Il Buddhismo è arrivato in Giappone nel 552 d.C.. Fu in quell’anno che il sovrano del regno coreano di Paecke inviò nel vicino arcipelago alcune icone e scritture sacre. Nel volgere di pochi decenni – grazie all’appoggio di alcune potenti famiglie nobili vicine alla corte imperiale – il Buddhismo divenne religione di stato, permeando da allora la storia della civiltà nipponica.
La dottrina buddhista giunse quindi in Giappone all’incirca un millennio dopo le vicende di Sakyamuni, il principe Gautama da cui tutto ebbe inizio. Dal nord dell’India, gli insegnamenti dell’Illuminato si diffusero praticamente ovunque in Asia, e così l’iconografia che riguarda il vasto pantheon buddhista. Le prime immagini antropomorfe del Buddha furono elaborate tra il Gandhara e Mathura nel I secolo d.C., dopo che per secoli lo si era rappresentato attraverso simboli, come la Ruota. In Cina, dove la dottrina era arrivata nel II secolo d.C., sculture e dipinti raffiguranti il Buddha furono realizzati a partire dal III-IV secolo; in Corea all’incirca nello stesso periodo; in Giappone, l’ultimo avamposto della dottrina per questioni di cronologia e geografia, la più antica immagine del Buddha documentata è la celebre Triade di Shaka in bronzo dorato nel tempio Hōryūji, non lontano da Nara, opera dello scultore Tori Busshi del 623.
La trasmissione dei dati salienti dell’iconografia del Buddha, e della sua numerosa accolita di dei e santi, avvenne quindi lungo un percorso che dall’India settentrionale arriva a nord in Tibet e Mongolia, a est in Cina, Corea e Giappone, a sud in Thailandia e Indonesia. Si è trattato di un processo lento e complesso, nel corso del quale le diverse culture hanno prima assimilato i caratteri della fonte originaria per poi gradualmente elaborare uno stile proprio, individuale e inconfondibile. Per capirci, in estrema sintesi e senza entrare nel dettaglio, la scultura indiana è servita come modello per quella cinese, che a sua volta ha ispirato quella coreana, ed è quest’ultima che poi conobbero in Giappone. Passaggi multipli che da un lato riflettono la straordinaria forza aggregante del Buddhismo, dall’altro confermano che la storia delle arti è la storia di un dialogo tra culture e popoli anche molto lontani nel tempo e nello spazio.
L’arte buddhista è l’arte dell’Asia centrale ed orientale.
L’iconografia del Buddha si è evoluta senza soluzione di continuità per molti secoli, fino ad assumere connotazioni regionali molto caratterizzanti. Nonostante certe similitudini che riguardano le fisionomie e gli attributi, ogni paese ‘buddhizzato’ ha sviluppato una propria e personale visione stilistica dell’immagine sacra, così che è possibile (almeno in teoria), ad uno sguardo attento (e allenato), scoprire il luogo di realizzazione di sculture e dipinti di ambito religioso.
Conoscendo gli elementi base dello stile delle maggiori scuole artistiche dedite in Asia alla produzione di icone buddhiste, si può tentare altresì di identificare la fonte d’ispirazione. Ciò è molto utile soprattutto per quelle immagini che possiamo considerare ‘di transizione’, nelle quali cioè sia ben riconoscibile il modello di riferimento al quale l’artista si è rifatto. Sono questi oggetti che spiegano come l’arte si sia evoluta, mostrando contemporaneamente elementi provenienti da più antiche tradizioni ‘straniere’ e inedite soluzioni autoctone, preludio alle successive, e più evidenti, trasformazioni.
Questa riflessione sulla trasmissione dello stile nella storia dell’arte buddhista ha un esempio notevole in una piccola scultura offerta da Christie’s il prossimo 14 settembre a New York. Si tratta del lotto 803 del catalogo intitolato Treasures of the Noble Path: Early Buddhist Art from Japanese Collections, che raccoglie quaranta pregevolissimi oggetti provenienti – come specificato nel titolo – esclusivamente da collezioni giapponesi. Un gruppo di piccoli capolavori in bronzo e pietra che abbracciano un arco temporale di circa un millennio, dal IV al XIV secolo, giunti non casualmente nell’arcipelago estremo-orientale soprattutto dalla Cina, forse anche in epoche molto antiche, che non solo sono testimonianza degli atavici rapporti tra Giappone e continente ma che contribuiscono anche a chiarire quali fossero i modelli iconografici e stilistici per gli artisti giapponesi dediti alla realizzazione di icone.
Sculture a volte così minute che era possibile trasportarle in una tasca, da usare poi al momento della comunione religiosa. La trasmissione dei dati culturali e artistici è avvenuta anche in questo modo, attraverso passaggi di mano in mano, dalla borsetta legata alla sella del cavallo al piccolo altare, dalla preghiera durante il viaggio alla bottega dell’artista. Il manufatto si è mosso insieme alle persone e alle idee, ha veicolato il messaggio e ha ispirato nuove concezioni, inedite rielaborazioni, per poi diventare oggetto di un collezionismo colto e prezioso.
Alta solamente 9 cm e stimata 30.000-40.000 $, la sculturina in bronzo dorato appartiene ad un esiguo gruppo di manufatti analoghi concepiti per il culto privato, realizzati in Cina durante il periodo dei Sedici Regni (304-439), cosiddetto per l’estrema frammentazione politica del territorio in seguito alla caduta della dinastia degli Han orientali (25-220). Un’epoca che si situa agli albori della diffusione in Cina del Buddhismo, e quindi con notevoli punti di contatto con l’India, ben constatabili nell’analisi stilistica di questo prezioso manufatto. Lo schema compositivo, con il Buddha seduto su un plinto rettangolare ai due lati del quale si accucciano frontalmente due leoni, la posa rilassata e armonica della figura, il trattamento del panneggio, con le volute che cadono ordinatamente a onda dalle spalle alle gambe incrociate, sono elementi che rimandano con evidenza all’arte dell’India settentrionale del I-III secolo. La pienezza del volto e l’assenza di dettagli nell’acconciatura sono invece caratteri più tipici della più antica statuaria buddhista cinese.
Nei decenni successivi, prima della riunificazione ad opera dei Sui (581-618), l’iconografia del Buddha in Cina incorse in una rapida trasformazione che avrebbe avuto come conseguenza una netta sinizzazione dei caratteri stilistici. I Buddha del V-VI secolo realizzati durante la dinastia barbarica dei Wei Settentrionali (386-534), sono figure slanciate, dai corpi esili e dai volti estremamente allungati, quasi metafisici; nel drappeggio si è quasi del tutto persa l’adesione al naturalismo e si impone invece una marcata stilizzazione, nella quale prevale una pura frontalità.
La scultura al lotto 821, benché realizzata nel 589, come indicato da un’iscrizione incisa nel metallo, ovvero all’inizio della dinastia Sui, ancora esprime un’estetica Wei. Alta cm. 25,4 e stimata l’importante cifra di 80.000-120.000 $, la composizione si costituisce della figura stante di un bodhisattva sistemata su un alto basamento a quattro gambe; alle spalle della divinità si staglia un nimbo a mandorla ornato di leggere volute a incisione.
Stessa stima anche per la raffinata scultura in bronzo dorato raffigurante il Buddha al lotto 835 (h. cm. 17,8). Essa è raro ed importante esemplare di arte coreana dell’VIII secolo, nell’ambito dunque del periodo Silla (668-935). Pur mostrando caratteri stilistici che rimandano alle evoluzioni della statuaria cinese di epoca Tang (618-907), con l’arrotondamento dei corpi e un certo ritorno al panneggio più morbido di vesti che non aderiscono alle membra bensì ne nascondono i dettagli anatomici, questo capolavoro dell’arte buddhista mostra peculiarità dei modi della scultura sacra coreana, ad esempio nella sproporzione dimensionale tra corpo e testa e tra spalle e resto del corpo. Tipicamente coreano è anche l’uso di lasciare sul retro delle sculture un foro per permettere l’inserimento di brevi testi sacri e miniature di sculture, così come coreano è il basamento ottagonale.