La mostra “Giappone. Potere e splendore 1568-1868”, curata da Gian Carlo Calza e allestita presso il Palazzo Reale di Milano tra il 7 dicembre 2009 e l’8 marzo 2010, è stato un avvenimento imperdibile, per esperti di arte giapponese, neofiti o semplicemente curiosi.
Il giudizio positivo su questa mostra si deve più di tutto alla grande quantità di acclamati capolavori esposti. Sono infatti trascorsi molti anni dall’ultima volta in cui il pubblico italiano ha potuto ammirare in un unico evento un tale numero di importanti opere d’arte giapponesi. Si deve per lo meno risalire al 1995, quando al Palazzo delle Esposizioni di Roma fu ospitata la mostra “Il Giappone prima dell’Occidente. 4000 anni di arte e culto”. Curiosamente, la mostra di Palazzo Reale costituisce una sorta di ideale proseguimento di quella tenutasi a Roma, in quanto quest’ultima si concentrava sull’arte giapponese dalle origini alla metà del Cinquecento, periodo in cui, per l’appunto, gli europei misero per la prima volta il piede sul suolo nipponico, mentre quella di Milano esponeva oggetti che si datano tra la metà del XVI secolo e la metà dell’Ottocento. Beninteso, non si può certo dire che tra il 1995 e il 2009 l’arte del Paese del Sol Levante abbia latitato in Italia: lo stesso professor Calza ha organizzato con successo una serie di importanti mostre, su Hokusai (1999) e l’Ukiyo-e in genere (2004) nella stessa Milano e, più recentemente, su Hiroshige (2009) presso il Museo del Corso a Roma. Tuttavia, per queste mostre citate l’attenzione era rivolta ad alcuni specifici autori, seppure notissimi, oppure ad un singolo genere artistico, oltretutto già abbastanza conosciuto dagli italiani: lo scopo non era dunque quello di offrire un panorama più ampio e completo sulle arti del lontano arcipelago asiatico.
La mostra di Milano ha invece avuto il merito di presentare agli spettatori un quadro pressoché esauriente della sensibilità estetica del ‘mondo Giappone’, grazie soprattutto, come si diceva, ad un notevole numero di opere straordinarie, risalenti a tre secoli (1568-1868) in cui la società e la cultura nipponiche si sono evolute in modo eccezionale. Nella mostra ben si comprende quindi lo sviluppo, da una parte delle forme artistiche legate alla cultura tradizionale che aveva nell’antica capitale Kyoto il centro d’elezione, dall’altra l’evoluzione della nuova cultura ‘borghese’ che si andava formando a Edo (l’attuale Tokyo).

La locandina della mostra

Nelle ampie sale, dalle pareti rivestite per l’occasione di materiali caldi, tipici della cultura nipponica, quali il legno, la carta e il bambù, in un allestimento di indubbia eleganza e notevole suggestione, si susseguivano dipinti di vario formato e diverse dimensioni, dai grandi paraventi (byōbu) spesso arricchiti di foglia d’oro, ai lunghi rotoli orizzontali (emakimono), dai fogli sciolti, solitamente raccolti in album, ai rotoli verticali (kakemono). Superfici campite dei colori più vivaci, caratteristici dello Yamato-e, lo stile autoctono della pittura giapponese originatosi in epoca Heian (794-1185), si alternavano all’essenzialità dei dipinti monocromi, quasi sempre ispirati dalla cultura cinese e dal Buddhismo Zen, presentando così al pubblico quella dicotomia tra fasto policromo e sintesi calligrafica che è nota peculiare e filo conduttore dell’intera storia della pittura nipponica. Non mancavano i grandi nomi della pittura giapponese, tra quelli che è impossibile non trovare in qualsiasi manuale di storia dell’arte nipponica: Hon’ami Kōetsu, Tawaraya Sōtatsu, Ogata Kōrin e suo fratello Kenzan, Unkoku Toeki, Maruyama Ōkyo, Hakuin Eikaku, Mōri Sōsen, Sengai Gibon, Hokusai, Utamaro, solo per citarne alcuni. Tuttavia, se per dovere di critica si dovesse trovare una pecca all’esposizione, si potrebbe dire che di questi Maestri mancavano i maggiori capolavori, quei dipinti che proprio nei suddetti manuali servono ad illustrare le caratteristiche dei singoli artisti. Una critica da poco, in verità, anche perché la storia dell’arte è fatta di dipinti e non di manuali.

Assente giustificata la scultura, che poco ha avuto da dire in Giappone nel periodo a cui ci riferiamo, se si eccettuano forse quelle straordinarie statue in miniatura che sono i netsuke (non testimoniati in mostra), di notevole bellezza era invece la selezione di oggetti che potremmo raccogliere sotto la definizione, a dire il vero ambigua, di ‘arti applicate’. Come non rimanere estasiati al cospetto della scatola in legno laccato, stesure di oro, inserti di madreperla, piastre di piombo e d’argento, dal disegno raffigurante un ponte tra gli iris ideato da Ogata Kōrin verso l’inizio del XVIII secolo, conservata nel Museo Nazionale di Tokyo e tra i più noti Tesori Nazionali del Giappone? Un capolavoro assoluto, per eleganza, raffinatezza e poetica rappresentazione della natura, sofisticata metafora di uno tra i più amati brani letterari tradizionali, inserito nei “Racconti di Ise” del IX secolo: un prestito tanto importante che la preziosa scatola è rimasta in mostra a Milano per sole due settimane, fino al 20 dicembre. Del tutto soddisfacente anche la scelta di ceramiche, non tanto quelle sistemate nell’ampia teca grazie alla quale si voleva dare conto degli strumenti per effettuare la cerimonia del the, quanto invece quelle visibili in un’ampia sala successiva, con molti capolavori delle fornaci tradizionali e opere di famosi Maestri, come Ninsei e Nin’ami. Eccezionali anche i kimono, le maschere del teatro Nō, l’armatura, le lame e i finimenti delle spade: il pubblico italiano ha così potuto finalmente comprendere quanto elevato sia stato il livello di abilità manuale degli artigiani giapponesi.
In conclusione, la visita della mostra “Giappone. Potere e splendore 1568-1868” ha il merito di far trascorrere qualche ora di serenità, una tonificante immersione nelle calde e rassicuranti atmosfere dell’antica arte giapponese.