La zona a nord-ovest del subcontinente indiano – corrispondente ad un’area attualmente suddivisa tra Pakistan e Afghanistan, compresa tra la valle dello Swat, le sponde del fiume Indo e i territori fino a Kabul – ha ospitato nell’antichità una delle culture più affascinanti nell’intera storia dell’umanità.
Come spesso è accaduto, anche questa fioritura è stata il risultato di una miscela di stimoli provenienti da luoghi anche molto lontani. Queste terre furono infatti il punto di arrivo della migrazione di diverse popolazioni che, tra il VI secolo a.C. e il VII secolo d.C., si contesero il dominio politico e i proventi dei commerci di questo snodo cruciale lungo il percorso che congiunge l’Asia orientale con il Mediterraneo, la mitica Via della Seta. Merci provenienti da tutto il mondo allora conosciuto transitavano per queste regioni, prendendo di volta in volta la rotta verso la Cina oppure verso Roma, rendendo molto ricco chi vi era coinvolto e portando grande benessere all’intero territorio.
La regione era nota nel passato col nome di Gandhara. Essa costituì l’estrema propaggine orientale dell’impero persiano degli Achemenidi, che vi deportavano i soldati greci presi come prigionieri di guerra. Qui nel 326 a.C. giunse Alessandro il Grande, il quale affidò il compito di governare ad alcuni generali membri della spedizione che così fondarono gli estremi avamposti della grecità in Asia. Tollerate dai sovrani della dinastia indiana dei Maurya (322-187 a.C.), queste comunità indo-greche dovettero nei secoli successivi fronteggiare le continue incursioni dal nord dei Parti e degli Sciti, e da oriente degli Yuezhi. I Kushana, uno dei clan Yuezhi, avrebbero dominato questi territori tra il I e il III secolo d.C., finché non dovettero cedere alle aggressioni dei Persiani e degli Unni. Seguì un periodo di forte instabilità che infine, con l’arrivo dell’Islam, avrebbe portato all’estinzione della cultura Gandhara.
Queste tormentate vicende storiche non hanno ostacolato lo sviluppo artistico, che è stato anzi straordinario per molti versi. L’arte del Gandhara riflette in maniera molto evidente la convergenza di stimoli anche molto diversi, confluiti in prevalenza nella realizzazione di opere di ambito buddhista. La dottrina fondata dal principe Gautama Siddharta nel VI-V secolo a.C. ha avuto il merito non trascurabile di unire le eterogenee popolazioni del Gandhara, per lo meno a partire dalla metà del III secolo a.C. allorché l’imperatore Asoka dei Maurya non la promosse ufficialmente come religione di stato attraverso la promulgazione di una serie di editti.
L’arte del Gandhara è – insieme a quella di Mathura – la più antica testimonianza esistente della diffusione dell’iconografia buddhista. I suoi esordi si situano intorno al I secolo d.C., nel periodo in cui la corrente Mahayana – rivolta alle grandi masse di fedeli e non, come la corrente Hinayana, solo ad un ristretto numero di adepti – assunse sempre maggiore importanza nel contesto della propagazione del Buddhismo. Fu allora che si avvertì impellente la necessità di dare un volto al Buddha, fino a quel momento chiamato in causa attraverso i simboli tradizionali che lo identificano, come l’albero, la ruota, il trono vuoto, etc.
Diversamente dalle immagini del Buddha realizzate a Mathura, nelle quali predomina una certa ‘indianità’ (sebbene non manchino echi di diverse influenze), le sculture del Gandhara presentano con ogni evidenza riflessi della statuaria ellenistica, e anche della sua evoluzione di epoca romana. Il trattamento del modellato dei corpi e del panneggio delle vesti rivela chiaramente l’intervento di artisti che ben conoscevano i modi dell’arte greca, ed è molto probabile che essi stessi appartenessero a quella nutrita comunità greca che, come detto più sopra, si era nel I secolo d.C. perfettamente integrata in quella zona. I volti delle divinità, in particolare dei bodhisattva, ovvero quegli esseri che pur avendo raggiunto l’Illuminazione come il Buddha scelgono – al contrario di quest’ultimo – di mantenere un legame con la mondanità, rimandano a caratteri fisiognomici non certo indiani: il taglio degli occhi, la grandezza del naso, la capigliatura riccioluta e i folti mustacchi, sono elementi che identificano tipi umani se non greci perlomeno persiani.
La statuaria buddhista del Gandhara non è arte fine a se stessa. Essa è, come del resto gran parte dell’arte religiosa indiana, al servizio dell’architettura. Fregi e icone costituivano infatti in origine la decorazione di templi e stupa, ovvero quei monumenti eretti per custodire le reliquie. Più che stimolare il senso estetico, queste immagini avevano il compito di trasmettere al fedele i principi della dottrina. Nei rilievi si susseguono gli episodi della vita del Buddha, dal momento in cui il principe Siddharta decise di abbandonare la propria ricca casa e fino al raggiungimento dell’Illuminazione. Le scene si sviluppano con un marcato senso narrativo, accompagnando il fedele nella deambulazione intorno allo stupa. Le figure, solitamente di maggiori dimensioni il Buddha e più piccole le altre a sottolineare la santità del primo, sono colte in atteggiamenti vivaci, non di rado alle prese con attività quotidiane. Nelle composizioni compaiono anche elementi architettonici, manufatti e animali: non si tratta di immagini astratte ma scorci di realtà che aiutano a comprendere una cultura sofisticata ancora da conoscere nel dettaglio.
Singole figure di Buddha e bodhisattva – di dimensioni a volte ragguardevoli – furono scolpite in un momento successivo rispetto ai fregi, ancora per decorare i templi. Il materiale prediletto rimase lo scisto grigio, ma gradualmente a questo si associarono anche la terracotta e lo stucco. Più malleabile rispetto alla pietra, quest’ultimo aveva anche il vantaggio di essere più economico e di ridurre i tempi di lavorazione delle icone. Dal III-IV secolo il numero dei templi crebbe esponenzialmente grazie alle sovvenzioni dei nobili benestanti: l’uso dello stucco facilitò non poco il processo di realizzazione degli edifici sacri.
L’arte del Gandhara fu scoperta nella seconda metà dell’Ottocento, e già allora suscitò grande interesse negli studiosi occidentali che vi colsero soprattutto l’aspetto classico, e l’influenza che questo avrebbe avuto sull’evoluzione dell’arte indiana. Nei decenni successivi, numerosi furono gli scavi archeologici condotti in queste zone, tra cui quelli italiani promossi da Giuseppe Tucci e avviati dal 1956. Una parte dei preziosi materiali ritrovati in quelle spedizioni è arrivata in Italia, e costituisce il nucleo iniziale del Museo Nazionale di Arte Orientale “Giuseppe Tucci” di Roma.
Tuttavia, nonostante molto si sia fatto per meglio comprendere questa straordinaria cultura, molto ancora si potrebbe ma non è operazione semplice considerando la difficile situazione politica e umanitaria che da troppo tempo sconvolge questi luoghi, il favoloso Gandhara.