Dal 23 ottobre è partita a Lugano una serie di iniziative che, fino all’inizio della primavera del 2011, terrà impegnate una serie di istituzioni museali della cittadina svizzera. Intitolata “Nippon. Tra mito e realtà: arte e cultura dal Paese del Sol Levante“, la rassegna si compone di ben quattro mostre che, in contemporanea, consentiranno al pubblico di comprendere alcuni aspetti della variegata cultura nipponica.
Uno degli altri quattro eventi, ubicato nella Villa Ciani e sempre a cura del Museo delle Culture di Lugano con la partecipazione, tra gli altri, di Marco Fagioli, intende approfondire lo sviluppo della fotografia giapponese tra il 1860 e il 1910, ovvero in quegli anni cruciali per la storia dell’arcipelago estremo-orientale nei quali si riavviarono i contatti con il resto del mondo dopo oltre due secoli di quasi totale isolamento. L’argomento di questa mostra ha, negli ultimi anni, attratto l’interesse di alcuni studiosi, italiani per lo più, come il citato Fagioli e Rossella Menegazzo. Il primo ha inserito alcune di queste fotografie d’epoca nel percorso della mostra “Monet. Il tempo delle ninfee“, tenutasi nel Palazzo Reale di Milano nel 2009. La seconda ha invece avuto modo di esprimere le proprie opinioni sul tema in occasione della mostra dedicata a Hiroshige, svoltasi presso il Museo del Corso di Roma nel 2009: oltre ad un saggio nel catalogo, alcune fotografie giapponesi della fine dell’Ottocento occupavano un ambiente della mostra, riuscendo così a spiegare al pubblico quanto sia stato stretto il legame tra la stampa artistica e la fotografia nel Giappone del tardo periodo Edo (1615-1868) e del periodo Meiji (1868-1912). Non deve stupire che proprio gli studiosi italiani abbiano dedicato a questo argomento tempo e impegno. Alcuni dei fotografi attivi in Giappone sullo scorcio del XIX secolo, infatti, erano proprio italiani, trasferitisi in Giappone per intraprendere un’attività artistica in un paese lontanissimo, quasi sconosciuto ma dall’enorme potenziale commerciale. Il più noto di questi fotografi ‘italiani’ attivi in Giappone è senz’altro Felice Beato (1833 circa-1907), che fu in Giappone tra il 1863 e il 1884, dopo un più breve periodo trascorso in Cina dove pure ebbe modo di realizzare numerosi scatti fotografici. In realtà italiano solo per parte di madre poichè il padre era cittadino britannico, Felice Beato ha fermato con le sue immagini un mondo che – travolto dall’inarrestabile cammino del progresso – era sulla strada della scomparsa. Le sue straordinarie fotografie all’albumina, ravvivate artisticamente da una coloritura a mano, hanno quella “Ineffabile perfezione” (così il titolo, suggestivo, della mostra di Lugano) che ancora oggi riesce ad appassionare. Così come quelle altre, numerosissime, esposte nella cittadina svizzera, realizzate da quei fotografi giapponesi che, apprese rapidamente le tecniche dagli occidentali, sperimentarono l’altissimo potenziale della fotografia artistica.
Credo che ancora oggi sia diffuso tra gli occidentali lo stereotipo del turista giapponese sempre in giro con l’immancabile macchina fotografica al collo, pronto per lo scatto-ricordo. Ho sempre pensato che questa combinazione giapponese-fotografia fosse il risultato, non solo di una certa passione di quel popolo per la tecnologia (ambito in cui primeggiavano indiscutibilmente fino a non molti anni fa), ma anche della capacità che la fotografia ha di rimepire alcuni ‘vuoti’ di scambio interpersonale. Mi spiego meglio. Forse molti di voi avranno notato che proprio i giapponesi sono tra i turisti che meno riescono a creare rapporti con la gente del paese in cui si recano. Noi italiani, ad esempio (luogo comune duro a soccombere…), sembra che, proprio al contrario dei giapponesi, abbiamo quella inimitabile capacità di comunicare con tutti nel mondo, nonostante possiamo non conoscere le lingue straniere. Si dice anche che noi, con il nostro linguaggio delle mani, la nostra gestualità a volte esasperata e l’espressione corporea e del viso, riusciamo a farci capire, ovunque. I giapponesi, questa ipotetica dote sembra non l’abbiano, ed in parte ciò è vero, l’ho notato anch’io. A me, ad esempio, è successo davvero rarissimamente che un turista giapponese mi fermasse per strada e chiedesse un’informazione: per questo, credo, i giapponesi organizzano nei minimissimi dettagli le loro trasferte all’estero, scegliendo per lo più di avere un accompagnatore che parli la loro lingua. Anche per questo, ho sempre creduto, i giapponesi, hanno un rapporto prediletto con la fotografia, grazie alla quale, quindi, riescono a supplire quella carenza di comunicazione con gli ‘stranieri’ ospitanti, riempiendo con secchiate di immagini quello spazio di memoria che si legherà all’esperienza del viaggio in Occidente, altrimenti povero di esperienze dirette, da persona a persona.
La quarta mostra che si potrà visitare a Lugano è, infine, dedicata alla pittura Gutai. Così di definisce un gruppo di artisti attivi negli anni Cinquanta del Novecento, la cui opera fu talmente innovativa da attrarre l’attenzione dell’intero mondo artistico e, in particolare, di Michel Tapié, il famoso critico francese (ora che ci penso, fisicamente Tapié mi ricorda in maniera straordinaria il “critico” di “Ratatouille”, il film d’animazione…), che promosse nel mondo l’opera di questi eccentrici artisti giapponesi. Fondato da Jiro Yoshihara, il gruppo Gutai scardinò con l’esuberanza delle proprie performances all’aperto e con la propria pittura ‘astratta’ e ‘informale’, alcuni paradigmi artistici, con la provocazione di happenings nei quali il corpo aveva primaria importanza e con stesure di pigmenti di forte impatto sia visivo sia emotivo. Lo stile e le opere degli artisti Gutai ebbero non poca influenza sulle avanguardie internazionali dell’immediato Secondo Dopoguerra. A Roma, ormai quasi trent’anni fa, fu organizzata una esposizione sul movimento Gutai. Ora è possibile di nuovo ammirare le loro opere nella vicinissima cittadina svizzera.