“… [illustrare] etnograficamente la specie, l’uso, le fabbriche, gli artisti, delle varie ed elette produzioni Orientali, opera indispensabile che potrà illuminare e facilitare gli studiosi delle arti e delle industrie cinesi e giapponesi.”.
Così scriveva Vincenzo Ragusa (1841-1927) in una lettera del 1916 a Pasquale Grippo, allora Ministro della Pubblica Istruzione, per promuovere il suo progetto di pubblicazione di un catalogo delle opere di arte giapponese della sua collezione, nello stesso anno in cui si concludeva finalmente la travagliatissima vicenda della vendita della raccolta al Museo Etnografico Pigorini di Roma.
Travagliatissima si, perchè una parte consistente della raccolta Ragusa era stata acquistata dallo Stato italiano per rimpinguare le raccolte del Pigorini già nel 1888. Da allora, per ben ventotto anni fino al 1916, si svilupperà una trattativa infinita ed estenuante, tra le istituzioni, cronicamente a corto di fondi, e lo scultore siciliano, sempre più oberato di debiti a causa del fallimento del suo ambizioso progetto di creare a Palermo una Scuola di arti industriali che avesse come riferimento le tradizioni artistiche giapponesi.
Una storia per certi versi drammatica, specchio tuttavia della scarsa lungimiranza delle istituzioni culturali italiane di fine Ottocento. Tuttavia, si può però affermare che almeno la vicenda Ragusa abbia avuto con l’acquisto un finale dignitoso, mentre così non si può dire di più recenti storie analoghe, delle quali magari non siamo a conoscenza. O almeno, personalmente non ricordo che lo Stato italiano abbia negli ultimi anni finanziato l’acquisto di un’opera di arte orientale, limitandosì invece a fermare l’esportazione di oggetti d’arte cinese, senza apparenti motivazioni se non per imporre un inutile diritto di prelazione. Mi riferisco, per esempio, alla statua di Guanyin in asta il 19 maggio presso Pandolfini, di cui ho già ampiamente scritto. Per inciso, ho assistito all’asta, e la scultura è stata venduta ad un acquirente italiano per 23000 Euro, meglio così…
Dunque, il Ragusa aveva prefigurato la pubblicazione di un volume nel quale, attraverso la disamina degli oggetti della sua raccolta, si potessero fornire informazioni utili alle future generazioni di studiosi di arte orientale. Quale nobiltà di intenti! Ciò nonostante, ancora nel 2009, a quasi un secolo dalla lettera su citata, di un catalogo della raccolta, pure parziale, neanche l’ombra. Essa giace tuttora nel notevole Museo Pigorini, ma il pubblico aspetta ancora di poterla ammirare in tutto il suo splendore, mentre gli anni trascorrono inesorabili. Per colpa di chi? Di nessuno in particolare, ovviamente. O almeno, sarebbe bello poter additare un colpevole, ma in questo, come in centinaia di altri casi analoghi, ciò non è possibile, semplicemente perchè nessuno ha specifiche responsabilità, considerando che la spiegazione di ciò si trova nella mancanza di denaro pubblico da destinare a scopi culturali, non certo nella deficienza di volontà e di capacità dei singoli.
La collezione Ragusa, sappiamo, consta di oltre 4000 oggetti, di ogni genere, risalenti per lo più al periodo Edo (1615-1868), che l’artista palermitano – in Giappone dal 1876 al 1882 per insegnare la scultura occidentale nell’Accademia Imperiale di Belle Arti di Tokyo – acquistò con il fine specifico di offrire agli italiani una esauriente panoramica della produzione artistica giapponese, a suo giudizio di superlativa qualità tecnica e formale. Scarse sono le notizie che il pubblico ha a disposizione sugli oggetti già Ragusa e ora al Pigorini, se non quelle presenti in pubblicazioni specialistiche (molto specialistiche…); altre immagini con didascalie si trovano sul sito web del Museo. Poca cosa dunque.
Fortunatamente, però, nel 2009 la Sellerio – casa editrice di altissima professionalità, che noi tutti soprattutto conosciamo perchè ha come ‘punta di diamante’ della sua scuderia il grande Andrea Camilleri – ha messo in commercio un lussuoso volume (all’abbordabile prezzo di 55 Euro) intitolato “Kiyohara Tama. La collezione dipinta”. Curato da Vincenzo Crisafulli, Loretta Paderni e Maurizio Riotto, il libro ha quindi come apparente protagonista Kiyohara Tama (1861-1937), ovvero Eleonora Ragusa, moglie di Vincenzo, valente pittrice che, per amore del marito e passione per l’arte, riuscì – peraltro con ottimi risultati – a combinare la tradizione artistica del suo paese con quella italiana e occidentale. Vissuta oltre cinquant’anni in Sicilia, fedele compagna di uno scultore che aveva ambizioni forse troppo grandi, la sua vicenda umana e artistica è analizzata nei minimi dettagli tra le pagine del volume.
La sezione del libro che mi ha maggiormente interessato è certamente quella in cui sono presentate oltre cinquanta tavole acquerellate che Kiyohara Tama dipinse tra il 1877 e il 1882, conservate in parte presso l’Istituto Statale d’Arte di Palermo (intitolato ai coniugi Ragusa) e in parte presso l’Art Research Institute di Tokyo. L’artista giapponese, allora ai primi approcci con Ragusa, riprodusse, su indicazioni di quest’ultimo, una parte degli oggetti giapponesi della collezione che allora lo scultore italiano andava formando. Sappiamo che il lavoro finale ammontava ad oltre cento fogli, metà dei quali quindi purtroppo scomparsi. Gli scopi di questo progetto erano due: da una parte il Ragusa desiderava che la giovane e dotata pittrice giapponese si confrontasse con la tecnica tutta occidentale della ‘riproduzione dal vero’; dall’altra egli aveva forse già in mente la catalogazione illustrata della sua raccolta, tanto che sul verso di ognuna delle tavole egli stesso si premurò di scrivere una descrizione degli oggetti, con le notizie che gli avevano fornito i mercanti presso i quali aveva acquistato le opere.
Su ognuna delle tavole, dunque, Kiyohara Tama dipinse con sorprendente realismo ‘fotografico’ uno o più oggetti d’arte della collezione Ragusa. Ai miei occhi, quindi, questi dipinti costituiscono una fonte visiva indispensabile per conoscere l’entità di una raccolta di arte nipponica formata in Giappone da un italiano – certo dotato di buon gusto – nei primissimi anni del periodo Meiji (1868-1912), nella stessa epoca in cui le più importanti collezioni di questo tipo si andavano costituendo nel resto del mondo. Si vedono porcellane, ceramiche, lacche, guardamano (tsuba), inrō, piccole sculture e, soprattutto, contenitori in bronzo. La lavorazione dei metalli, infatti, dovette interessare particolarmente il Ragusa, considerando il gran numero di bronzi che acquistò. D’altronde, proprio tra la fine del periodo Edo (1615-1868) e l’inizio di quello Meiji, gli artigiani giapponesi specializzati nella fusione sperimentarono tecniche innovative, inventando nuove leghe e originali patinature, subito apprezzate anche dagli occidentali.
Potete immaginare quindi quale gratitudine provi per tutti coloro i quali hanno organizzato la pubblicazione di questo volume con le tavole di cui si è detto. Ad esempio, adesso so che la scultura in bronzo raffigurante un monaco passata per l’asta Pandolfini del 19 maggio scorso è incredibilmente simile a quella che compare in una delle tavole di Kiyohara Tama conservate a Tokyo. Non so se Ragusa consegnasse anche questa statuetta al Pigorini, ma so con certezza che non pochi oggetti della raccolta dipinti da Kiyohara Tama non sono stati ritrovati nei depositi di quella Istituzione.
Loretta Paderni, curatrice della sezione asiatica del Museo, ha avuto un ruolo determinante nella composizione del volume in esame. Ella ha infatti riconosciuto tra gli oggetti della collezione Ragusa del Pigorini molti di quelli che compaiono nelle tavole acquerellate. In certi casi è riuscita a ricostruire per intero alcune dei dipinti, letteralmente “ritrovando” i manufatti, disponendoli per uno scatto fotografico. Così possiamo davvero ammirare l’abilità, quasi da esperta in ‘trompe l’oeil’, di Kiyohara Tama; inoltre, e soprattutto, veniamo così a conoscere una parte cospicua, e finora inedita, della grandiosa collezione.
La speranza è quella che non si debba aspettare il ritrovamento delle altre cinquanta tavole dipinte dalla moglie del Ragusa, che pure sarebbe auspicabile, per vedere pubblicati altri oggetti della collezione. Auguro, infatti, alla Paderni, che più volte nei testi da lei compilati per il volume ricorda che la catalogazione della raccolta sia in atto, di soddisfare il grande desiderio che fu del Ragusa, ovvero una pubblicazione con le sue opere che potesse servire alle generazioni di studiosi di arte orientale, italiani e stranieri.