Genova è per me una città dal fascino irresistibile. Avventurarsi tra i suoi vicoli (meglio di giorno, mi hanno consigliato…) prospicienti il porto è un’esperienza di colori, suoni e profumi. I caffè e un’infinità di altre bottegucce sono aperti per accogliere, in una mattina tardo primaverile, una goccia di umanità. I visitatori non mancano ma la città e la sua gente non ne vengono sopraffatti: Genova regge l’urto del turismo ‘mordi-e-fuggi’ che ormai fagocità gran parte delle città d’arte italiane, spersonalizzando impietosamente la natura dei luoghi e il carattere degli abitanti. Nonostante la presenza dell’Acquario che, a due passi dall’intrico di straduzze, richiama folle di automi disposti a file interminabili per ammirare la bestia nel secchio.
Scegliere Genova per due giorni di vacanza è stata la cosa giusta. Chi avesse voluto soddisfare voglie di arte esotica – senza dovere a tutti i costi progettare trasferte lunghe e faticose – avrebbe, come me, organizzato una visita tra il 18 e il 19 di questo giugno 2010, sperando nella clemenza di nuvole gonfie e lacrimose ultimamente spesso in agguato. In due giorni, il tempo sarebbe bastato per fare una ennesima visitina al Museo Chiossone, che non fa mai male; per organizzare due veraci e succulente soste alla trattoria “Da Maria”, nonostante alcuni amici genovesi mi abbiano raccontato che in città la nota locanda – che questo è, non un ristorante per gente esigente – è nota come “la zozza”; alcuni caffè, un gelatino, e quindi fiondarsi in Via San Lorenzo, a un passo dal porto, per intrufolarsi tra le sale di Palazzo Boggiani Gavotti. Lì il fulcro di questo viaggio a Genova, nel prestigioso edificio storico dove ha nuova sede la casa d’aste San Giorgio che, ne ho scritto, proprio il 19 giugno aveva in programma una poderosa vendita di manufatti di arte asiatica. Ero a Genova per assistere a quell’incanto, ma ho fatto in modo di essere lì presente un giorno prima così da poter visitare l’esposizione degli oggetti in asta l’indomani, per dare meritata soddisfazione anche all’esigenze delle mie mani e dei miei occhi che spesso fremono di desiderio.
Inizio dalle conclusioni. Non so dire se l’asta sia andata bene o male. I parametri per dare un giudizio del genere sono così variabili che non sempre è opportuno usare categorie linguistiche così elementari (bianco-nero, caldo-freddo, bene-male, etc.), né tanto meno avventurarsi nell’utilizzo di parole dai toni sfumati (benino, discreto, così e così, …). E poi, bene, o male, per chi? A me, ad esempio, è andata benissimo, perchè mi sono molto divertito (non nel senso delle risate, chiaro) e ho imparato tante cose nuove. Ma si saranno divertiti anche gli organizzatori dell’asta? Nel senso, la mole delle vendite è stata tale che, a sera e a luci spente, l’asta si sia trasformata in festa, tra brindisi, baci, abbracci e balli euforici? Non saprei.
Ho però alcuni elementi certi, di carattere generale, su cui ho riflettuto e che qui esporrò brevemente. Tra le sezioni del pomeriggio (Cina, Giappone, Sudest asiatico e India), quella che sicuramente ha più deluso è stata quella di arte giapponese. Moltissimi gli invenduti, purtroppo, e tra quelli aggiudicati solo un pezzo faceva parte di quel pur folto gruppo di manufatti di una certa qualità. Si tratta di una bella scultura in legno raffigurante una “Kannon dalle mille braccia”, seduta su un piedistallo a forma di fiore di loto, con alle spalle un nimbo fiammeggiante. Databile alla seconda metà del XIX secolo, forse già in epoca Meiji (1868-1912), è senz’altro un’opera dall’intaglio raffinato e minutissimo, notevole anche per la bella patinatura e l’ottimo stato di conservazione, grazie al quale si sono preservati accessori della divinità dall’apparenza delicatissima, come le armi in asta e gli altri oggetti trattenuti nelle molte mani. Un oggetto molto bello e prezioso, dunque, preso per 2800 Euro, che erano poi la stima di partenza. Tuttavia, molti altri manufatti giapponesi di pregio erano offerti in asta, come ho avuto modo di dire, eppure la gran parte di loro è rimasta alla San Giorgio.
Per quali ragioni? Si sa, il mercato dell’arte è volubile, soggetto a cambiamenti di umore molto spesso repentini. Così come son giunte, certe ‘mode’ passano lasciando il posto ad altre. Con questo, naturalmente, non voglio assimilare il collezionismo artistico al cambio di un abito: tuttavia, anche il gusto, anche quello più raffinato, anche quello più giudizioso, risente di ‘climi’, tendenze e, soprattutto, delle risposte globali del mercato.
E già, perché – a mio parere – il motivo principale di questo crollo dell’arte giapponese è uno solo, ed ha un nome: dicasi Cina. Perché, da qualche anno a questa parte, e con sempre maggiore evidenza, per gli acquirenti arte orientale significa, solo ed esclusivamente, Cina. Perché i maggiori acquirenti di arte asiatica (e non solo) sono cinesi. Proprio loro, che fino a non moltissimi anni fa non hanno avuto remore a vendere (e a volte svendere) il proprio patrimonio artistico, ora lo riacquistano, in ogni occasione, a qualsiasi prezzo. In Cina esiste oggi una nutrita schiera di abbienti, anzi ricchissimi, signori che investe porzioni colossali di denaro per comperare i manufatti artistici della loro tradizione, gli stessi che furono un tempo venduti agli occidentali. Questo è un dato di fatto: i resoconti sul mercato dell’arte del 2009 hanno evidenziato questo strapotere dell’arte cinese, l’unico campo che abbia tenuto, e sia anche cresciuto, a dispetto della presunta crisi economica mondiale che ha frenato anche lo sviluppo del commercio degli oggetti artistici.
Ho un unico commento a questo proposito, riassumibile in una sola parola: “Finalmente!”
Alcune conseguenze. Primo, l’aumento della richiesta comporta anche l’aumento dell’offerta. Questo vuol dire che chi è appassionato d’arte cinese può avere molte più possibilità di vedere, a volte toccare, un numero molto maggiore di oggetti più o meno preziosi. Certo, ho dispiacere nel constatare che l’amata arte giapponese susciti meno entusiasmo, ma almeno posso consolarmi con quella cinese, e non è poco.
Secondo, la presenza e l’acquisto di tanti manufatti artistici cinesi contribuisce in maniera sostanziale ad una loro valutazione più alta. Pazienza per coloro i quali hanno finora comprato arte cinese pagandola a prezzi modesti: ora, chi voglia possedere un bell’oggetto, magari antico, di là proveniente, deve alzare la posta poiché in molti saranno pronti a contenderselo. E si sa che, per comune intendere, la prospettiva di avere un oggetto di elevata quotazione economica spinge molti, tra chi ne ha la possibilità, ad acquistare in quel campo, con la convinzione di avere fatto quanto meno un buon investimento. A vantaggio di tutti, più si acquista, più si vende, più si vede, più si studia, e così via.
Terzo, la crescita di questo mercato dagli ‘occhi a mandorla’ influirà anche sulla presenza di arte cinese sul mercato italiano. S’è ne è già avuta prova, se negli ultimi due mesi ben tre aste di arte orientale si sono susseguite a Roma, Firenze e infine Genova. Su quest’ultimo punto che posso scrivere, se non “Che diletto!”.
Si sarà capito, a questo punto, che nell’asta della San Giorgio, se il Giappone ha deluso, la Cina ha trionfato, letteralmente, tanto che poco è mancato perché si raggiungesse l’ambitissimo traguardo del “tutto venduto”. La più ovvia spiegazione per questo successo è senz’altro la grande qualità degli oggetti proposti. Quasi 400 lotti, e quindi una grande varietà di manufatti di tutte le epoche, molti dei quali hanno suscitato l’attenzione dei presenti in sala, di quelli che hanno partecipato all’asta via telefono e di coloro i quali avevano rilasciato preventivamente una loro offerta. Ho assistito a qualche aspra contesa a forza di rialzi, come quella che ha visto protagonista la scultura in giada bianca raffigurante un cane sdraiato al lotto n. 429: dalla stima di partenza di 2200 Euro si è arrivati, nel volgere di pochi, concitati secondi, alla bella cifra di 7000 Euro. Un’analoga ‘sfida’ ha riguardato anche un raffinato vasetto in porcellana del XIX secolo (lotto n. 307): la forma a sezione quadrata, la delicatezza della pittura a smalti policromi, il morbido modellato delle due protomi leonine, sono elementi che devono aver acceso le fantasie di coloro i quali hanno ambito a possederlo, spingendo il suo prezzo dai 1300 Euro iniziali ai 4400 raggiunti in conclusione.
Non ho intenzione di continuare a descrivere i lotti e le quotazioni che
hanno raggiunto poiché, chi volesse, può consultare il sito della San Giorgio sul quale sono pubblicate tutte queste informazioni. Mi limito, quindi, ad un’altra proposta di riflessione, l’ultima. All’interno della sezione cinese, il gruppo di manufatti che sicuramente ha attratto meno interesse è stato quello della pittura. Eppure, anche in quell’ambito non mancavano le opere di buona qualità, tra le quali ho particolarmente apprezzato i lotti nn. 486 e 492, ovvero due dipinti di inizio Novecento con eleganti composizioni floreali. Non trovo spiegazione a questa sorta di generale indifferenza, soprattutto sapendo che questo sentimento è appartenuto agli stessi clienti che hanno investito il proprio denaro in altri generi di oggetti. Forse, la traduzione delle iscrizioni che vi compaiono, o per lo meno l’identificazione dell’autore, sarebbero serviti da stimolo per l’acquisto, anche se uno dei pochi dipinti venduti – ovvero la bella composizione di aironi e fiori di loto al lotto n. 517 (Euro 2500), risalente alla seconda metà della dinastia Ming (1368-1644) – non presenta iscrizioni di sorta. Lo stimolo, in questo caso, è venuto dall’alta qualità della pittura che caratterizza questo rotolo verticale e pure dalla sua indiscutibile antichità.
Qualcuno, forse, potrebbe a questo punto chiedersi quale sia stato l’oggetto che – valutazioni, cronaca e riflessioni a parte – mi ha maggiormente entusiasmato, tra quelli che ho visto e toccato durante la mia visita all’esposizione organizzata dalla San Giorgio, prima che tutti prendessero strade diverse e sconosciute. Bene, non ho dubbi. Confesso, infatti, di aver provato una forte emozione tenendo nel palmo della mia mano cicciottella la snuff bottle in agata al lotto n. 443 (stima 300 Euro, aggiudicata per 500). A molti non avrà detto nulla, così piccola qual’era tra centinaia di altri manufatti, molti dei quali di certo più preziosi. Eppure, nei pochi secondi in cui è stata mia ho visto, tra occhi e mente, una scena – risalente a circa duecento anni fa – in cui un uomo raffinatissimo, nel suo studio immerso nel verde, amante della poesia e delle belle arti, circondato da rotoli calligrafati e rari oggetti da collezione, ammirava estasiato e consapevole proprio quella bottiglietta in cui, perfettamente, si uniscono il prodigio della Natura e la maestria dell’Uomo. Forse anche lui, come me, dopo aver sublimato i suoi pensieri osservando i mazzetti di verde scuro che screziano da una parte quella pietra, ha voltato lato alla snuff bottle e si è fatto egli stesso di sasso, emozionati com’eravamo dalla morbida onda iridata che a quel punto si è presentata superba ai nostri occhi. Solo in Cina, non altrove.
PS.
Riguardo all’Acquario, non ho scritto quel che ho scritto per snobismo: la verità è infatti che, da robottino diligente, anch’io l’ho visitato pur di tenere sveglia la mente dei miei pargoli che mi hanno seguito durante quei due splendidi giorni in terra di Liguria.