Non voglio immaginare che qualcuno decida di visitare una mostra sulle shunga giapponesi pensando di poter così soddisfare certi suoi desideri sessuali. E’ vero, il mondo è vario, e le “immagini della primavera” (questo è il significato letterale di shunga) non lasciano davvero nessuno spazio all’immaginazione. Non si tratta infatti di tenero erotismo ma, semplicemente, di accoppiamenti, tra uomini e donne, e non solo…
Ora in verità, esistono varie sfumature anche nell’ambito delle shunga: alcune immagini non sono così esplicite, ma si tratta di eccezioni, scene di preparazione all’atto, tanto per scaldare l’ambiente. Per questo, non è strano che qualcuno (o forse i più) considerino le shunga nient’altro che pornografia. Ed è anche vero che la pornografia non ha orari: chi ne avesse voglia potrebbe usufruirne di sera tardi, prima o dopo cena, nel pomeriggio e – perchè no – anche di mattina, magari dopo colazione. Solo che, mi chiedo, chi – disponendo degli attuali mezzi per connettersi al mondo della pornografia (internet, DVD, mercificazione dei corpi) – chi, per soddisfare i propri istinti animaleschi (sacrosanti), penserebbe di andare al museo?
Credo, ma non ne sono convinto (non si sa mai), nessuno.
Ho visitato la mostra Shunga sex and pleasure in Japanese art, a cura di Timothy Clark, C. Andrew Gerstle, Aki Ishigami e Akiko yano, che si tiene presso il British Museum di Londra dal 3 ottobre 2013 al 5 gennaio 2014, di mattina presto, all’apertura del museo, e le sale che l’ospitano erano già colme di pubblico. Di molte età, sia uomini sia donne, anche adolescenti, nonostante gli organizzatori bene abbiano fatto a mettere in allerta i genitori sul contenuto a tema sessuale dell’evento. Tutti davvero mi son sembrati interessati a quelle straordinarie espressioni artistiche, specchio di una cultura tanto raffinata quanto umorale qual’è quella dell’antico Giappone. Attraverso un percorso ben congegnato, il cui scopo chiaramente quello di spiegare al grande pubblico il significato di quelle “immagini pericolose” (abuna-e, uno degli altri nomi con cui si definiscono le shunga meno esplicite), a quali scopi servissero, chi le usasse e, anche, quale effetto esse abbiano avuto sulla morale giapponese e occidentale del Novecento.
Tutto chiaro, quindi? Macché. A queste domande si possono controbattere decine di risposte, ipotesi, supposizioni, ma ancora non tutto è stato chiarito. Oppure, a mio avviso, tutte le risposte hanno in effetti una loro validità. Le shunga servivano ai maschi e alle donne soli per eccitarsi e masturbarsi nei momenti di solitudine. E ancora, uomini e donne disinibiti, quando erano insieme, le usavano per aiutarsi a liberare da certe inibizioni. E anche, le giovani spose, prima di unirsi ai mariti, le studiavano per arrivare meglio preparate al fatidico incontro. Molto probabilmente, anche le cortigiane se ne servivano per stuzzicare i clienti più esigenti, sebbene il loro mestiere fosse proprio quello di intrattenere al meglio gli ospiti maschi cosicché – almeno in teoria – avrebbero già dovuto conoscere le tecniche per dare piacere.
Visitando la mostra al British Museum, o leggendo il catalogo, si discute di tutto ciò, con leggerezza, così che il pubblico non avverta disagio, finendo così per arrossire. Com’è giusto che sia, sempre, queste sono soprattutto occasioni per imparare. Ma anche momenti di intensa goduria, estetica s’intende…
Gioia per gli occhi e nutrimento per la mente. E’ inutile che stia qui ad elencare tutti i capolavori ‘da manuale’ presenti in mostra, ben noti a chi abbia una certa confidenza con l’arte giapponese, ed in particolare con le shunga, poiché ci sono tutti! Dai celebri fogli dell’Utamakura di Utamaro, di sofisticata e ineccepibile eleganza, alla piovra succhia-pube di Hokusai, famosa anche per l’impressione che ne ebbe De Goncourt nel tardo Ottocento (l’esemplare in mostra e proprio quello che appartenne al notissimo critico francese), dalle scene della serie con l”uomo-fagiolo’ Mameemon di Suzuki Harunobu, ai capolavori in formato orizzontale di Kiyonaga, solo per citarne alcuni.
Tema a parte, pornografia a parte, critiche a parte, moralismi a parte, si tratta di composizioni di inusitata bellezza, di calligrafica armonia e policromatica gentilezza, grazie alle quali si riesce perfino ad annusare la bellezza senza tempo di un’arte meravigliosa qual’è stata l’Ukiyo-e, la “pittura che fluttua”. Tra le onde soffici di un tessuto in seta, profumato degli aromi di una donna che vuole, a tutti i costi vuole, elargire infiniti e molteplici istanti di puro piacere sensoriale.
P.S.:
La mostra Shunga sex and pleasure in Japanese art è introdotta dalla eccezionale esposizione di uno dei più noti capolavori di pittura giapponese conservati nel British Museum. Si tratta del paravento con le Cortigiane della casa Tamaya, opera non firmata ma attribuita con certezza a Utagawa Toyoharu (1735-1814), famosa per essere uno dei pochi dipinti in questo formato in cui le grandi figure sono aggregate a formare una composizione di grandissimo impatto visivo. È una scena di rara bellezza, ambientata in uno scorcio di interno affollato di cortigiane ed apprendiste abbigliate con sontuosa eleganza. Le pose sinuose delle dame, le ricchissime acconciature, i movimenti controllati e calmi, i volti perfettamente ovali, sono tutti elementi che echeggiano un’atmosfera di calda sensualità. L’esposizione di questo capolavoro, allestita in un ambiente nelle immediate vicinanze dell’ingresso principale del museo, introduce al meglio lo spettatore verso la poco distante mostra temporanea sulle shunga, quale fosse uno spiraglio per sbirciare tra le maglie dei piaceri del sesso e dell’amore in Giappone.
Come si reperisce il catalogo della mostra di Londra?