Nella mostra di Milano è possibile seguire per gran parte l’evoluzione delle shunga, a partire dalla fine del XVII secolo, quando le stampe erano realizzate solo in bianco e nero (sumizuri-e), per arrivare alla completa policromia delle nishiki-e (“immagini a broccato”, in riferimento all’opulenza dei tessuti), realizzate con una certa continuità per tutto il periodo Edo. Nel percorso sono inoltre presenti almeno tre lunghi rotoli dipinti (e-makimono), completamente dispiegati per ovvie ragioni espositive, ben sapendo i responsabili scientifici della mostra che questo formato era in realtà eseguito per essere visionato un brano alla volta: di bella qualità, per i colori vivissimi e le preziose stesure di polveri d’argento, è senz’altro il rotolo attribuito per motivi stilistici a Tsukioka Settei (1710-1787), artista che diede il meglio di sé proprio nel genere shunga. Non mancano altresì alcuni esempi di quelli che sono unanimemente considerati tra i capolavori delle shunga. Ad esempio i fogli della serie “Dodici incontri sulla strada dell’erotismo” (Shikidō torikumi jūniban) di Isoda Koryūsai (1735-1790) in cui, più accentuatamente che in passato, l’attenzione dell’osservatore è guidata verso gli organi genitali degli amanti, per questo deliberatamente aumentati nelle dimensioni, secondo una pratica degli artisti che in certi casi raggiungerà il grottesco.
Oppure, alcune belle opere di Katsukawa Shunchō (attivo 1780-1800 circa), artista poco noto ai più tuttavia dotato di enorme sensibilità, senza dubbio autore di alcune delle più belle shunga mai pubblicate. Non mancano, inoltre, opere di autori più noti anche al pubblico occidentale, come i già citati Harunobu, Utamaro e Hokusai. La galleria si chiude, infine, con opere più tarde, della seconda metà del XIX secolo, concludendosi con quattro irresistibili disegni di Hashiguchi Goyō (1880-1921), pittore che, nonostante avesse subito palesemente l’influsso della cultura e dell’arte occidentale, proprio nel genere delle immagini erotiche sembra rivolgersi alle tradizioni del proprio paese, infondendo nella linea di contorno quella purezza ed essenzialità calligrafica che è nota prerogativa dell’arte giapponese.
Peccato che, dal punto di vista puramente artistico ed espositivo, la mostra cedeva in alcuni punti. L’allestimento era infatti scarno, minimale, freddo: nelle ampie sale di Palazzo Reale, illuminate da una luce ambientale che sovrastava le luci fredde destinate a illuminare le singole opere, le stampe e i dipinti sembravano persi nel vuoto, incapaci di reggere il confronto con gli spazi circostanti. Neanche i bei kimono sparsi qua e là nelle sale neoclassiche sono riusciti a bilanciare l’austerità delle impalcature scelte per sorreggere le opere: si era pensato forse che le immagini fossero sufficienti di per se stesse a rallegrare l’ atmosfera, ma così non è stato, tanto che il mondo sensuale ed elegante dei ‘quartieri dei piaceri’ è apparso per certi versi cupo, a tratti inquietante. In ultimo, non me ne voglia lo stimato professor Marco Fagioli, in mostra si notava l’assenza di alcuni capolavori, punti cruciali nell’evoluzione della shunga, realizzati ad esempio da Harunobu, Utamaro e Hokusai. Forse la presenza di queste opere sarebbe stata utile a bilanciare la qualità a volte corrente delle singole stampe esposte, in molti casi sbiadite nei colori, pochissimo vive nelle tonalità, quindi in stato di conservazione non ottimo. Quest’ultima pecca si è notata in modo particolare nel momento in cui il visitatore ha avuto modo di ammirare la straordinaria qualità di una serie di shunga di Hokusai esposta nella contigua mostra “Giappone. Potere e Splendore 1568-1868”.
Trackbacks / Pingbacks