nucleo consistente di manufatti di questo tipo sui quali sono riportate le marche di regno degli imperatori Hongwu (regno 1368-1398), Yongle (regno 1403-1424) e Xuande (1426-1435), di una qualità tale che pare improbabile che possa trattarsi di repliche successive con marchio apocrifo. Solo, in alcuni casi, si è supposto che i marchi fossero sì stati aggiunti in seguito, ma su oggetti realmente fabbricati in quel periodo, privi però in origine del marchio dell’imperatore. Gli intendenti di Palazzo avrebbe perciò fatto apporre gli ideogrammi di un sovrano del passato sicuri che quegli oggetti fossero stati eseguiti proprio in quel tempo. Questa produzione di altissima qualità ha fatto ipotizzare che in quel periodo la realizzazione di oggetti in lacca rossa intagliata fosse affidata quasi esclusivamente ad artigiani sotto stretto controllo imperiale.
Poi, il buio. Non esistono infatti lacche rosse con il marchio di uno degli imperatori che si succedettero al trono di Cina tra il 1435 e il 1522, anno in cui andò al potere Jiajing (1507-1567). Quest’ultimo sovrano stimolò nuovamente la produzione di manufatti in lacca vergati con il nome del proprio regno, incentivando l’utilizzo di diverse tecniche e iniziando quindi una nuova fase della storia di questa tecnica dell’arte cinese.
La San Giorgio propone in asta per il prossimo 13 marzo due manufatti in lacca rossa di gran pregio, che si possono datare alla dinastia Ming, quasi sicuramente nella parte centrale di questa, forse tra il XV e il XVI secolo, probabilmente proprio in quel periodo di cui si è scritto appena sopra, durante il quale cadde in disuso la pratica di vergare con la marca dell’imperatore questo genere di manufatti. Si tratta di due scatole, ai nn. 281 e 282. Entrambe hanno sezione circolare, la prima (diam. cm. 22) con base circolare, la seconda (diam. cm. 15) pressoché cilindrica. La n. 281 mostra un ricchissimo decoro a rilievo di due uccelli che si affrontano tra fiori di peonia (mudan), al quale si aggiungono sull’orlo delle due sezioni, base e coperchio, altrettante bordure di meandro di greca (leiwen). La n. 282, invece, presenta sul corperchio un’altrettanto esuberante scena con due ‘leoni buddhisti’ (shizi) tra rocce e ancora fiori di peonia. La qualità di entrambi questi contenitori rituali è davvero eccezionale. Le forme sono equilibrate, la patinatura naturale della lacca davvero suggestiva e i motivi decorativi molto affascinanti. Riguardo a questi ultimi, l’ornato con i due uccelli tra i fiori è abbastanza ricorrente sui manufatti in lacca rossa intagliata, in auge fin dall’inizio del periodo Yuan. Più raro sulle lacche invece quello con i due leoni che si affrontano: tuttavia, esso è pur sempre uno tra i più sfruttati dell’arte cinese in generale. La mia proposta di datazione al XV-XVI secolo si basa, oltre che su un’impressione generale (mai fidarsi troppo di questa, però…), anche sulla constatazione della presenza sui due manufatti di un fondo continuo alla composizione principale, nella n. 281 di tipo geometrico, nella n. 282 con onde marine. Ora, quest’uso di sistemare gli ornati al di sopra di un tappeto di fondo, geometrico o marino che sia, non ricorre negli esemplari più antichi, per capirci Yuan o inizio Ming, mentre è più diffuso in quelli più tardi. D’altro canto, volendo fidarmi del mio intuito, all’interno della dinastia non posteciperei di tanto questa datazione, mantenendomi in periodi anteriori all’avvento di Jiajing.
Riguardo alla tecnica con cui è stata lavorata la lacca in questi due esemplari, essa mi sembra non possa essere solo il frutto di sovrapposizione di strati di lacca, eliminati poi per assecondare la composizione. Dalle foto (poiché solo quelle finora ho esaminato), mi sembrebbe piuttosto che, insieme alle stratificazioni di vernici rosse, compaiano anche accentuati rilievi realizzati con l’ausilio dell’apposizione di un’imprimitura composta di argilla, ceneri e lacca. Quest’antica tecnica, nota in cinese con i termini jiatihong e duihong, è testimoniata sia nel citato Geguyaolun del 1388, sia nell’inventario della pagoda dell’Enkakuji di cui si è detto. In giapponese è nota come tsuishu, termine che in verità in quella lingua identifica un pò tutte le lacche intagliate cinesi e giapponesi.
Con queste premesse, cioé qualità molto alta e datazione alla metà della dinastia Ming, a voi il giudizio per la stima di partenza di queste due scatole: Euro 18000-20000 per la n. 281, 8000-10000 per la n. 282.
Non possono esserci invece dubbi sulla datazione di un’altra lacca cinese ancora in asta presso la San Giorgio il 13 marzo. Si tratta del lotto n. 265.
Due imponenti pannelli (cm. 157 x 40) lavorati a intaglio, racchiusi entro cornice modanata. Entrambi hanno fondo verde scuro con tappeto floreale su cui si stagliano medaglioni circolari con l’ideogramma shou (“longevità) in una delle sue forme stilizzate e pipistrelli (fu), anch’essi simboli di longevità. Su ognuno dei pannelli si dispongono poi in verticale quattro grandi cartigli poligonali di forme diverse in lacca rossa lavorata a intaglio, all’interno di ognuno dei quali è descritta una scena con figure ambientata in uno scorcio di paesaggio con elementi architettonici. Si tratta di scene tipiche dell’iconografia artistica cinese, che riguardano quasi sempre il mondo dei letterati (wenren), le loro passioni, le loro consuetudini e le storie che su di loro la letteratura ha tramandato.
Nell’angolo inferiore sinistro di entrambi i pannelli è presente un piccolo riquadro in lacca rossa, nel quale è intagliato il marchio “Da Ming Chongzhen nianzhi”, ovvero “Realizzato durante il regno dell’imperatore Chongzhen dei grandi Ming”. Non c’è motivo di dubitare dell’autenticità di questo marchio, che fa riferimento per l’appunto all’imperatore Chongzhen (1611-1644), salito al trono a soli diciassette anni e regnato tra il 1628 e il 1644. in quest’ultimo arco di tempo si può quindi inserire la realizzazione di questi due pannelli che, nella mia opinione, furono certamente eseguiti per conto dello stesso sovrano, molto probabilmente in una delle botteghe specializzate nella lavorazione della lacca sotto diretto controllo imperiale.
Il numero delle lacche del periodo Chongzhen è realmente esiguo. D’altronde il periodo storico in cui questo sovrano regnò è stato sicuramente uno dei più turbolenti nell’intera, millenaria, storia cinese. Rivolte indipendentiste sconvolgevano tutto il paese mentre le truppe mancesi a nord premevano con sempre maggiore insistenza per entrare nell’Impero e assumerne la guida. Al fine vi riuscirono, proprio nel 1644, mettendo fine alla dinastia Ming, inaugurando quella Qing (1644-1911) e portando Chongzhen a suicidarsi impiccandosi ad un albero. Di questa infausta congiuntura politica risentirono naturalmente anche le arti. Molte manifatture imperiali finirono per ridurre drasticamente la loro produzione ed alcune, come quelle delle porcellane di Jingdezhen, la sospesero del tutto. Ciò agevolò le imprese dei privati che poterono, oltretutto, sfornare opere libere da ogni costrizione formale ed estetica,superando I limiti artistici fino a quel momento imposti dalla ingerente burocrazia statale. Questa riflessione vale soprattutto per le porcellane, ma anche in altri ambiti artistici si assistette ad una certa rinascita espressiva.
Riguardo alla funzione originaria di questi pannelli, che dire? Elementi di arredo autonomi? Parti di un mobile? Di un paravento? Con certezza non saprei. Per averli si parte da una cifra minima di 10000-12000 Euro.
Ad un periodo immediatamente successivo si data invece la grande scatola da cibo (shihe) al lotto n. 274. Al di sotto della sua base è infatti incisa un’iscrizione di cinque ideogrammi, Shunzhi ding yu nian, in cui si fa riferimento al regno dell’imperatore Shunzhi (1638-1661) e all’anno ding yu, corrispondente al 1657. Shunzi è stato il primo imperatore della dinastia Qing, salito sul trono appena dopo la morte di Chongzhen e regnato dal 1644 al 1661. Anche questo periodo, come quello precedente, fu dal punto di vista politico e sociale molto travagliato. Gli scontri tra i lealisti Ming e gli invasori mancesi erano ancora durissimi, soprattutto in quei territori in cui le sacche di resistenza poterono organizzarsi. Dal punto di vista culturale e artistico la situazione era ancora instabile, così che solo in anni molto recenti gli studi specialistici hanno consentito di fare una certa chiarezza. Nell’ambito della porcellane, ad esempio, fondamentale è stata la bellissima mostra, e l’annesso catalogo, Treasures from an Unknown Reign. Shunzhi Porcelain 1644-1661 del 2002, voluta e organizzata dall’infaticabile Sir Michael Butler, massimo esperto e collezionista di porcellane cinesi del cosiddetto ‘Periodo di Transizione’ (1620-1683 circa).
Riguardo alle lacche, i manufatti che con certezza si possono datare al periodo del regno dell’imperatore Shunzhi sono davvero pochi. Per questo la grande scatola proposta dalla San Giorgio ha una certa importanza documentaria, oltre ad avere indubbio suo fascino estetico. Tuttavia, è bene ricordare che l’iscrizione che vi compare non può essere considerata di pertinenza imperiale. Essa sembra piuttosto un’indicazione apposta per ricordare l’anno della sua realizzazione, non certo la sua appartenenza alle collezioni del sovrano e dei suoi collaboratori.
Oltre alle sue notevoli dimensioni (diam. cm. 49), questa scatola si fa subito notare per la ricchezza cromatica con cui è stata eseguita la decorazione superficiale, con draghi (long) tra le nuvole. Sul nero di fondo si dispongono infatti stesure gialle, rosse, blu, celeste, verde scuro e bianche, a formare una esuberante miscela di colori che per certi versi ricorda l’analoga vivace cromia delle porcellane contemporanee, in particolare quelle della famiglia ‘cinque colori’ (wucai), e anche quella dei coevi manufatti in metallo
decorato a smalti con la tecnica del cloisonné. I colori che arricchiscono questa scatola (miscela di vernici di lacca colorata legati con olio) sono stati applicati a pennello, in combinazione con l’uso di un bulino per le diffuse incisioni lineari che tratteggiano e dettagliano i motivi dell’ornato; la lacca nera di fondo, invece, copre una sottile preparazione in argilla. Si tratta dunque di una tecnica evidentemente meno raffinata e complessa rispetto a quella dell’intaglio a rilievo. Tuttavia, rispetto a quest’ultima, la tecnica delle lacca dipinta ha sicuramente una maggiore antichità, usata ad esempio con risultati sorprendenti già in epoca Han.
Proprio nel XVII secolo, al tempo in cui la scatola ora in questione fu realizzata, la tecnica della lacca dipinta riscosse un rinnovato interesse. Non solo essa fu rivalutata per le sue intrinseche caratteristiche, ma anche perché costituiva un valido e, soprattutto, a buon mercato surrogato delle lacche ornate con la combinazione delle tecniche qiangjin e tianqi, sperimentate entrambe fin dalla dinastia Yuan e molto in voga nell’ultimo secolo della dinastia Ming. La tecnica qiangjin prevede l’incisione di linee nella lacca, quindi riempite certosinamente di foglia d’oro (durante il regno di Wanli, 1572-1620, all’oro si sotituiva spesso l’argento, con effetto simile a quello che caratterizza le incisioni sulla scatola ora in discussione). La tecnica tianqi consiste invece nello asportare sezioni della lacca di base per poi riempirle con lacche colorate miste a leganti di vario genere. Il risultato è quindi molto simile a quello dei cloisonné, con i cloisons incorniciati a oro e riempiti di lacche policrome. Questo sistema di decorazione, come si può immaginare, era molto costoso. Ne era molto appassionato l’imperatore Jiajing, per cui alcune delle più belle lacche di questo tipo recano proprio il marchio di quel sovrano. Nella lingua giapponese il termine tecnico zonsei identifica sia i manufatti in lacca con tianqi e qiangjin, sia quelli in lacca dipinta.
Il prezzo di partenza con cui la San Giorgio offre questa interessantissima scatola è per me congruo alla sua importanza: Euro 3000-4000.
L’ultimo oggetto in lacca di cui in questa occasione riferirò è l’eccezionale tavolino al lotto n. 324 (cm. 21 x 82 x 49). Ha piano rettangolare, bande laterali arrotondate e intagliate a sgusci, piedi ricurvi tanto da contenere una sfera laccata di rosso. L’intera superficie è ricoperta di lacca nera, sulla quale si inseriscono numerosissime e minute scaglie di madreperla a formare un ornato con figure, scorci di paesaggio e tappeti geometrici e vegetali.
Manufatti in legno laccato con intarsi di madreperla a formare un decoro furono realizzati già durante le dinastie Tang e Song, tra cui si ricordano quelli conservati nello Shōsō-in del tempio Tōdaiji in Giappone, colà conservati dalla metà dell’VIII secolo. Nel corso della dinastia Yuan la tecnica dell’intarsio delle schegge iridescenti sul corpo rivestito di lacca raggiunse un nuovo grado di perfezionamento. Ne ha lasciato memoria ancora Cao Zhao nel suo Geguyaolun del 1388, nel quale si ricorda che questo tipo di manufatto era allora già molto apprezzato, nonostante i prezzi elevati con cui era smerciato. Wang Zuo, curatore della versione del 1462 dello stesso Geguyaolun, specificava inoltre che il luogo di produzione di questi oggetti era l’area di Jian nella provincia dello Jiangxi. In questo stesso distretto evidentemente operavano nel XIV secolo Yan Mao e Zhang Zheng, due artigiani specializzati nell’intarsio a madreperla delle lacche molto noti al tempo, a nessuno dei quali però a tuttora si può attribuire alcuna opera. La presenza di una firma non è una rarità su questa tipologia di manufatti laccati mentre, al contrario, non esiste alcun oggetto di questo tipo che rechi la marca di regno di un sovrano della dinastia Ming. Questi dati, insieme, hanno fatto ipotizzare che queste lacche decorate con madreperla non fossero destinate alla corte imperiale e che, al contrario, esse fossero predilette da acquirenti privati certo molto benestanti, come i mercanti. Così come private, quindi non soggette al controllo dei funzionari imperiali, dovevano essere le botteghe in cui venivano realizzate.
L’assenza di marche di regno, insieme ad una inadeguata documentazione storica, sono elementi che, ancor di più rispetto alle stesse lacche rosse intagliate, hanno fatto si che chi si sia occupato di questo tipo di oggetto d’arte basasse il proprio giudizio quasi esclusivamente sull’analisi stilistica. Fatte queste premesse, la mia opinione riguardo al tavolino offerto dalla San Giorgio è che esso debba essere datato al XV-XVI secolo, nella fase mediana della dinastia Ming. Osservando quei pezzi che la critica oggi attribuisce con una certa sicurezza alla dinastia Yuan, conservati ad esempio nel Museo di Arte estremo-orientale di Colonia, nel tempio Daitokuji di Kyoto, nel Museo Nazionale di Tokyo, nel Museo Idemitsu di Tokyo, etc., ho notato alcune caratteristiche che non compaiono in questo tavolino. Gli esemplari più antichi, ovvero Yuan, hanno quasi sempre una ridondanza di decoro, soprattutto fitomorfo, che senz’altro è testimonianza di un’influenza del gusto islamico. Come si sa, la dinastia Yuan è quella dei conquistatori mongoli, i quali ebbero la capacità di riunire sotto il proprio dominio l’intera Asia. Le vie carovaniere che da Damasco raggiungevano Pechino divennero sicure, così che le merci si spostavano in grandi quantità, e insieme a loro anche le idee e gli stili dell’arte. Gli artigiani cinesi si aprirono dunque a nuove suggestioni, riproposte con costanza nei loro manufatti, anche nelle lacche intarsiate di madreperla. Nel nostro tavolino non vedo alcuno spunto stilistico che si possa riferire al gusto islamico. Anzi, mi sembra che sia la scena sul piano, sia quelle inserite nelle riserve sulle bande laterali, sia il tipo di ornato geometrico e vegetale, abbiano caratteristiche stilistiche tipicamente cinesi. Lo stesso tema riprodotto sul piano del nostro tavolino, con un letterato nella sua casa che attende l’arrivo via acqua di alcuni ospiti, è tra i più tipici della pittura della prima fase della dinastia Ming, sfruttato in moltissime occasioni dagli artisti-letterati delle scuole Zhe e Wu, ad esempio. E anche il modo in cui questa scena è costruita, con le barche che attraversano i due punti di approdo, i fiori di loto sparsi sullo specchio d’acqua, gli alberi di pino e di salice, tutto rimanda al gusto cinese della dinastia Ming. Inoltre, anche l’inserimento dei girali fitomorfi all’interno delle riserve polilobate si trova nelle lacche intarsiate a madreperla a partire dal XV secolo, mentre i manufatti più antichi mostrano tali volute vegetali solitamente libere, non costrette all’interno di cartigli. Infine, l’uso di dotare il perimetro di tali riserve cartigli di un doppio filare di inserti di madreperla paralleli si ritrova esclusivamente in pezzi più tardi, mai in quelli di epoca Yuan.
Questa la mia sintetica (?!) opinione su questo pregiato tavolino, e i motivi per una sua datazione al XV-XVI secolo. La sua stima di partenza è 15000-17000 Euro, che non giudico. Per quanto mi riguarda, esso li vale anche solo per gli innumerevoli spunti di approfondimento che mi ha offerto.
In conclusione, vorrei ritornare per poche righe alle riflessioni che facevo all’inizio. Non riesco a spiegare quale metodo abbia io usato per formulare queste ipotesi, e neanche riesco ad affermare se io abbia indagato questi manufatti in lacca con l’occhio dell’esperto, dell’intenditore o del conoscitore. Di certo, come uno scholar-scolaretto ho dato libero spazio alla mia curiosità e alla voglia di capirne di più. Se fosse stata estate, e non un finale freddo e ventoso di inverno come quello che ci attanaglia ora, avrei indossato senz’altro i pantaloni corti per sentirmi ancor più scolaro.
Sei sempre attentissimo nelle tue riflessioni: neppure io so con certezza a quale categoria dovresti appartenere e esattamente quale grembiule hai messo per le ipotesi che ci hai offerto, di certo però emerge tutto il sano entusiasmo che deve caratterizzare il tuo “profilo”…
Inutile dire che, mea culpa, la mia comprensione di certi temi è sicuramente inferiore rispetto a quella di chi ama e studia da sempre certe cose, ma diciamo che è sempre un piacere leggerti.
PS: Il riferimento a Sgarbi, ahimè tocca proprio tutti noi… 🙁
cara Nadia, ti confesso che più di tutto, scrivendo su questo sito, mi piacerebbe coinvolgere proprio persone non ‘addette ai lavori’, ma semplicemente amanti dell’arte e curiose nei confronti della cultura estremo-orientale. Per questo, ti ringrazio, poiché anche se solo tu hai trovato interesse in questo argomento e nei miei testi, vuol dire che ho raggiunto lo scopo.