Il Giappone è paese di maschere.

Come in molti altri luoghi del mondo, anche in quell’arcipelago estremo-orientale si è diffuso – da tempi lontanissimi – l’uso di coprire il volto con maschere, soprattutto a scopo rituale. Le forme di teatro tradizionale più antiche, come le Gigaku, le Bugaku, le Kagura e le Sarugaku, performate prevalentemente per invocare l’aiuto e la protezione degli dei indigeni (kami) oppure delle divinità buddhiste, si costituiscono, ancora oggi, di musica e danze eseguite da attori che indossano maschere.

Le maschere di queste forme di teatro tradizionale si distinguono molto spesso per pregio artistico, oltre che per capacità espressive degne del compito al quale sono deputate, ovvero di fungere da tramite tra il mondo dei vivi e l’ambito sovrannaturale. Tuttavia, le maschere giapponesi che più impressionano per la loro bellezza, nell’intaglio e nella resa dei dettagli pittorici e laccati, e per le loro straordinarie qualità nel trasmettere la psicologia dei personaggi che identificano, sono sicuramente quelle utilizzate nel teatro Nō. E’ questa senz’altro la forma più sofisticata di teatro giapponese, messa a punto nel XIV secolo da Kan’ami Kiyotsugu (1333-1384) e da suo figlio Zeami Motokiyo (1363-1443) per conto dello shōgun Ashikaga Yoshimitsu (1358-1408), imbevuta di Buddhismo e di estetica Zen. Le maschere svolgono un ruolo fondamentale nel teatro Nō, catalizzando su se stesse, e quindi rifrangendo verso l’esterno, luci e percezioni, pulsazioni vitali e comunione tra attore, ruolo, spettatore e divinità.

Ma il mondo della maschera giapponese ha numerosissime sfaccettature, almeno tante quante sono i paesi e i villaggi di quel territorio – e sono tantissimi, praticamente tutti – in cui si mettono in scena rappresentazioni religiose e teatrali di tipo tradizionale.

Maschera di demone oni per la danza oni-kenbai

Durante il mio più recente viaggio in Giappone, tra l’ottobre e il novembre del 2011, ho acquistato presso un antiquario di Kyoto una maschera. Non era l’unica maschera in esposizione in quel piccolo negozietto ma, tra tutte, quella che poi avrei comperato mi colpì maggiormente, e fin dal primo istante in cui l’adocchiai. Raffigurava un demone oni, ne ero certo, nonostante sulla testa non comparissero i due corni che sono un elemento sicuro di identificazione di questi personaggi della fantasia popolare giapponese. Mi feci allora catturare dalla sua potenza, con i tratti somatici del volto ben evidenziati: gli zigomi accentuatamente rigonfi, il largo naso con le narici spalancate, gli occhi grandi e strabuzzanti, la massiccia dentatura con quei canini bestiali, la barba riccioluta, le foltissime sopracciglia, che subito mi ricordarono le mie, per le quali qualcuno nel mio passato ha addirittura pensato ad una sfoltatina. A guardarla da vicino subito pensai che la sua struttura di legno di cipresso hinokifosse abbastanza antica, probabilmente del XIX secolo; non il suo rivestimento laccato di rosso scuro, nero e oro: questo mi sembra più recente, applicato al legno in un momento posteriore all’intaglio, forse per sostituirne l’originale troppo consunto; dal tipo di lacca pensai, e mi sembra ancora plausibile, che la vernice attuale sia dell’inizio del Novecento, forse del periodo Showa (1912-1926). Ispezionandola per benino prima dell’acquisto subito mi resi conto dei restauri che comparivano all’interno, ma non me ne curai, anche perché erano stati realizzati con una certa attenzione, non per nasconderli ma perché si integrassero nell’opera come segno di ‘vita vissuta’.

Maschera di demone oni per la danza oni-kenbai, retro

In quel pomeriggio a Kyoto chiesi all’antiquario di che tipo di maschera si trattasse, considerando che essa non appartiene senz’altro al repertorio di maschere tradizionali giapponesi che mi è più familiare. L’uomo bofonchiò qualcosa per farmi capire che non ne sapeva nulla, poi mi propose un prezzo; inutilmente tentai di ottenere uno sconto (la cifra non era proprio bassa…); poi me ne andai. Avevo un’altra settimana a Kyoto ed ero quasi sicuro di poter trovare una maschera ancora più bella! Tuttavia, da quel pomeriggio, pur avendo occasione di vederne numerose altre in vendita, non potei fare a meno di ricordare quella maschera e così, qualche giorno dopo ritornai e l’acquistai, pagando per intero il prezzo richiesto, che l’occhialuto antiquario non cedette di uno yen, ahime…

Trascorsi ormai alcuni mesi da allora, ho avuto il desiderio di capire qualcosa in più riguardo a quell’oggetto che orna ora uno spicchio di parete della mia casa. Rovistando tra i miei libri ho avuto dapprima una piacevole sorpresa. Una maschera del tutto analoga a quella in questione compare in una stampa erotica di Suzuki Harunobu (1725?-1770), uno dei maggiori protagonisti dell’Ukiyo-e, le “immagini del mondo fluttuante”. La indossa infatti il personaggio in piedi sulla destra che, noncurante dei presenti, infilza prepotentemente la bella contadinotta intenta a raccogliere spighe di riso. Osserva la scena non visto il piccolo e leggendario Mameemon, protagonista di questa e delle altre stampe di questa celebre serie di shunga (“pitture della primavera”, così com’erano definite ai tempi le raffigurazioni erotiche e pornografiche), intitolata “Le avventure erotiche di quell’elegantone di Mameemon” (Fūryū enshoku Mameemon) e pubblicata tra il 1768 e il 1770 circa dall’editore Nishimuraya Yohachi con testo di accompagnamento di Komatsuya Hyakki. Non ho mai osato pensare che la maschera ora nel mio salotto possa risalire al Settecento (anche se, chissà…).

Suzuki Harunobu, stampa dalla serie "Fūryū enshoku Mameemon", 1768-1770

Tuttavia è certo che esemplari simili fossero diffusi già a quell’epoca. Ritenevo che questa ‘scoperta’, a dire il vero abbastanza fortuita, potesse di riflesso fornirmi altre informazioni, ma presto constatai che in tutti i libri in mio possesso riguardanti le shunga – nei quali compare quasi sempre un riferimento a quella stampina di Harunobu, o almeno ad un’altra della serie che è davvero importantissima nell’evoluzione stilistica dell’arte grafica erotica giapponese – non è presente alcuna spiegazione specifica su questo tipo di maschera. Gli studiosi, cioè, descrivendo la scena rimangono tutti sul vago quando si tratta di spendere qualche parola sull’uomo mascherato. Non pago, continuai allora a cercare tra i miei libri e così, alla fine, ho risolto parte del ‘mistero’. Queste le notizie che ho recuperato.

Questo genere di maschera viene utilizzata durante la danza denominata oni-kenbai, eseguita ancora oggi in alcuni villaggi nella prefettura di Iwate, nel nord del Giappone. In particolare, lo spettacolo di oni-kenbai più famoso è quello che ha luogo durante la festa estiva dell’Ōbon nella cittadina di Kitakami, oggi nota soprattutto perché ospita un bel museo interamente dedicato ai demoni oni, personaggi fondamentali della cultura nipponica. Lo scopo della danza oni-kenbai è quello di pregare e lodare i Buddha, i quali hanno il potere di tenere lontani i demoni: pur raffigurando la maschera un oni, essa quindi identifica in realtà la stessa divinità benevola che si oppone al male, e ciò spiega l’assenza di corna che, si è scritto sopra, sono elemento caratterizzante e imprescindibile della fisionomia dei diavoletti giapponesi. La danza consiste sostanzialmente di piroette e di semplici passi, scanditi rumorosamente da potenti pestoni a terra, eseguiti al ritmo della musica di tamburi, flauti e campanelli. Questa

La danza oni-kenbai

caratteristica dà anche il nome alla danza: kenbai, infatti, deriva da henbai, che significa letteralmente “calpestare forte sul suolo”, con lo scopo di purificare e liberare un luogo infestato dai demoni. I danzatori – solitamente nel numero di otto, ma questa non è regola fissa – indossano costumi da samurai, hanno spada alla cintola e ventaglio nella mano sinistra. La maschera è ovviamente l’elemento principale del travestimento e del rituale danzato. Pur raffigurando sempre un demone oni, con analoghe caratteristiche fisiognomiche, all’interno dello spettacolo si distinguono maschere di cinque colori: blu, rosso, bianco, nero e giallo. Essi rappresentano i quattro punti cardinali ai quali si aggiunge il giallo che identifica il centro, secondo la suddivisione dello spazio cosmico messa a punto in Cina dal Daoismo; la guida dell’oni-kenbai indossa solitamente la maschera di colore bianco. Le maschere sono considerate anche incarnazione dei Cinque Grandi Myōō (Godai Myōō), i Re della Saggezza senza paura del Buddhismo esoterico. Essi sono Fudō Myōō e le quattro divinità che lo circondano e proteggono.

Nel 1993 la danza oni-kenbai è stata designata dal governo giapponese Importante Bene Culturale Intangibile. Grazie a questo benemerito provvedimento istituzionale questa tradizione potrà sopravvivere al trascorrere del tempo, specchio di una cultura e di pratiche antichissime purtroppo oggi sempre più a rischio di scomparire o essere dimenticate.