Dal 1854, la cultura e le arti del Giappone hanno offerto agli occidentali, europei e statunitensi, una miriade di stimoli, della natura più varia.
Alle origini di questo incontro, poi rivelatosi duraturo, nel Vecchio Continente e nel Nuovo Mondo si propagò una vistosa infatuazione solo per alcuni aspetti specifici delle arti nipponiche. I pittori delle avanguardie trovarono, ad esempio, linfa vitale per le loro inedite ricerche quasi esclusivamente nelle ukiyo-e, le “immagini del mondo fluttuante”, ovvero quelle stampe e quei libri illustrati prodotti nel periodo Tokugawa (1615-1868) destinati ad un pubblico sì eterogeneo, ma anche piuttosto popolare. Maestri quali Utamaro, Hokusai e Hiroshige, a quel tempo sottovalutati nel proprio Paese, ispirarono artisti come Manet, Monet e Van Gogh, per dirne solo alcuni, i quali trasposero nella loro pittura, e a modo loro, alcune delle più pregnanti caratteristiche della stampa d’autore giapponese (i colori piatti, la linea calligrafica, la sintesi, etc.).
Insieme alle ukiyo-e, altre forme di arte giapponese, come la ceramica, i vetri, gli oggetti in legno e altro, ispirarono le evoluzioni di un intero stile artistico, quale fu l’Art Nouveau, in tutte le sue declinazioni geografiche, facendo prepotenetemente sentire il proprio influsso anche nel Deco.
Contemporaneamente, istituzioni pubbliche di prestigio e facoltosi collezionisti privati, foraggiati da antiquari e mercanti sempre più preparati e spregiudicati, facevano a gara per acquisire importanti oggetti d’arte giapponese, contribuendo dal vivo alla diffusione in tutto l’Occidente di un gusto per la cultura di quel lontano paese. Grazie a loro, ancora altre tipologie di manufatti nipponici, antichi e contemporanei, vennero improvvisamente alla ribalta, come i netsuke, gli inrō e i fornimenti delle armi, anche questi tenuti allora in considerazione piuttosto scarsa dai giapponesi.
Insomma, nel primo periodo di questo fatidico incontro tra il Paese del Sol Levante, l’Europa e gli Stati Uniti (quello del Giapponismo per intenderci) la cultura materiale, degli oggetti, era quella che maggiormente incuriosiva gli occidentali, tanto che, insieme alle opere di un certo valore artistico, erano molto apprezzate anche quelle che oggi noi sbrigativamente definiremmo “chincaglierie”, “bagatelle”, per il solo motivo che esse provenivano da quel luogo lontano, tanto misterioso quanto affascinante.
In breve, tuttavia, gli occidentali cominciarono ad approfondire anche altri aspetti della cultura nipponica, non solo quelli concreti, tangibili. Grazie all’opera di intellettuali che si trasferirono in Giappone e, al contrario, di studiosi giapponesi che vissero in Europa o negli Stati Uniti, oppure di semplici appassionati che, pur non recandosi all’estero, impegnarono tutte le loro forze per comprendere l’altrui cultura, si svelarono man mano particolari più sofisticati, riguardanti, ad esempio, la lingua, la letteratura, la filosofia, le tradizioni, i costumi e gli usi dei nipponici. Fu così che, gradualmente, molti occidentali cominciarono a prestare la loro attenzione ad ambiti della cultura giapponese che per loro stessa natura richiedono senz’altro un maggiore sforzo da parte dello straniero perchè siano compresi. Credo sia infatti indubitabile che, ad esempio, una stampa policroma di Utamaro raffigurante una meravigliosa cortigiana in abiti succinti si presti ad una interpretazione più immediata rispetto ad un rotolo di calligrafia, in cui criptici segni in nero d’inchiostro (gli ideogrammi) si stagliano su un fondo bianco (la carta neutra); così come sono convinto che una porcellana del periodo Meiji destinata all’esportazione verso l’Occidente – esposta per esempio nel Padiglione giapponese di una delle varie Esposizioni Universali che si succedettero tra Otto e Novecento nel mondo – appaghi naturalmente il gusto dello straniero, il quale tentennerà senz’altro di fronte ad una tipica tazza per la cerimonia del the del periodo Momoyama, ruvida, non rifinita, grezza, asimmetrica, apparentemente riuscita male…
Eppure proprio queste tipologie di oggetti, di più difficile comprensione, avrebbero pian piano e maggiormente incuriosito gli occidentali, soprattutto coloro i quali si impegnarono più a fondo per imparare a gestire altre coordinate della cultura giapponese, attraverso lo studio e la riflessione su quei testi più sofisticati di cui si è detto, che allora cominciavano a circolare.
In questa fase successiva, in sintesi, gli stranieri cominciarono a conoscere l’Anima del Giappone, quegli aspetti non sempre palesi che ne imbevono la sostanza, presenti nei cromosomi di ogni abitante di quel paese, per spiegare i quali non sempre sono sufficenti le parole. Come si può condensare una storia di molti millenni in una frase, in un articolo, in un libro o anche in un’enciclopedia?
Tuttavia, esistono almeno delle coordinate, dei concetti, la sintesi. E’ per questo che possiamo affermare che l’Anima del Giappone è complessa miscela di Shintoismo e Buddhismo, arricchita da dosi calibrate di Taoismo e Confucianesimo. La Natura panteistica, dunque, fulcro della dottrina autoctona giapponese, e la Divinità metafisica, nel sistema della filosofia di origine indiana. Punto di connessione l’Uomo, che in entrambe le filosofie può assurgere al rango più sublime, trascendendo l’effimera esistenza. Questa fusione tra Shintosimo e Buddhismo – sancita ufficialmente in Giappone fin dal IX secolo, epoca in cui Kukai concepì la dottrina dell’Honji Suijaku (letteralmente “archetipo originario e manifestazione temporale”) – ha ispirato lunghissimi periodi della storia dell’arte nipponica, molti tra i suoi più noti protagonisti e gran parte delle loro opere. In particolare, fu nell’ambito del Buddhismo Zen che si ebbero i più notevoli sviluppi, proprio perchè questa setta, è risaputo, poneva un marcato accento sull’autoreferenzialità, sulla disciplina interiore, sulla meditazione e, soprattutto, sul potenziale salvifico dell’atto artistico. Di dichiarata formazione Zen furono molti maestri, ma molti più furono quelli che, pur non essendo monaci o frequentatori di templi, furono da esso ispirati. Ancora, allo Zen si legano principii estetici fondamentali della cultura giapponese, quali wabi e sabi (ormai noti anche ai neofiti), che permeano molte manifestazioni artistiche giapponesi, dalla poesia all’architettura, dal teatro alla ceramica, dalla forgiatura delle lame alla lavorazione del legno.
Una volta assimilati tali concetti, strumenti per la comprensione, anche gli occidentali hanno potuto gioire di quest’arte. Hanno imparato che è per l’esistenza del Vuoto che il Pieno ha una sua ragione d’essere; hanno appreso come gustare la dignità che è nel materiale povero, così come la Natura lo ha offerto; hanno visto la bellezza nella semplicità, l’eleganza nell’armonia, la genialità nell’ovvietà, il sublime nel contrasto di forme elementari; hanno provato rispetto per l’abilità, la dedizione, la passione e il lavoro dell’Uomo, che nel Giappone antico non imponeva la sua presenza alla Natura, cercando invece integrazione, convivenza, equilibrio, perfezione; hanno cercato le tracce del succedersi infinito delle esistenze, trovando una tradizione imperitura, l’Anima stessa di questo popolo.
Tutte queste parole si annullano, non hanno più senso, nella visione di uno dei monumenti più belli e importanti del Giappone: la Villa Imperiale di Katsura, che condensa e sintetizza una buona parte dell’Anima di quel paese. Legno e carta, wabi e sabi, spazio e tempo, Natura e Uomo, silenzio. Il capolavoro di Kobori Enshu (1579-1647) è sublime armonia tra Creato e Creatore; anzi, esso sfida la storia a dichiarare chi tra i due ne sia l’artefice.
Per gli occidentali la Villa di Katsura è stata una rivelazione. Tra i primi e più autorevoli che ne compresero la portata, manco a dirlo, gli architetti, tra gli artisti forse quelli che più degli altri hanno avvertito il bisogno di interloquire con la Divinità, con la quale hanno da sempre condiviso la responsabilità della creazione di un cosmo, micro o macro che sia. Per i maggiori architetti del Novecento, i protagonisti della Nuova Architettura, la Villa di Katsura ha rappresentato un punto di svolta, soprattutto perchè grazie ad essa riuscirono a storicizzare quelle idee nuove che da tempo andavano propugnando.
Già Frank Lloyd Wright (1867-1905), fin da giovane appassionato collezionista di stampe dell’ukiyo-e, trovò in certa architettura tradizionale giapponese fortissime assonanze con le proprie sperimentazioni, facendosene senz’altro influenzare. Il suo primo approccio con Katsura risale al 1893, anno in cui potè ammirare una ricostruzione della Villa realizzata per l’Esposizione Universale di Chicago: si invaghì allora della sua essenzialità e della sua sobrietà, ne apprezzò lo sviluppo orizzontale e la compenetrazione con l’ambiente naturale esterno, temi che diventeranno tipici di tutta la sua opera. Il rapporto con il Giappone diventerà per Wright una costante: dopo averlo visitato una prima volta nel 1905, vi tornerà in più occasioni per realizzare progetti di grande importanza (tra tutti l’Imperial Hotel di Tokyo, 1912-1922), che molta influenza avranno sull’opera delle successive generazioni di architetti giapponesi.
Tuttavia, l’architetto europeo che maggiore attenzione prestò alla Villa di Katsura fu Bruno Taut (1880-1938). All’apice della sua carriera di progettista e teorico, Taut decisè di soggiornare in Giappone per un lungo periodo (1933-1936), dedicandosi con passione e ammirazione allo studio dei principii dell’architettura nipponica, confluiti in una serie di scritti che ebbero non solo il merito di diffondere la conoscenza di quest’argomento in Occidente ma anche, e soprattutto, di chiarire le relazioni tra l’antica architettura orientale e le nuove tendenze dell’architettura mondiale.
La visita della Villa di Katsura è stato il momento culminante anche del viaggio di Carlo Scarpa (1906-1978) in Giappone, avvenuto nel 1969. Nato e formatosi a Venezia, a quell’epoca Carlo Scarpa era già un architetto molto affermato, noto soprattutto per il suo originale contributo nell’allestimento di importantissime mostre d’arte e nella sistemazione di spazi espositivi all’interno di musei. Uomo di grande cultura, Scarpa tuttavia aveva abbondantemente mostrato interesse per il Giappone già prima del 1969.
Nella sua vasta biblioteca non mancavano infatti testi riguardanti l’architettura e le arti dell’Oriente; inoltre, egli era devoto ammiratore proprio di Wright che sappiamo quanto fosse influenzato dal Giappone. La visione dei gioielli architettonici giapponesi non fu, quindi, per Scarpa una vera e propria rivelazione, bensì il momento della conferma di sensazioni che erano maturate fino ad allora solo nella teoria. Egli perciò non raggiunse quel paese come uno sprovveduto. Anzi, per meglio sfruttare quei pochi giorni in cui vi avrebbe soggiornato studiò con attenzione alcuni testi di viaggiatori italiani che già possedeva: Ore giapponesi di Fosco Maraini (1957) e Taccuino giapponese di Mario Gromo (1959). Quest’ultimo, soprattutto, sembra sia in quell’occasione più servito a Scarpa, stando alla diffusa presenza di sottolineature e annotazioni certamente di mano dell’architetto. Almeno così arguisce J.K. Mauro Pierconti che nel 2007 ha pubblicato per i tipi di Electa Carlo Scarpa e il Giappone, volume che ci ha offerto lo spunto per questa riflessione. Lo studioso, laureato in architettura a Venezia sotto la guida di Francesco Del Co, che di Carlo Scarpa è uno dei maggiori esperti, ha indagato il rapporto tra Scarpa e il Giappone, sia nella fase precedente al viaggio del 1969 sia in quella successiva. Ha quindi intuito che l’architetto veneto aveva potuto assimilare alcuni concetti estetici della cultura giapponese fin dagli anni della sua formazione, grazie alla conoscenza dei dipinti di Klimt e Mondrian, delle teorie di Wright e Mies van der Rohe, delle opere orientaliste di Ezra Pound, del Museo di Arte Orientale di Venezia, aperto nel 1929. Ha individuato alcuni spunti di origine orientale – soprattutto nella gestione dello spazio e nella relazione di quest’ultimo con il tempo, nell’alternarsi di luce e ombra, nella sovrapposizione e continuità di toni cromatici – già nel concepimento dell’aerea copertura a forma di foglia della Biglietteria per i Giardini della Biennale di Venezia del 1951-52; nelle scelte per gli allestimenti delle esposizioni delle sculture di Alberto Viani (1952, 1958 e 1966) e delle opere di Canova a Possagno (1955-57); per la realizzazione del negozio Olivetti a Venezia nel 1957-58; nel concepimento del Padiglione del Venezuela, ancora all’interno della Biennale veneziana.
Queste suggestioni di gusto orientale diventano una sorta di citazione nelle opere realizzate dopo il fatidico 1969. Soprattutto la Tomba Brion a San Vito d’Altivole (Treviso) e, in particolare, il “padiglioncino sull’acqua” adiacente. Questo fu concepito da Scarpa subito dopo il suo ritorno dal Giappone, quando nei suoi occhi era ancora vivissimo il ricordo di edifici giapponesi come la Villa di Katsura e il Padiglione d’Oro (Kinkakuji) di Kyoto, per i quali l’acqua è elemento integrante, collegamento imprescindibile tra il lavoro dell’Uomo e i doni della Natura. L’analisi di questo capolavoro testimonia al meglio quanto grande fu l’impressione che Scarpa ricevette dalla visione di questi monumenti nipponici. Soprattutto egli fu sensibilissimo nell’appropriarsi di questi nuovi stimoli estetici, trasferendoli poi in un contesto moderno in modo del tutto originale, all’insegna della ricerca di equilibrio, armonia e bellezza.
Dal 1969 il rapporto tra Scarpa e il Giappone si fece ancora più intenso. La sorte ha poi voluto che l’architetto morisse proprio nel Paese del Sol Levante, a Sendai, in seguito ad una caduta accidentale.