Il collezionismo, è risaputo, può a volte assumere connotazioni di pura follia. Chi ne è posseduto può arrivare a dedicare tutto il suo tempo, le sue energie e il suo denaro alla sua passione, tralasciando tutto il resto. Augusto il Forte (1670-1733), principe elettore di Sassonia e re di Polonia, è sicuramente uno dei più noti esempi di uomo affetto da questa ‘patologia’.

Egli aveva infatti la ‘maladie de la porcelaine’: fu quindi un vorace, parossistico collezionista di porcellane cinesi e giapponesi; ne acquistò milioni di pezzi, soprattutto sul mercato olandese; non esitò a scambiare un battaglione dei propri migliori soldati con un gruppo di maestose potiches ‘bianco e blu’; costruì enormi palazzi per contenere la sua ormai strabordante raccolta; infine, non ancora soddisfatto, fondò a Meissen una manifattura dove per la prima volta in Europa si scoprì il segreto per la realizzazione di porcellane. A questa grande figura storica in parte si ispirò Bruce Chatwin per il suo Utz, splendido romanzo nel quale la passione per le porcellane e il collezionismo assumono il significato ideale di fuga per la riconquista della libertà.La passione per il collezionismo può essere contagiosa ma solo in rarissimi casi può essere dannosa, per chi ne è affetto, ahi lui! Per il pubblico, estraneo alle modalità di acquisto e accumulo, essa è invece una vera e propria benedizione, grazie alla quale si sono formate le maggiori raccolte d’arte del mondo.

Giappone, Netsuke in avorio con pescatrice, XVIII secolo, Museo Poldi Pezzoli

Esistono senz’altro casi di collezionismo bulimico anche tra gli appassionati di netsuke, forma d’arte tra le più tipiche del Giappone. D’altronde il netsuke è una tipologia di oggetto che si presta in maniera straordinaria al collezionismo. Riflettiamo su quali siano alcune delle specifiche caratteristiche che lo rendono più che adatto a questo scopo.
Innanzitutto, si tratta di oggetti sostanzialmente piccoli, che si possono tenere nel palmo di una mano. Ad una folta schiera di collezionisti, per ovvie ragioni, piace moltissimo toccare le proprie opere, figuriamoci poterle accarezzare e strofinare, magari tenendole in tasca al riparo da sguardi indiscreti, per goderne solamente in privato; tanto più che il netsuke nasce proprio per essere maneggiato, senza tregua, quale vezzo dell’uomo elegante vissuto in Giappone nel periodo Edo (1615-1868). Il collezionista toccando il netsuke crea una sorta di ‘transfert’ psichico con il primo e i successivi proprietari dell’oggetto, ne percepisce la storia, i passaggi generazionali, tende così a spiegarsi l’accumularsi della patina, le variazioni cromatiche, la lucidatura. Questo rapporto strettissimo, fisico, tra il netsuke e il suo proprietario sono la principale ragione per cui il collezionista più dogmatico eviterà ad ogni costo di contaminare la propria raccolta con la presenza di okimono, ovvero quelle statuette somiglianti in tutto e per tutto ai netsuke – realizzate dal periodo Meiji (1868-1912) in poi proprio ad uso dei collezionisti occidentali – che hanno però perso la loro primaria funzione, cioè quella di essere indossati e servire da contrappeso per sorreggere le varie borsette al fianco della persona.
Un’altra caratteristica fondamentale che fa del netsuke un oggetto eletto tra i collezionisti è la sua pressoché infinita varietà. Fin dalla scelta dei materiali con cui può essere realizzato. Il più usuale è senz’altro il legno: il Giappone, che possiede una flora ricchissima, ha offerto agli intagliatori di netsuke un’amplissima gamma di legni, dai più duri ai più malleabili, con una certa predilezione per il bosso e il cipresso hinoki. Quindi l’avorio di elefante, materiale più nobile e costoso perché importato dal sud-est asiatico prima e dall’Africa in seguito. In più avori fossili, oppure di animali presenti sul suolo giapponese, primo fra tutti quello delle zanne di cinghiale. Non ci sono d’altronde limiti alla scelta di materiali diversi: ceramica, porcellana, metalli, ambra, corallo, giada, pietre varie, vetro, etc., tutto purchè si adatti alle capacità inventive dell’artista.

Giappone, Netsuke in avorio con portoghese, XVIII secolo, Museo Poldi Pezzoli

Per non parlare poi dei soggetti. I netsuke costituiscono un vero e proprio cosmo parallelo al nostro: dalle divinità agli esseri soprannaturali, di qualsiasi credo e dottrina, dagli animali mitologici a quelli reali, a qualsiasi specie essi appartengano, dalle leggende cinesi a quelle giapponesi, dagli stranieri, occidentali oppure asiatici, alla vita quotidiana del Paese del Sol Levante, dagli oggetti sacri a quelli più comuni, per arrivare in alcuni casi a forme di vero e proprio astrattismo.
Infine, senza dubbio i collezionisti sono attratti dalla diffusa presenza sui netsuke delle firme degli artisti. Al contrario di quanto accadeva in Cina, in cui solo i pittori solevano firmare mentre gli artisti specializzati in altri generi rimanevano solitamente anonimi, in Giappone era molto in voga l’uso di vergare le opere con il proprio nome, fin dai tempi antichi. Questa pratica era molto diffusa proprio tra gli intagliatori di netsuke, tanto che attualmente sono note alcune migliaia di firme diverse, per il sommo piacere dei collezionisti più accaniti, nonostante da sempre si pontifichi che non la firma bensì solo la qualità sia il parametro per giudicare un pezzo. Questa moltitudine di firme, pur ingenerando molta confusione (del maestro, di un allievo, di bottega, copia, falso, coevo, posteriore, etc.), crea discussioni tra i collezionisti e gli studiosi: in generale, ognuno di loro crede di dire il vero, anche se solo in pochissimi casi si giustificano tali asserzioni con prove e documenti inoppugnabili. Chiacchiere inutili, dunque, che costituiscono però il sale di questa passione collezionistica.

Giappone, Netsuke in corno con Tenaga, XIX secolo, Museo Poldi Pezzoli

Naturalmente, molte altre, spesso a noi ignote, sono le motivazioni che hanno spinto e spingono tuttora a raccogliere netsuke. Giacinto Ubaldo Lanfranchi (1889-1971), ad esempio, scelse di collezionare netsuke e okimono anche perché questi – per la loro funzione originaria – gli ricordavano i bottoni della tradizione occidentale, che egli produceva in gran copia nella fabbrica di sua proprietà. Egli possedeva una spiccata sensibilità artistica, doti intellettuali e passione collezionistica. Inoltre, amava lo studio e la scrittura. Nel 1962 compilò e pubblicò il catalogo della sua raccolta (“Il netsuke. Un’arte giapponese”): forse egli pensava di aver completato la sua collezione, riuscendo ad illustrare la grandissima varietà di questo genere di manufatto. Il suo testo appare infatti oggi anche come una sorta di compendio sull’iconografia del Giappone, esemplificata attraverso questi minuti oggetti d’arte. Non vi compaiono invece suoi espliciti giudizi né sulla qualità dei pezzi, né tanto meno si possono rintracciare tentativi di datazioni e cronologie interne: d’altronde, al tempo in cui fu scritto, gli studi scientifici sui netsuke erano ancora agli albori, e mai in Italia si era scritto un testo che riguardasse questi capolavori in miniatura. Grandi meriti perciò vanno al Lanfranchi, e anche ai suoi eredi che nel 2005 hanno deciso di donare l’intera collezione al Museo Poldi Pezzoli di Milano.
Quest’ultimo, tra la fine del 2008 e il 2009, ha organizzato una mostra temporanea della collezione – con l’aggiunta di prestiti di pezzi particolarmente preziosi dal Museo Linden di Stoccarda e da collezionisti privati milanesi – intitolandola “Netsuke. Sculture in palmo di mano. La raccolta Lanfranchi e opere da prestigiose collezioni internazionali”. L’esposizione, prima del genere in Italia, sembra abbia avuto un notevole successo di pubblico, richiamando appassionati esperti e gente comune, attratta quest’ultima dalla novità e dal misterioso mondo che questi oggetti rappresentano. Il catalogo che accompagnava la mostra ha cercato di riempire quelle lacune di cui si è detto presenti nel pur valido volume del 1962, cercando di fare tesoro degli studi che nel frattempo hanno arricchito le conoscenze su questa forma d’arte.