Giappone, Edo, marzo del 1836.
La città, i suoi abitanti, l’intero paese, sono allo stremo.
Sono infatti ormai trascorsi quasi tre anni dall’inizio della devastazione.
La carestia. Il virus della carestia.
La gente muore di fame, sola, il pianto dei bambini echeggia senza sosta nelle strade deserte, ai bordi delle quali si accumulano i resti purulenti del nulla. Chi ha energie a sufficienza protesta, anche violentemente.
Alla fame si aggiungono quindi feroci rivolte, e il sangue comincia a scorrere. Chi ha qualcosa è il bersaglio di chi non ha nulla, di chi non ha null’altro da perdere. Una ciotola di riso può scatenare l’inferno, e si susseguono le uccisioni per motivi banali, se banale può dirsi quel vuoto che sconquassa lo stomaco, senza sosta, senza pietà.
Un vecchio, di età veneranda per quei tempi, si aggira solitario per le vie del quartiere Honjō, dove abita. Non ha nulla da temere: non cerca nulla e non ha nulla. Qualcuno incrociandolo lo riconosce per quello che è, il più grande artista vivente, Hokusai, “il vecchio pazzo per la pittura”. Ma a che serve ora quella fama, a che serve ora l’ammirazione altrui? Ora, che gli editori hanno tutti serrato le proprie botteghe, ora che leggere e concedersi l’acquisto di una stampa è un lusso riservato a pochissimi, a che serve ora essere Hokusai? Il Maestro non si pone però queste domande, troppo ingabbiate nella contingenza di un momento, che passerà, lui lo sa perché ne ha passate tante altre di situazioni di disagio nella sua lunga vita, successi e sacrifici, tanti sacrifici. A lui preoccupa solo ed esclusivamente un minimo, minimale sostentamento che gli consenta di poter continuare a disegnare, nonostante tutto, nonostante la fame, nonostante una società che è allo sfascio.
Disegnare, disegnare, disegnare.
Non gli importa neanche di subire quella che altri considererebbero un’umiliazione. Non gli importa, e giornalmente si sistema al bordo della viuzza in cui abita, disegna e vende per pochi spiccioli i suoi disegni a chi possa permetterseli. Lui, che ha lavorato per i più grandi editori, lui che ha anche guadagnato ma non ha avuto l’acume di mettere da parte un tanto dei suoi proventi. Troppo impegnato com’era a disegnare, troppo preso com’era da quella smania di trascrivere con il pennello sulla carta le sue emozioni, aveva dovuto affrontare la carestia senza alcuna protezione potendo – ancora una volta – contare solamente su stesso, e sul proprio talento.
L’anima del mondo, Hokusai e il pennello.
Una cosa sola.
È leggendaria la reazione di Hokusai al violento incendio che lo colse impreparato a casa sua una infausta notte del 1839. Tutto avvenne nel volgere di pochissimi minuti. Nel Giappone antico, nel quale le case era tutte invariabilmente costruite con il solo ausilio di carta e legno, un incendio poteva propagarsi violentemente in pochissimo tempo, distruggendo interi agglomerati urbani con la furia di uno tsunami, ai quali pure il popolo giapponese è tristemente abituato. Nel sonno, Hokusai si rese conto appena in tempo di quello che stava accadendo, prima che le fiamme lo inghiottissero con la furia della bocca di un vulcano. Le lingue di fuoco stavano già risucchiando il suo umile alloggio, quando egli si trovò a risolvere un quesito che non prevedeva esitazioni. Cosa salvare, oltre alla pelle? Le centinaia di opere che aveva accumulato nel corso degli anni e che portava sempre con sé ovunque? Oppure cosa? Hokusai non ebbe tentennamenti. Afferrò i suoi pennelli, uscì in fretta da casa e lasciò che tutto il resto diventasse polvere. I pennelli. La vera sua salvezza, altro che fiamme. L’unico strumento che conoscesse per poter sopravvivere.
Disegnare per vivere, vivere per disegnare.
Per Hokusai questa coincidenza tra arte e vita è un vero e proprio mantra, la ragione suprema. Superata la carestia e dopo il miracolo dell’incendio, finalmente le cose cominciarono a mettersi meglio, anche per Hokusai. Tuttavia, qualcosa continuava imperterrita a incombere, che né la fine di un’emergenza né la fortuna potevano tenere lontano. Hokusai era nato nel 1760, e all’epoca di questi fatti aveva già raggiunto gli ottanta anni. Un’età che era una meta che solo in pochissimi riuscivano a raggiungere a quell’epoca. Hokusai ne era consapevole, così come sapeva che prima o poi il momento fatale sarebbe giunto, non aveva scampo. Più di tutto, gli dispiaceva che l’epilogo avrebbe segnato naturalmente anche la fine della sua pratica quotidiana. Disegnare per vivere, ma anche disegnare per imparare, per migliorarsi. Lui, però, non si arrendeva. La sua mente era lucida nonostante l’età, la sua mano ferma, nonostante gli acciacchi della vecchiaia, il suo spirito vivo come non mai.
Questa sua condizione privilegiata, egli l’esterna come meglio non si potrebbe, questa sua voglia di non arrendersi, in suo celebre autoritratto conservato presso il Museo di Leida, che è in realtà un’illustrazione a margine di una lettera inviata ad un editore nella quale acconsente alla pubblicazione di suoi vecchi disegni, nonostante egli li consideri ormai immaturi. Il corpo è quello di un uomo malandato per l’età, le mani rattrappite ma salde, quella destra sollevata a indicare in un punto che non si può precisare, ahinoi!, sul capo pochi capelli scomposti, il volto segnato da rughe profonde come solchi nella terra, gli occhietti in un incavo profondo che quasi sembra chiudersi in se stesso. Un sorriso, però, lieve, ma convinto, che parla di consapevolezza e gioia, la felicità di esserci.
In quella fase di pensieri lugubri, non si perse quindi d’animo. Chiamò in aiuto lo shishi, il “leone cinese”, quell’animale mitologico che è parte integrante della cultura tradizionale di tutta l’Asia orientale, protettore della Legge buddhista contro le influenze malefiche ed emblema di forza, perseveranza e coraggio. A partire dalla fine del 1842 e fino a tutto il 1844, Hokusai si impose di disegnare ogni giorno, tutti i giorni per oltre due anni, uno shishi, apponendo su ognuno dei fogli la data in cui l’aveva eseguito. Un vero e proprio esercizio spirituale, un gesto apotropaico con il quale voleva tenere lontana la malattia, il decadimento fisico e mentale. La morte.
Chiamo questa pratica “Esorcismi quotidiani” (Nisshinjoma), e vi si dedicò costantemente tutte le mattine di quel biennio. A guardare alcuni di questi straordinari ex voto, si percepisce chiaramente la profonda umanizzazione degli animali. Non si tratta di leoni, bensì dello stesso Hokusai che si incarna in un simbolo divino per sconfiggere il suo più temuto nemico. Hokusai vivrà ancora alcuni anni (morirà nel 1849). Non avrebbe potuto vincere questa sfida, troppo impari le armi del confronto.
Tuttavia, una sua piccola vittoria anche su questo fronte, Hokusai la ebbe. Riuscì a disegnare infatti fino all’ultimo giorno, fino all’ultima ora della sua vita straordinaria, donata per intero e con grande intensità all’arte. Non sappiamo se al suo fianco, nel momento del trapasso, vi fosse la saettante tigre che sembra sia stato l’ultimo dipinto che abbia realizzato, ma non è improbabile però che nei dintorni quel giorno si aggirasse anche uno shishi, pronto ancora una volta all’esorcismo quotidiano.