Ieri, mercoledì 16 novembre, si è tenuta presso la splendida Tribuna di Galileo nel Museo della Specola a Firenze un incontro riguardante Galileo Chini e l’Oriente. L’occasione è stata la ricorrenza del 60° anniversario della morte del Maestro. Il Museo di Antropologia ha così esposto in quella sala una selezione degli oggetti cinesi e siamesi che Chini donò alla città di Firenze. Hanno partecipato come oratori all’incontro il prof. Guido Chelazzi, presidente del Museo di Storia Naturale, la dott.ssa Monica Zavattaro, curatrice del Museo di Antropologia, la sig.ra Paola Polidori Chini, nipote di Galileo Chini e direttrice dell’Archivio Chini, e io stesso, Francesco Morena. Qui di seguito vi propongo il testo che avevo preparato per il mio intervento.

I DUE ORIENTALISMI DI GALILEO CHINI

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Nato a Firenze nel 1873, Galileo Chini è statosicuramente uno dei protagonisti della stagione del Liberty in Italia. Egli visse e fu attivo infatti in quel periodo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento in cui anche nel Belpaese si imposero prepotentemente le evoluzioni stilistiche dell’Art Nouveau, quel movimento che avrebbe fatto della linea fiorita e degli audaci accostamenti di colore la sua cifra identificativa.
Il Liberty ebbe la sua consacrazione in Italia nel 1902, anno in cui si svolse l’Esposizione Internazionale di Torino. A quell’evento parteciparono non solo i più innovativi artisti italiani, ma anche i protagonisti dell’arte internazionale, in un confronto costruttivo che avrebbe fornito i paradigmi artistici per molti anni a seguire.

Galileo Chini partecipò ovviamente all’Esposizione torinese, presentando alcune ceramiche realizzate nella manifattura che dirigeva, e ottenendo il gran plauso della critica. Soprattutto, le sue opere incontrarono il favore di Vittorio Pica. Fu questi la voce più influente in materia d’arte applicata di quegli anni. Autore di numerose pubblicazioni, si pregiava di aver frequentato a Parigi – allora il maggior centro d’arte del mondo – personaggi del calibro di Edmond de Goncourt e Sigfried Bing. Durante i suoi soggiorni parigini, Pica ebbe modo di seguire in presa diretta le evoluzioni dello stile e del gusto, agli esordi dell’Art Nouveau. Si rese anche conto che in quel frangente storico l’arte giapponese, con le sue variegazioni calligrafiche e le sue modulazioni cromatiche impostate sull’accostamento di colori piatti, costituiva un’imprescindibile fonte di ispirazione per gli artisti moderni europei. Si appassionò dunque di quel paese lontano e ancora misterioso, capace però di produrre un’estetica assolutamente originale, tanto diversa dalla nostra quanto superba nelle sue declinazioni.

Ichiryusai-HIROSHIGE-1797-1858-flora_and_fauna79Ne studiò i caratteri, grazie alla sua amicizia con De Goncourt e Bing che furono – tra l’altro – a quel tempo tra i maggiori conoscitori europei di arte giapponese. Tale fu la sua infatuazione per le arti nipponiche che prese a scrivere nei suoi articoli sull’opportunità irripetibile che anche gli artisti italiani dovevano sfruttare, cimentandosi con la rielaborazione dei canoni stilistici del Paese del Sol Levante per rinnovare un repertorio ormai antiquato.
Va da sé, quindi, che se Galileo Chini entrò nelle grazie di Pica fu perché l’artista fiorentino produceva un’arte nuova, al passo coi tempi della modernità, libera dalle convenzioni, audace nelle invenzioni. Così avvenne l’inizio del Liberty.
D’altronde, Chini si era dimostrato già nella prima fase di quella che sarebbe stata una lunga e proficua carriera un attento osservatore di quello che offriva il panorama contemporaneo delle arti europee, intuendo fin da subito il potenziale di uno stile rotondo, morbido e onirico per cromatismi. Consapevolmente, e con accorta lungimiranza, egli inserì dunque nei suoi disegni per ceramiche spunti che riecheggiano i modi dell’arte giapponese.
20185Si veda, ad esempio, un suo straordinario vaso dipinto a sole gradazioni di blu, e raffigurante alcuni pesci. Gli animali sembrano fluttuare nel bianco del fondo ceramico: i movimenti sono sinuosi, come in una silenziosa danza di linee curve. Tale è l’eleganza dei movimenti che anche l’acqua sembra contenere la sua furia naturale, una moderazione evidentemente suggerita dalle bolle circolari che si limitano verso il basso della composizione.
Ebbene, a nostro parere Galileo Chini deve aver visto un certo tipo di raffigurazione giapponese delle carpe per aver concepito una simile composizione, o almeno una rielaborazione europea di quel tema giapponese.
Dipinti e stampe giapponesi di carpe erano ben noti in Europa a quel tempo.

Un esemplare di questa stampa di Hiroshige, ad esempio, si trova nella collezione di Ukiyo-e (le “immagini del mondo fluttuante”) che fu di Claude Monet il quale, sappiamo, fu così attratto dall’arte giapponese da autodefinirsi una volta quale “fedele emulo di Hokusai”.
Ovviamente, è bene ricordarlo, Galileo Chini fu artista geniale. Non avrebbe perciò potuto limitarsi a riprodurre pedissequamente le forme di un originale giapponese. La sua è una rielaborazione molto personale, profondamente libera, come si conviene a quell’artista che rifletta sulla fonte d’ispirazione, traendone spunto e rielaborandola secondo i propri gusti.
Simili considerazioni possono valere anche per un altro vaso di rilevante eleganza realizzato su disegno di Chini nel 1900, ovvero negli aurorali del Liberty. La sua forma slanciata è già segno drammatico di un’adesione ai modi della modernità. Il disegno si adegua superbamente a questa tensione verso l’alto, con gli steli dei fiori che si innalzano anch’essi caparbiamente, fino a superare quelle nuvole che con tanta abilità grafica l’artista ha disposto in orizzontale appena oltre la fascia mediana del vaso. Nell’insieme l’effetto è di un decorativismo quasi esasperato, una stilizzazione che trascende completamente lo spunto naturale per farsi puro grafismo.
DP141267Anche in questo caso, sarebbe inutile cercare dei riferimenti puntuali nell’arte giapponese. Tuttavia, non ci sembra fuori luogo accostare la composizione di Chini con una stampa di Hokusai della fine degli anni Venti dell’Ottocento, non tanto per le strette analogie formali, quanto invece per una simile insistenza sull’effetto decorativo d’insieme.
Si potrebbe continuare ancora nell’analisi di quanto l’arte giapponese sia presente come spunto nelle ceramiche di Chini, ma penso possa bastare. Egli appartenne dunque a quel folto gruppo di artisti italiani che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento furono Giapponisti.
Ma questa è solo una delle maniere in cui la passione per l’esotico si declinò nell’arte di questo grande artista fiorentino.
พระที่นั่งอนันตสมาคม3-copia-1024x685Per certi versi più importante, soprattutto per l’eco che ebbe nella fase matura della sua carriera, fu senz’altro l’esperienza che egli ebbe in Siam tra la primavera del 1911 e l’autunno del 1913. Si recò in quelle terre lontane su esplicita richiesta di re Rama V, il quale aveva avuto modo di apprezzare l’arte di Chini nel 1907, visitando i padiglioni della Biennale in cui l’artista teneva esposta la sua “Sala del Sogno”. Il sovrano commissionò al fiorentino l’impegnativa decorazione della Sala del Trono del Palazzo Reale di Bangkok, progettato in stile occidentale dagli architetti Annibale Rigotti e Mario Tamagno. Chini fu non solo abilissimo nell’adattare un tema esplicitamente orientale com’è quello del Buddha assiso attorniato da fedeli, che campeggia nella volta della grande cupola, alle forma architettoniche europee, ma ibridò il suo stile con il gusto tradizionale thailandese. Un’operazione che risulta ben evidente in certi altri dettagli della vasta decorazione, nei quali si impone un ornato decorativo che fa da fondo ad alcune figure della tradizione religiosa siamese.
galileo_chini_uL’opera piacque moltissimo a Rama VI, divenuto nel 1910 sovrano al posto del padre, che aveva commissionato l’opera, ed è tuttora uno dei luoghi simbolo della città di Bangkok, in ricordo di un periodo storico di grande importanza per il paese, unico che riuscì a mantenere l’indipendenza nonostante le pressioni colonizzatrici degli stati europei nel sud-est asiatico e a perseguire un profondo processo di modernizzazione.
L’esperienza di Chini in Siam fu eccezionale da molti punti di vista. L’incarico reale gli fruttò un guadagno straordinario per quei tempi, e la sua fama crebbe esponenzialmente al suo ritorno in Italia verso la fine del 1913. Tuttavia, quel viaggio fu importante soprattutto per la formazione del suo bagaglio culturale e per l’evoluzione della sua carriera. Il tema siamese rimase una costante per molti anni a venire. Se già durante il suo soggiorno asiatico aveva avuto modo di raccontare attraverso alcuni quadri i colori e i profumi di quella civiltà, negli anni che seguirono il suo ritorno in Europa si cimentò a più riprese con quel soggetto esotico.
60be28ff42c62d18cbf71a671b4ee682In più occasioni, ad esempio, avrebbe inserito nelle sue nature morte alcuni dei numerosi oggetti estremo-orientali che aveva acquistato in Siam. Evidentemente, quelle maschere, quelle statuette, quei vasi – che ora formano il nucleo della collezione Chini conservata presso il Museo di Antropologia di Firenze, al quale la donò egli stesso – rimasero una costante nella sua vita di uomo e di artista, memoria indelebile di un’esperienza che avrebbe segnato per sempre la sua esistenza.