Qualche giorno fa ero a Roma.
Avevo del tempo, tra una panchina e una vetrina, in una zona di Roma che non so precisare, se non che si raggiunga con un tratto di metropolitana fino alla fermata Lepanto.
Passeggio, e vedo un negozio che non vende pizza al trancio o liquori da pochi euro.
Vende libri.
“Posso entrare a dare un’occhiata?”
Lei, la signora, non si scompone minimamente, e continua a fare ciò che faceva, credo vedesse bozze per un libro d’arte.
Giro, sfoglio, prendo dagli scaffali, belli peraltro.
Trovo un librino. Einaudi, vecchio, di quelle edizioni ormai superate, che mai mi sognerei di trovare sui ripiani messi in piedi dalla Feltrinelli, tutti uguali.
E’ il bianco Einaudi, ma ingiallito, ha una patina, è un bell’oggetto. Carta.
Si intitola “Le canzoni di Narayama”.
E’ una ristampa del 1980 di un’edizione del 1961, traduzione da una pubblicazione francese del 1959.
Attacco a leggere, questo raccontino a firma di Schichiro Fukazawa.
Agghiacciante.
E’ un tempo sospeso, quello che si tramanda nella cultura giapponese. Certo, un tempo senza macchine, senza telefonino e senza lavatrice.
Un tempo in cui la prima necessità da soddisfare è la fame.
Nessuna autocommiserazione, nessun dolore e nessuna gioia.
Un unico scopo.
Narayama.
Una famiglia.
Lei, la vecchia O-Rin.
Il figlio di lei, quarantacinque anni, Tappei.
Il figlio di lui, Kesakichi.
L’inetta moglie di quest’ultimo, Martsu-yan.
Tama-yan, la seconda moglie di Tappei.
Due altri suoi figli, un adolescente e una bimba piccolissima.
E poi una miriade di altri personaggi, che sarebbe troppo lungo elencare.
Nel concreto, tra le varie lingue di fuoco con cui si espande questo racconto, c’è Narayama, una montagna, proibita ai più, a eccezione di chi abbia compiuto settant’anni.
O-Rin ha quasi quell’età, subito si comprende iniziando a leggere la storia.
Fukazawa tiene allertato chi legge, costruendo una storia che ha i modi della fiaba, senza lieto fine.
La tensione sale, subdola, in una stasi che non favorisce la noia, ma che sempre stasi è. Una scossetta elettrica, di tanto in tanto, tiene svegli, però.
Teppai era dapprima una figura sfuggente poi, all’ultimo, diventa il protagonista della storiella: si porta la mamma a spalla su una tavoletta di legno, si inerpica sulle salite del Narayama, le più alte che ci siano, affonda le gambe nella neve, che alla fine arriva, calpesta ossa umane, ha paura, è stanco, rispetta le Leggi, ama la madre in quanto simbolo di dio.
Inizio, tragitto e fine in questo libello di Fukagawa sono parametri temporali aleatori, ed è perciò inutile che io cerchi di parafrasare l’opera, poiché essa non ne ha bisogno. Chi vuole potrà leggerla, a me è piaciuta. Sempre che, tra un trancio di pizza e una bottiglia di vino, scorga lungo la strada la vetrina di un negozio che vende libri.
* Al momento di pagare il librino prima di uscire, chiedo alla signora, stanco di girovagare senza una metà: “Scusi, lei sa se nei dintorni ci sia una biblioteca?”
Non lo sapeva, l’ha cercata, mi ha detto tutto quel che poteva, non mi ha convinto…