Nel dicembre del 2018 chi scrive ha organizzato per Bertolami un’asta dedicata esclusivamente ai netsuke, quelle deliziose micro-sculture giapponesi che tanto entusiasmano i collezionisti di tutto il mondo.
Nelle settimane precedenti, com’è usuale, la casa d’aste ha promosso la vendita attraverso vari canali tra cui, naturalmente, i social.
A quanto ne sappia, non c’è mai stata per Bertolami tanta partecipazione da parte del pubblico virtuale, con un vero e proprio profluvio di commenti ai post in cui si mostravano immagini di netsuke.
Ora, come è noto, una parte consistente di questi straordinari gingilli è realizzata in avorio di elefante.
Proprio a questa caratteristica era legata la stragrande maggioranza dei commenti ricevuti dai post di Bertolami relativi a quell’asta. E vi assicuro che non si trattava soltanto di ‘mi piace’ o ‘non mi piace’, bensì anche di insulti di ogni genere, qualche volta degenerati in vere e proprie minacce.

Netsuke in avorio con tigre. Kyoto, seconda metà del XVIII secolo. Collezione Vito Taverna, venduto a 3.500 €.

Un’orda di animalisti di varia estrazione si scatenò senza remore a difesa del pachiderma e contro la casa d’aste che si era permessa di promuovere la vendita di quelle ‘cosine’, come se avesse essa stessa commissionato un eccidio di elefanti a solo scopo di lucro.
Ricordo che la lettura di quei commenti dapprima mi stupì, poi mi rattristò e infine mi scatenò grasse risate.
Si, risate, perché quella strenua battaglia combattuta dagli ‘amici degli elefanti’, mi sembrava paradossale se non ridicola, considerando che tutti, dico tutti, i netsuke proposti per quell’asta avevano almeno cento anni di età, e qualcuno oltre duecento.
Si trattava dunque di lotta per la salvaguardia degli elefanti, o di una zuffa alla memoria del pachiderma più grande del pianeta?
Questo mi chiesi, e continuo a chiedermi tuttora.

PRECISAZIONE MOLTO IMPORTANTE!
Io amo gli animali.
Nella mia casa vive un cane, ne ho avuti altri in passato e da bambino trascorrevo interi pomeriggi a sfogliare e a leggere i volumi dell’enciclopedia sugli animali che mio padre comprava a fascicoli.
Non sono vegetariano, ma poco ci manca.
Mi indigno quando vedo o vengo a sapere di maltrattamenti sugli animali. Sono fermamente convinto che l’uccisione ancora oggi, nel 2020, di elefanti e rinoceronti allo scopo di accaparrarsi zanne e corni, sia aberrante, e che gli esecutori materiali, i trafficanti e gli acquirenti finali debbano essere punti con condanne dure, durissime, esemplari.
FINE DELLA PRECISAZIONE

E’ proprio necessario però imbestialirsi per opere d’arte (perché di questo si tratta) realizzate moltissimi decenni orsono? Mettere alla gogna non solo chi le tratta da intermediario, ma anche chi le possiede e chi le compra?
Credo in tutta sincerità che no, non sia necessario e nemmeno giusto.
Anche perché, il commercio dell’avorio è regolato da leggi ben precise, che sono diventate più dure e circostanziate nel corso degli ultimi anni.

Saggio seduto in avorio. Cina, dinastia MIng, XVII secolo. Venduto a 106.000 €.

In molti Paesi non è sufficiente neanche il possesso del famigerato CITES, il documento che attesta la registrazione da parte delle autorità internazionali preposte ‘ab antiquo’ dell’oggetto e anche della zanna non lavorata, e in questi territori l’ingresso di materiale eburneo è esplicitamente proibito, in ogni sua forma.
Anche la legge italiana per la tutela delle specie animali a rischio di estinzione è molto severa, e chi non ne rispetta le regole va incontro a procedimenti penali, non amministrativi.
Tuttavia, il commercio di oggetti in avorio antichi è ancora lecito, a patto che il manufatto sia corredato da un certificato sottoscritto da un professionista che si occupa di queste procedure, ovvero la ricerca sui materiali e l’attestazione della loro antichità.
Un oggetto in avorio che abbia questo ‘patentino’ può essere venduto liberamente all’interno della comunità europea, questo dice la legge.
Almeno per ora. La sensazione diffusa è infatti quella che si arriverà prima di quanto si creda a vietare del tutto il commercio di avorio, anche se antico.
Vedremo.
Bisogna però che io sia sincero.
L’avorio è un materiale di straordinaria bellezza. Quando un oggetto in avorio è stato lavorato a dovere, la sensazione che si avverte tenendolo tra le mani è meravigliosa, una vera e propria esperienza tattile. Nell’oggetto antico le protuberanze angolose forse presenti in origine appaiono smussate, arrotondate, e una certa morbidezza sembra rivestire le superfici che assumono una consistenza calda, levigata.
L’avorio assorbe la moltitudine dei tocchi delle mani e la decennale esposizione alla luce in un modo tutto suo. Nell’aspetto visivo, la tonalità di bianco in origine piuttosto fredda si trasforma nel tempo in un giallo di intensità pacata, elegantissimo nella sua moderazione. Le venature alternano toni più chiari, che ricordano il grano maturo, a variazioni più scure, vicine in certi casi al marrone-rossastro.
Quando si scorge al di sotto della patina la griglia concentrica che è segno specifico dell’avorio di elefante, si può avere un sussulto, per quelle geometrie minute che vanno a costituire forme arcaiche, primordiali, il segno della calcificazione che si fa emblema della vita eterna.

Portapennelli in avorio. Cina, dinastia Qing, XVIII secolo. Venduto a 98.000 €.

Non stupisca quindi che in passato, e ancora oggi, molti amanti dell’arte abbiano iniziato e portato avanti un collezionismo di oggetti in avorio.
Rimanendo nell’ambito dell’Asia più lontana, oltre ai già citati netsuke, l’avorio è stato utilizzato per la realizzazione di innumerevoli tipologie di oggetti d’arte, e fin da tempi molto antichi.
Non è questa la sede più opportuna per ricostruire la storia dell’arte dell’intaglio eburneo in Cina, e si può solo ricordare che i più antichi ritrovamenti risalgono addirittura alla dinastia Shang, ovvero a oltre tremila anni orsono.
Da allora, l’avorio ha continuato ad essere utilizzato per la creazione di opere di vario genere. Un impulso importante si ebbe durante la seconda parte della dinastia Ming, allorché gli artisti e gli artigiani cinesi entrarono in contatto con gli europei che in quell’ambito avevano già una lunga e affermata tradizione.
Gli avori cinesi prodotti tra il XVI e il XVII secolo, in particolare le sculture, si distinguono dunque per una lavorazione che ha sicuramente beneficiato dell’introiezione di tecniche straniere, costituendo nei secoli a venire un modello imprescindibile per generazioni di intagliatori.
Le leggi sempre più restrittive sul commercio dell’avorio hanno indotto molte case d’aste nel panorama internazionale a ridurre drasticamente l’offerta di manufatti realizzati in questo materiale nobile. Alcuni siti aggregatori, come LiveAuctioneers, oscurano automaticamente i lotti in avorio. Tuttavia, nonostante la situazione sembri assumere i connotati di un vero e proprio anatema, gli oggetti in avorio che compaiono nelle vendite, accompagnati da tutte le certificazioni richieste, attraggono sempre l’interesse dei compratori. Evidentemente il pregio di questo materiale continua a entusiasmare, in particolare quella schiera di collezionisti che non cercano nell’avorio fantomatiche proprietà medicali, ma che invece ne percepiscono l’intramontabile bellezza e il fascino indiscusso.

Intaglio in avorio. Cina, dinastia Qing, XIX secolo. Venduto a € 500.