Mi sento giovane, un ragazzo!
Nello spirito, naturalmente, che nel corpo qualche affanno comincio a sentirlo…
Per carità!, sono solo un adulto, non un vecchio, ma è naturale che il mio fisico non reagisca più alle sollecitazioni come faceva a vent’anni.
Ma nello spirito, ripeto, mi sento ancora un baldanzoso neo-laureato. Ho ancora quella voglia di scoprire, quella curiosità, quella tenacia, quella passione, quei sogni, in sintesi quell’entusiasmo che animava la mia vita quando iniziai il percorso che mi ha condotto fino a questo punto.
Nel corso di quasi un quarto di secolo ho costantemente immesso informazioni nel sacco che mi porto sempre appresso, quasi fossi un Budai di estrema periferia. Ho imparato col tempo a considerare ogni attimo della mia vita come un’occasione utile per la mia formazione.
Non esiste un tempo perso, questo ho imparato.
Studio, libri, viaggi, conferenze, scrittura, musei, depositi, collezionisti, amatori, mercanti, case d’aste.
E mostre.
Quante mostre ho visitato nella mia vita, impossibile ricordarle tutte.
Alcune, però, rimarranno per sempre nella mia memoria, non solo per gli oggetti che vi erano esposti ma anche, e forse soprattutto, per il modo in cui erano allestite.
In fondo, una mostra è tante cose insieme. Un’opportunità per imparare, un momento di riflessione, un modo per trascorrere piacevolmente un paio d’ore.
Si, anche questo. Le mostre sono anche uno spettacolo, non v’è dubbio.

Una tra le più belle mostre che abbia mai visitato è attualmente in corso presso il Museo del Tessuto di Prato.

A cura di Daniela Degl’Innocenti e Monica Zavattaro, si intitola Turandot e l’Oriente fantastico di Puccini, Chini e Caramba, ed è per l’appunto dedicata al celebre capolavoro dell’opera, al compositore toscano che l’ideò e ai suoi due sodali che tanta parte ebbero nella realizzazione di quello spettacolo, andato in scena per la prima volta alla Scala di Milano il 25 aprile del 1926. L’evento fu diretto da Arturo Toscani poiché Puccini era morto l’anno prima, e purtroppo non avrebbe visto neanche una rappresentazione di quel suo lavoro ancora oggi nei cartelloni di tutto il mondo.
Puccini si era rivolto a Galileo Chini perché progettasse le scenografie. Una scelta non dettata solo dall’amicizia che legava i due e dal talento indiscusso dell’artista fiorentino, allora all’apice della sua carriera. Puccini se ne convinse prima di tutto perché ben sapeva quanto profonda fosse la conoscenza di Chini dell’Oriente. Galileo, è cosa nota, aveva infatti vissuto per due anni – tra il 1911 e il 1913 – a Bangkok, su invito del sovrano Rama V, che gli aveva commissionato la decorazione del Palazzo del Trono, un’impresa molto impegnativa che il nostro riuscì in vero a portare a termine con grande soddisfazione dei reali.
Puccini desiderava dunque che le scenografie della sua opera, ambientata in una Cina fantastica, restituissero per quanto possibile le atmosfere reali di quei paesi, ancora molto misteriosi per gran parte degli italiani.
Chini fu sicuramente prodigo di consigli anche per Luigi Sapelli, in arte Caramba, allora direttore per gli allestimenti scenici della Scala, che si occupò invece di realizzare i costumi per quel grande evento.
Proprio i costumi di quella prima Turandot sono il tema principale della mostra di Prato.
Il progetto dell’esposizione ha avuto inizio con il ritrovamento e l’acquisizione da parte del museo dei due costumi della ‘Principessa di gelo’, il personaggio principale dell’opera. Riconosciuti come tali da Daniela Degl’Innocenti e restaurati all’interno dello stesso museo con cure che definirei materne, questi due spettacolari capolavori della sartoria teatrale sono il fulcro intorno al quale è stata concepita la mostra e il suo allestimento.
Nel percorso dell’esposizione, a loro è riservato il posto d’onore. Si ergono sfavillanti nell’ultima sezione della mostra, sistemati su un’ampia pedana insieme a una ricca selezione di altri costumi utilizzati per la prima del 1926, generosamente prestati dalla Sartoria Devalle di Torino, che per nostra fortuna da anni li custodisce.
A proposito di mostra che può (e a mio parere deve) anche anche essere uno spettacolo, il colpo d’occhio che questa sala offre al pubblico è davvero emozionante.
I colori vivaci dei tessuti, l’atmosfera esotica dell’insieme, le luci ben calibrate, sono elementi che trasformano questa effimera parata in un’immagine di straordinaria forza che difficilmente potrà essere dimenticata. Le altezzose principesse guidano il corteo di sacerdoti, ancelle, guardie, popolani, fiancheggiate, tra gli altri, dall’imperatore Calaf, Ping, Pong e Pang, anch’essi personaggi della visionaria Turandot pucciniana.
Un finale degno di nota, in una mostra che in realtà si evolve senza alcun cedimento, in un susseguirsi di sussulti sempre positivi. Fin dall’ouverture, al piano inferiore, nella grande sala che immette al museo, dove si può ammirare una sostanziosa selezione dei manufatti asiatici appartenuti a Galileo Chini, da lui stesso donati nel 1950 al Museo di Antropologia ed Etnologia di Firenze, dove tuttora sono conservati.
La figura di Chini pittore è stata negli ultimi decenni indagata in numerose occasioni, tra mostre e la pubblicazione di articoli e libri. Immancabilmente, in tutti questi interventi si è fatto esplicito riferimento alla sua collezione, e non poteva essere altrimenti, considerando che il Maestro ha inserito in moltissimi suoi dipinti, tra quelli realizzati al suo ritorno da Bangkok, proprio alcuni degli oggetti che lì aveva raccolto.
Tuttavia, prima della mostra pratese, mai si era esposto un tale cospicuo numero di manufatti della Collezione Chini. Si potrà dunque finalmente non solo apprezzarne la qualità e varietà ma anche associare più facilmente gli elementi che compaiono nella vibranti Nature Morte dell’artista toscano con i reali modelli orientali.
Nel suo insieme, la collezione Chini si caratterizza per una notevole eterogeneità di materiali e ambiti di pertinenza. Evidentemente, Galileo acquisì senza una precisa idea, guidato dal suo gusto e – soprattutto – dalla volontà di riportare in Italia non solo oggetti con qualità estetiche, ma anche pezzi che consentissero di farsi un’idea più precisa sugli usi e sui costumi di quei popoli tanto lontani e diversi. Non è un caso dunque che egli scegliesse di donare la sua collezione proprio al Museo di Antropologia ed Etnologia.
In mostra i manufatti della collezione Chini sono raggruppati per tipologie. Il teatro Kohn, la musica, le arti connesse con la religione e gli oggetti di manifattura cinese. Galileo acquisì pezzi cinesi nonostante durante il suo soggiorno asiatico non si muovesse dal Siam, come allora si chiamava la Thailandia. A Bangkok era infatti ben radicata la più nutrita e vivace comunità cinese di tutto il continente all’infuori della Cina stessa. Il Maestro era molto incuriosito dal quel popolo di emigrati cinesi, e frequentò molto spesso il loro quartiere, acquistando oggetti di vario genere, a volte provenienti dalla Cina, altre volte realizzati in loco sui modelli cinesi.
Al piano superiore, l’esposizione continua con alcuni altri capolavori del pittore fiorentino. Una suggestiva installazione permette di apprezzare almeno virtualmente l’inamovibile Festa dell’ultimo dell’anno a Bangkok, il dipinto che più identifica l’opera di Chini, in dialogo con una grande maschera di dragone in cartapesta molto simile a quella raffigurata nel celebre dipinto della Galleria d’Arte Moderna di Firenze.
L’ultimo ambiente è quello della meravigliosa parata di costumi di cui si è detto. A introdurla l’esposizione presenta dipinti (tra cui i bozzetti di Chini per le scenografie), oggetti e documenti relativi alla Turandot, dalla sua genesi alla prima di Milano, con un doveroso accenno a Iva Pacetti, la soprano pratese alla quale appartennero i costumi della ‘Principessa del gelo’ poi acquisiti dal Museo del Tessuto.
Non riesco e non voglio proseguire con ulteriori dettagli nella descrizione di questa mostra. Il modo migliore per apprezzarla (l’unico) è visitarla, lasciando che le favolose arie di Puccini ambientate nel misterioso Catajo muovano silenziosamente l’animo, così come è capitato a me.

Noterella a margine di questa mostra

Non posso negarlo, lo confermano il colophon all’ingresso della mostra e il bel catalogo pubblicato per l’occasione.
Ho partecipato attivamente all’organizzazione di questo spettacolo, con grandissimo piacere. Tuttavia, non è per il mio coinvolgimento che ho espresso tanti elogi.

La mostra è davvero straordinaria.
E’ andata più meno così.
Il 16 novembre 2016, su invito di Monica Zavattaro, curatrice del Museo di Antropologia ed Etnologia di Firenze, tenni presso la Tribuna di Galileo nel Museo della Specola una conferenza sull’Orientalismo di Galileo Chini, di cui ho dato conto anche su Orientart. A presentarmi in quell’occasione, oltre all’amica Monica, c’era Guido Chelazzi, allora presidente del Museo di Storia Naturale.
Nei mesi successivi fu indetto un concorso per conferire una borsa che aveva come finalità lo studio della Collezione Chini. Partecipai al concorso, lo vinsi regolarmente e nel corso dei due anni successivi ebbi la grande opportunità di visionare e studiare i circa 400 pezzi di cui si compone quella raccolta.
Il fine ultimo era quello di valorizzarla attraverso una pubblicazione, o meglio ancora con una grande mostra.
Se ne parlò moltissime volte con Monica, qualche volta con Guido Chelazzi, convinto sostenitore del progetto, e anche con Paola Chini, custode straordinaria della memoria del grande pittore fiorentino.
Fu proprio in quel frangente che il Museo del Tessuto di Prato, nelle persone del direttore Filippo Guarini e di Daniela Degl’Innocenti, contattarono il Museo di Antropologia ed Etnologia per coinvolgerlo nell’organizzazione della mostra sulla Turandot.
Il caso, il destino, le coincidenze. Non saprei come definire tali fortunate circostanze, fatto sta che a meno di cinque anni da quel novembre 2016 io e Monica abbiamo avuto l’occasione di presentare i risultati del nostro lavoro, con la partecipazione a una mostra che rimarrà tra quelle per me memorabili, alla quale auguro tutto il successo che merita.