Tutti pregano.
Nel silenzio che assorda le città in questo a dir poco ‘originale’ inizio di primavera, se si tende l’orecchio, si sente un brusio.
Un cantilenare sommesso si muove dagli angoli delle stanze di moltissime case, continuo, costante.
Tutti pregano.
Chi lo faceva abitualmente, nell’attuale situazione ha preso a intensificare le sessioni, e a quella mattutina e serale, ha aggiunto anche quelle pre-pasti, quella pomeridiana e quella notturna.
Chi invece fino a qualche settimana fa il nome di dio lo invocava solo nelle più colorite imprecazioni, ora anch’egli comincia a ravvedersi, e cerca conforto nell’altissimo, recitando qualche preghierina.
Chissà quanti rosari in chat! Appuntamento col tablet alle 18, e giù via di padrenostri e avemarie, come se non ci fosse un domani.
In televisione, il simpatico signore vestito di bianco dall’accento sud-americano compare immancabilmente ad ogni puntata, per infondere speranza, chiedere generosità e simili.
Posso solo immaginare cosa potrà accadere la prossima settimana con l’avvicinarsi dei rituali per celebrare la morte e la resurrezione di cristo…
Altri consumano le dita sfogliando il corano, e si prostrano nei corridoi di casa più volte al giorno sul tappetino rivolto alla mecca, chiedendo di essere risparmiati. Lunedì, mercoledì, domenica: tutti i giorni diventano venerdì.
E si percepiscono pure, nell’indistinto sussurro, brani di torah e ipnotiche formule, il namu amida butsu che sconfina in un suono primordiale di didgeridoo.
Tutti pregano.
E ognuno lo fa a modo suo.
Io ho smesso di evocare trinità e signore col manto azzurro molto tempo fa, quando ancora portavo i calzoni corti, con piena consapevolezza e, per ora almeno, non ho alcuna intenzione di affidarmi a qualcuno di intangibile in quell’ambito per avere conforto, anche se comprendo perfettamente le motivazione che spingono la stragrande maggioranza della popolazione sulla terra a farlo, in questa ‘originale’ primavera del 2020.
Tuttavia, ogni tanto, anch’io mi presto a qualche riflessione che tenta di andare oltre la mera quotidianeità. L’ho fatto nel passato, e anche in queste settimane, qualche volta, ho lasciato che il mio pensiero vagasse oltre la straordinaria banalità di un caffé, di una sigaretta o di una porta che cigola fastidiosamente.
Ho pensato a chi, secondo me, potrebbe salvarmi, l’ho trovato e a lui mi sono rivolto.
Il drago!
La creatura più potente che ci sia, l’essere più benevolo che vaghi tra terra, cielo e mare, a dispetto delle sue sembianze non proprio rassicuranti, con quel poderoso corpo di serpente ricoperto di squame, le zampe con gli artigli più acuminati che si possa immaginare, la testa allungata coi denti affilatissimi, i corni contorti sul capo.
Quello a cui mi rivolgo non è ovviamente il drago di San Giorgio, che è stato ritratto come il più terribile degli animali, un mostro simbolo del demonio, e meritevole solo di atroce morte per mano del santo salvatore di pulzelle reali.
Il mio drago è quello cinese, che è invece un gigante buono, la cui apparizione sulla terra è auspicio di prosperità, lui che porta con sé l’acqua, indispensabile per la vita. Fortunato il sovrano che governerà con la benedizione del drago, il popolo lo acclamerà come legislatore imparziale.
Ora, mi sono chiesto, se chi invoca santi e spiriti santi spesso lo fa al cospetto di un’immagine sacra (un uomo biondo in volo tra le nuvole e attorniato da paffuti cherubi oppure un monaco seduto con le gambe incrociate su un fiore di loto e le mani in un gesto di rassicurazione), io che prego il drago che immagine potrei ammirare con gli occhi mentre il mio spirito ne invoca la protezione?
Non ho avuto dubbi, e la risposta a questa domanda è stata pressoché immediata.
I Nove Dragoni di Chen Rong.
Un’immagine sacra di inusitata potenza, nella quale ben nove dragoni si spingono oltre i più alti picchi montani per sfidare la stessa potenza del cielo, per poi dirigersi senza tregua verso le profondità più misteriose degli abissi marini. Con i loro corpi sinuosi si destreggiano con movimenti arcaici tra nuvole che si accumulano in vorticose spirali e e immense masse d’acqua che si ergono come strali saettanti, in un turbinio continuo di forze opposte ma complementari.
Il rotolo di Chen Rong non raffigura uno stesso dragone in nove momenti della sua divina sfuriata tra cielo e mare, bensì i nove tipi di drago che ricorrono nella mitologia, ognuno ben riconoscibile dagli altri per alcuni specifici attributi. D’altronde, è cosa nota che il nove sia numero di buon auspicio per la cultura cinese. Il nove e i suoi multipli sono una costante nella geomanzia, e di conseguenza in molti ambiti della vita quotidiana di quel popolo si fa riferimento a questo numero come augurio di immortalità.
Quando invoco il drago e ho davanti a me l’immagine sacra di Chen Rong mi trovo dunque al cospetto non di una sola divinità bensì davanti a ben nove dei, a ognuno dei quali rispettosamente chiedo indulgenza.
Nel colophon che appose su questa sua opera, Chen Rong (1189-1268) scrisse: “Ho dipinto questa immagine di nove draghi, e la preziosità che è scaturita dalla punta del mio pennello non si può trovare altrove nel mondo. A osservarlo, sembra quasi che le nuvole e le onde siano realmente volando e scrosciando. A vederlo da vicino, a qualcuno potrà sembrare che non uomo bensì solo un dio abbia potuto dipingere questi dragoni”.
Altissima considerazione di se stesso?
Grossolana superbia?
O forse, c’è qualcosa di vero?
Si tramanda che Chen Rong in quel fatidico 1244 in cui realizzò quest’opera, alla fine dell’ultima e tormentatissima sessione per completarla, tra i mirabolanti tratteggi e le fenomenali velature di inchiostro e tenui colori che si svolgono su oltre dieci metri di lunghezza di superficie pittorica, si risvegliasse come da una sorta di trance in cui era stato catapultato dal momento in cui aveva iniziato a dipingerla. A chi lo incontrava appariva strano, in stato confusionale. Continuava a bisbigliare parole non del tutto comprensibili, raccontando che egli non era l’autore di quell’opera. Aveva solo offerto la sua mano e il suo pennello al drago, che lo aveva guidato istante per istante perché il dipinto raggiungesse la qualità per diventare un’icona imperitura. E così è stato.
Se qualcuno, di questi tempi, fermandosi ad ascoltare quel perenne bisbiglio che racchiude tutte le invocazioni del mondo, riconoscesse anche la preghiera al drago, sappia che io, ogni tanto, la recito. Aspettando di vederlo comparire, tra i nembi, in questa primavera in tutto ‘originale’.
Questo sito è davvero interessante, grazie per la condivisione di queste pubblicazioni. Non ho avuto modo di conoscere personalmente il dott. Morena, nonostante ho lavorato presso la casa d’aste Bertolami Fine art di Roma, ma ho la passione per l’arte giapponese e cinese e in particolare per la storia della lavorazione dei materiali eburnei, che ho iniziato a studiare con il dott. Moroni.
Saluto cordialmente,
EB