Riporto in questo articolo il testo di una chiacchierata che ho avuto la sera di venerdì 28 settembre con gli amici dell’Associazione Toscana Amatori Bonsai & Suiseki di Firenze (A.T.A.B.S.).

In questo intervento prenderò in considerazione alcuni aspetti della cultura giapponese, ma anche cinese, che hanno a che fare con l’arte del bonsai. Dalla predilezione di entrambe queste civiltà per la miniaturizzazione, che si può intendere al limite come creazione di un microcosmo che è trasposizione in piccolo del macrocosmo, all’allestimento degli spazi espositivi delle opere d’arte, tra cui anche le composizioni vegetali in vaso, nel periodo medioevale giapponese. Si tratta di spunti non omogenei che meriterebbero ognuno una propria più esauriente e documentata riflessione, che ognuno di voi potrà poi intraprendere per conto proprio.

L’intero cosmo in un vaso. Il penjing cinese come miniatura della Natura taoista
Anche chi come me non sia un ‘addetto ai lavori’, ammirando un bonsai, oltre a poterne apprezzare più o meno obbiettivamente il pregio, noterà immediatamente la sua più evidente caratteristica, ovvero le dimensioni ridotte. E insieme, la verosimiglianza che quella composizione vegetale in miniatura ha con la natura reale.

Bonsai con un boschetto di aceri giapponesi (momiji)

D’altronde, dalle sparute letture che ho fatto recentemente sull’argomento ‘bonsai‘, mi sembra di aver capito che uno degli scopi, forse il principale, di chi si dedica a quest’arte è proprio quello di riprodurre in piccolo le meraviglie della Natura. Pur esistendo infatti diverse scuole, ognuna con le proprie caratteristiche, alcune delle quali si distinguono per creazioni piuttosto originali; e nonostante esistano stili come quello cosiddetto ‘dei Letterati’, al quale appartengono bonsai che rispecchiano nelle forme più l’estro e la filosofia del loro creatore che la varietà naturale del mondo vegetale; nonostante queste specifiche, dunque, si può affermare che l’arte tradizionale del bonsai abbia come fine primo e ultimo la miniaturizzazione di una pianta oppure di uno scorcio di paesaggio.

Com’è noto, l’uso di educare le piante per ridurne le dimensioni in modo che

Dettaglio della pittura murale nella tomba del Principe Li Xian, 706 d.C.

possano essere contenute in un vaso ha origine in Cina (dov’è noto con il termine penjing, equivalente cinese di bonsai), ed è attestato per lo meno dall’inizio della dinastia Tang (617-907), epoca in cui il suo livello di perfezionamento era così alto che è legittimo ritenere che fosse praticato già in periodi precedenti. Ne è testimonianza il ritrovamento di raffigurazioni di composizioni in vaso su due particolari della pittura murale nella tomba del Principe Li Xian (653-684), sesto figlio dell’imperatore Gaozong (628-683) scoperta nel 1972 e databile al 706 d.C., anno in cui fu eretto in sua memoria un monumentale tumulo funerario a qualche decina di chilometri da Xian.
Un’altra fonte di poco successiva ricorda il governatore Li Teyu (787-849) che risiedeva nei dintorni della capitale Changhan. Già quando era in vita questo funzionario era famoso per la sua collezione di rarità naturali, soprattutto piante e rocce provenienti da tutto il mondo allora a lui conosciuto. Chi visitava la sua dimora la descriveva come un luogo paradisiaco; un giardino in cui si concentravano tutte le specie botaniche e minerali allora note. Il fine ultimo era dunque quello di ricreare in piccolo la varietà del mondo naturale, secondo un’idea di ‘Teatro del Mondo’ che avrebbe coinvolto anche i creatori di Kunstkammern (‘Camere delle Meraviglie’) nell’Europa del Cinquecento e del Seicento.
Tuttavia, il giardino di Li Teyu non era soltanto una riproduzione di specie viventi in natura; la sistemazione delle piante, la loro varietà e bellezza, lo facevano assomigliare piuttosto ad un luogo ideale, ed in particolare alla dimora degli immortali della tradizione daoista, la dottrina che si vuole fondata da Laozi, un personaggio misterioso che sembra sia vissuto nel VI-V secolo a.C., presunto autore del Daodejing (“Il Classico della Via e delle sue virtù”), testo di riferimento imprescindibile del Daoismo.

Yuan Jiang (attivo 1680-1730), L'isola col Monte Penglai, 1708. Taipei, Museo Nazionale.

E a questa visione, secondo la quale era certa l’esistenza sulla terra di un luogo misterioso e paradisiaco nel quale risedevano i saggi immortali del Daoismo, si rifecero senz’altro gli autori dei primi bonsai cinesi, e poi – per certi versi, come vedremo – anche gli autori giapponesi. Essi avevano probabilmente in mente il Monte Penglai (in giapponese Hōrai), una montagna su un isola immaginaria situata nei mari orientali. Sebbene nella provincia dello Shandong esista una città con lo stesso nome che molti tendono ad identificare con il luogo magico del Daoismo, il Monte Penglai resta un luogo dello spirito, della filosofia e dell’immaginario piuttosto che un luogo reale. Tant’è vero che nei secoli le proposte di identificare la sua vera ubicazione si sono succedute e, ad esempio, in Giappone in molti nel passato erano convinti che si trattasse in realtà del Monte Fuji.
A parte queste disquisizioni sul mito e sulla dottrina, la credenza che luoghi naturali come questi esistessero per davvero ha ispirato la creazione di numerose opere in diversi ambiti, sia in Cina sia in Giappone. Non da ultimo, s’è visto, la creazione di giardini che riproducessero in miniatura quei siti e di composizioni in vaso, che possono quindi considerarsi come ulteriori rimpicciolimenti degli stessi giardini.
Questa visione ideale della natura, e quindi del paesaggio, fu fatta propria soprattutto dall’élite della cultura cinese classica, ovvera quella classe di intellettuali, artisti ed esteti noti insieme come Letterati. Erano questi i reali governanti del paese, soprattutto nelle provincie lontane dal centro politico del paese. Versati nella letteratura e nella filosofia, essi si dedicavano costantemente allo studio dei classici della letteratura e alla pratica delle arti, della musica, della calligrafia e della pittura, magari godendosi il giardino della propria abitazione, concepito come ‘paradiso in miniatura’. Molti di loro senz’altro producevano anche composizioni in vaso.

Ni Zan (1301-1374), Paesaggio

In pittura, il soggetto prediletto era il paesaggio. Per stile e scelta di composizioni, solo raramente le pitture di paesaggio dei Letterati mostravano un riferimento preciso ad un luogo reale, bensì riproducevano vedute immaginarie, perfette, paradisiache, utilizzando prevalentemente l’inchiostro di china sul supporto di carta o di seta privo di qualsiasi preparazione. Lo sviluppo di questo genere pittorico, che ebbe i suoi esordi nel corso della dinastia Song (960-1279), perfezionato in quella Yuan (1279-1368), quindi ripreso e codificato durante le dinastie Ming (1368-1644) e Qing (1644-1911), ebbe senz’altro un’influenza radicale anche nella realizzazione di composizioni in vaso, e le similitudini formali sono numerose. Ma ancor di più sono le analogie tra la pittura di paesaggio dei Letterati e il bonsai se si ci si riferisce all’idea originaria, che si può dire comune, ovvero la riproduzione in miniatura di un luogo mitico e paradisiaco, prevalentemente di ambito daoista.

Dalla Cina al Giappone, dal penjing al bonsai, e vie di mezzo

Tutti questi fattori ‘cinesi’ contribuirono naturalmente alla nascita e alla diffusione dell’uso di realizzare composizioni in vaso in Giappone, ovvero gli esordi del bonsai. Come tutti sapete, non è noto precisamente come e quando questa pratica sia stata introdotta nell’arcipelago dal continente. E’ plausibile, per ragioni storiche più generali, che ciò avvenisse nel VII-VIII secolo, poiché allora i rapporti diretti tra Cina e Giappone erano frequentissimi. A quel tempo infatti, il Giappone – ormai riunificato sotto un unico dominio imperiale con mandato divino – prese a modello l’evoluta Cina dei Tang in molte delle sue manifestazioni, dalla struttura della burocrazia all’urbanistica, dalla scrittura all’architettura, dall’etichetta di corte alle pratiche religiose. Fu infatti in questo periodo che fu introdotto in Giappone dalla Cina e dalla Corea il Buddhismo, la dottrina filosofica di origini indiane che tanto profondamente avrebbe trasformato la cultura giapponese.

Saigyō monogatari emaki (“Rotolo del romanzo della vita di Saigyō”), prima metà del XIII secolo, dettaglio

Tuttavia, nonostante si possa ipotizzare che l’arte del bonsai fosse introdotta in quel periodo insieme a tutte quelle novità, non esistono a tutt’oggi dati certi a riguardo. E così, per avere una fonte grafica che sia testimonianza della diffusione del bonsai in Giappone bisognerà aspettare la fine del XII secolo-inizio del XIII, durante la cosiddetta epoca Kamakura (1185-1333). A quel tempo risale la realizzazione del Saigyō monogatari emaki (“Rotolo del romanzo della vita di Saigyō”), un rotolo orizzontale da ammirare svolgendolo una sezione per volta, nel quale si racconta la vita del monaco Saigyō (1118-1190), un aristocratico convertitosi che abbandonò la vita mondana per dedicarsi alla preghiera, alla meditazione e ai pellegrinaggi. Saigyō è ancora oggi molto noto per la sua vena poetica, e le sue composizioni sono contenute nelle maggiori antologie di poesia classica; è famoso anche per l’influenza che ebbe sulla vita e sulle opere di Matsuo Bashō (1644-1694). L’originale del rotolo con le vicende della sua vita, opera purtroppo incompleta e molto famosa soprattutto per chi si interessa di bonsai, è oggi suddiviso tra il Tokugawa Art Museum di Nagoya e il Manno Art Museum di Osaka. Nel particolare in cui compaiono, le due composizioni in vaso sono sistemate in un angolo della veranda di un tempio, all’interno del quale si vedono alcuni monaci dediti alla preghiera e allo studio.

Kasuga gongen genki emaki (“Rotolo delle reincarnazioni e dei miracoli al tempio Kasuga”), 1309. Inchiostro e colori su seta, particolare del 5° rotolo.

Di poco posteriore è anche la realizzazione dei venti rotoli che costituiscono il Kasuga gongen genki (“Reincarnazioni e miracoli al tempio Kasuga”). Completata nel 1309, è una delle rare pitture su rotolo di quel periodo realizzata su seta. Le composizioni in vaso sono situate nelle immediate vicinanze del camminamento verandato della residenza del governatore Fujiwara no Toshimori (1120-1180 circa), vissuto dunque in epoca Heian. Egli era deputato al servizio dell’imperatore in ritiro Go Shirakawa, compito che svolse fino al 1177, anno in cui si fece monaco buddhista. Conoscitore delle arti e fine esteta, Toshimori apprezzava dunque questo genere di composizione in vaso. Resta il dubbio se quelli raffigurati nel rotolo fossero proto-bonsai realizzati in Giappone, oppure di esemplari importati dalla Cina. A questa domanda non c’è possibilitàfino ad ora di dare risposta. Ma è certo che il modello era senz’altro cinese.

Ritratto di Hōnen (1133-1212)

Nonostante la residenza raffigurata nel dettaglio in cui compaiono le composizioni in vaso sia quella di un aristocratico, i rotoli del Kasuga gongen genki hanno intimamente a che fare con il sentimento religioso giapponese. Non solo Buddhismo, quindi, ma anche Shintoismo. Non va infatti dimenticato che il tempio Kasuga, fondato dai Fujiwara e oggi celebre per i suoi cervi sacri che vagano liberamente nel suo recinto, è dedicato ad alcune divinità dello Shintoismo. Tuttavia, è noto lo sforzo che i religiosi buddhisti operarono nell’VIII-IX secolo per inglobare lo Shintoismo nel Buddhismo. Il risultato è stato un sincretismo tra le due dottrine che ha lasciato visibili i suoi segni per tutta la storia a venire della civiltà giapponese. Nel Kasuga gongen genki, a dimostrazione di ciò, si raccontano anche le vicende della vita di Hōnen (1133-1212), il monaco che fondò la setta Jōdo, della Terra Pura, secondo la quale la salvezza poteva essere raggiunta attraverso la continua invocazione del Nome del Buddha Amida. Proprio a Hōnen la tradizione attribuisce la frase: “[la pratica] degli alberi in vaso può dominare la tua vita.”.
L’ambiente in cui sono collocati questi due rotoli è quindi buddhista-shintoista, e non daoista come ci si sarebbe aspettato conoscendo le evoluzioni cinesi della storia del bonsai. Questo dato di fatto consente di fare alcune riflessioni a proposito di quello che accadde in Giappone alla pratica in origine cinese di realizzare composizioni naturali in vaso in miniatura.

L’Illuminazione tra rami, foglie e terra. Lo Zen e il bonsai

Anche lo Zen fu introdotto in Giappone dalla Cina, dov’è noto come Chan. Benché fosse forse stato conosciuto anche in epoche precedenti, esso raggiunse una grande popolarità proprio tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo. Questo assunto si spiega facilmente con alcune considerazioni storiche. In primis, il governo nipponico verso la fine del IX secolo aveva deciso autonomamente di sospendere i rapporti fino a quel momento frequenti con la Cina: da una parte la dinastia Tang era allora in forte sofferenza politica, economica e sociale, le rivolte insanguinavano il paese e per tutti i viaggiatori stranieri recarsi in Cina costituiva un rischio molto grande; d’altra parte, dopo diversi decenni di assimilazione e rielaborazione, i giapponesi erano ormai consci del proprio grado di autonomia culturale per poter tentare di elaborare idee e progetti proprii. Così tutta la seconda parte del periodo Heian (794-1185), considerato il periodo ‘classico’ della storia giapponese, fu un’epoca di splendido e consapevole isolamento, durante il quale fiorirono modi culturali tipicamente nipponici.
Questa situazione, tuttavia, era però ancora una volta destinata a mutare. Con l’ascesa al potere sul finire del XII secolo delle gerarchie militari che nel 1192 avevano eletto per la prima volta uno shōgun, vi fu nuovamente un ritorno di ispirazione verso la Cina e la sua cultura. I militari ripresero contatto con l’impero continentale, assimilandone diverse forme culturali, grazie all’intermediazione di alcuni giapponesi che si erano recati in Cina per studio e grazie contemporaneamente all’arrivo di cinesi in Giappone. Tra quest’ultimi anche alcuni esponenti del Buddhismo che importarono nell’arcipelago i nuovi traguardi della dottrina. Tra questi lo Zen, che subito piacque ai militari per le sue specifiche caratteristiche, quali l’assenza di una rigida codificazione dottrinaria, la poca attenzione riservata all’estenuanti sedute di preghiera, l’importanza invece attribuita alla meditazione solitaria e, soprattutto, il rapporto di elezione che si instaura tra Maestro e discepoli, i quali ricevono dal primo gli insegnamenti direttamente, non per teorie ma per esempi pratici. Oltre a questo dello Zen ai samurai piacque anche la predilezione per la semplicità, per la sintesi, per la propensione ad un rapporto diretto con la natura.
Quest’ultima caratteristica ha certamente affinità con le linee guida della dottrina daoista. Daoismo che, sebbene e ovviamente noto ai giapponesi fin dai primi tempi in cui questi vennero a contatto con la cultura cinese, non avrebbe mai avuto la forza di attecchire tra i nipponici che alla fine ne inglobarono gli insegnamenti nelle larghe maglie della propria cultura non elevandolo però mai al rango di dottrina autonoma.
E’ noto però quale influenza abbia avuto proprio il Daoismo sull’elaborazione dei principi-guida della dottrina Zen, fin dalle sue origini. Solo per citare un punto di contatto tra Daoismo e Zen, che è però cruciale a entrambe le filosofie, si può ricordare che l’Illuminazione Zen (in giapponese satori) ha certe affinità generali con il percorso daoista per raggiungere l’immortalità. E’ bene ricordare però che se alcuni sono i punti di contatto, molte altre sono la differenze quando si tenti un confronto diretto tra Zen e Daoismo.

Ritratto di Kokan Shiren (1278-1346). Kyoto, tempio Kaizo-in (l'iscrizione è autografa del Maestro).

In ogni caso, in relazione all’arte del bonsai, argomento che qui ci riguarda, si può certamente affermare che essa – fin dalle origini – in Giappone fu connessa con lo Zen. E nell’ambito di questa dottrina essa ha raggiunto quel perfezionamento tecnico e, soprattutto, estetico-filosofico che ancora oggi guida la sua elaborazione. Il primo manuale sull’arte del bonseki, la variante ‘secca’ del bonsai, fu scritto da Kokan Shiren (1278-1346), un monaco Zen della setta Rinzai straordinariamente versato nella poesia e negli studi cinesi, che molta ispirazione trovò proprio nella cultura artistica dei Letterati cinesi di epoca Song. Celebre è la storia contenuta nel suo Bonseki no fu (“Tributo al bonseki”), nel quale il Maestro racconta la sua passione per le composizioni bonseki che gli permettevano di vivere le stesse sensazioni ricevute nell’allestimento di un giardino di grandi dimensioni, compiendo però uno sforzo fisico molto minore.
Ironia tipicamente giapponese!
Il bonsai in Giappone, dunque, fin dall’inizio si è legato alla cultura Zen, e mai più se ne è distaccato. Ancora oggi, in tutti i manuali – anche italiani – che trattano di bonsai, si fa riferimento allo Zen quale filosofia che dovrebbe guidare che si dedica a quest’arte. Con spirito Zen dovrebbe rapportarsi alla natura e alle sue manifestazioni, al modo di trattare ed educare la pianta, liberando il proprio spirito da ogni altro pensiero affinché esso, vuoto e perciò privo di ogni residuo di mondanità, possa aspirare al raggiungimento dell’Illuminazione. Con tali premesse si può ben dire che anche la pratica del bonsai è una Via verso l’autoperfezionamento assoluto. Ciò non contrasta in nulla con le teorie ‘non teorizzate’ dello Zen, che ha tramandato in più occasioni la memoria di episodi di Illuminazione sopraggiunta cimentandosi in attività in apparenza molto umili e insignificanti, come spazzare il selciato del tempio.
Se l’atto pratico di prendersi cura di una pianta ben si inserisce nei suggerimenti della filosofia Zen, il bonsai rientra perfettamente nel suo abbraccio anche per la sua più specifica caratteristica formale, ovvero le sue dimensioni ridotte.
Uno dei principi estetici e filosofici che più caratterizza lo Zen, s’è accennato anche prima, è la sua predilezione per la sintesi. Questo principio appare evidentemente in molti aspetti della cultura Zen, anche in quelli materiali, tra i quali possiamo inserire l’arte e l’architettura.
Prendiamo ad esempio la pittura, alla quale si sono dedicati nel passato molti monaci buddhisti, che l’hanno considerata come mezzo d’elezione per raggiungere la simbiosi con il principio divino, e quindi l’Illuminazione. La pittura Zen, in gran parte delle sue manifestazioni, è essenzialmente sintesi. Una sintesi che, dall’ambito dei concetti (ovvero, io pittore scelgo di trattare un soggetto nella mia opera e lo faccio operando nella maniera più sintetica, eliminando a priori ogni fronzolo che non sia necessario alla composizione o, più precisamente, alla resa del tema prescelto), si esplica anche negli aspetti tecnici, ovvero la scelta di privilegiare il solo inchiostro di china e di ridurre al minimo indispensabile il numero di tratti, facendo quindi in modo che insieme ai ‘pieni’ risaltino dall’insieme anche i ‘vuoti’, ovvero quella superficie di spazio non ‘toccata’ dal pennello che, nonostante ciò, è parte attiva e irrinunciabile della composizione.

Hakuin Ekaku (1686-1769), Ensō

Per questo, a detta di moltissimi il soggetto che in pittura meglio rappresenta la filosofia e l’estetica buddhista è quello dell’Ensō, ovvero il cerchio. Dal punto di vista dei concetti, esso è sintesi estrema, poiché la sua forma, pur semplicissima, minimale, racchiude al contrario tutti i significati, tutte le sfumature, tutti gli opposti, che riguardano la vita di tutti gli uomini e, contemporaneamente, tutti gli infiniti aspetti del Divino. Ma l’Ensō è sintesi al limite del paradossale anche dal punto di vista tecnico-artistico, poiché esso si costituisce nella stragrande maggioranza dei casi, salvo eccezioni, di un’unica linea continua che forma una circonferenza che spesso è frutto di una singola pennellata, di un’unico gesto. Uno, uno, uno. Ovvero la perfezione dell’Uno indissolubile che racchiude in se stesso l’intera molteplicità.
Questo dosaggio calibrato dei tratti di pennello, questa parsimonia nell’uso dell’inchiostro, l’alternanza equilibrata dei ‘vuoti’ e dei ‘pieni’, queste caratteristiche si ritrovano in tutta la pittura Zen del periodo Muromachi, non soltanto in quella con soggetti piuttosto ‘astratti’ come gli Ensō. Esse risultano essere fondanti anche nella pittura di paesaggio, che ebbe un grande sviluppo a quei tempi anche in Giappone, quale riflesso della grande ammirazione che gli artisti giapponesi avevano nei confronti della cultura artistica cinese, in particolare di quella dei Letterati.

Sesshū (1420-1506), “Rotolo lungo delle quattro stagioni”, particolare con la Primavera,1486.

Il più grande paesaggista giapponese, e più in generale uno degli autori più acclamati nell’intera storia dell’arte dell’arcipelago, è stato senz’altro Sesshū Tōyō (1420-1506). I suoi numerosi capolavori, pur denotando una fortissima influenza da parte della pittura cinese, che Sesshū ebbe anche occasione di studiare durante un lungo soggiorno sul continente, esprimono una ‘giapponesità’ evidente, segno incontrovertibile che egli trasse ispirazione direttamente dalla natura circostante, secondo un metodo che egli stesso affermò in più occasioni di utilizzare. Nonostante quindi le analogie con la pittura cinese, i paesaggi di Sesshū si caratterizzano molto spesso per uno spirito giapponese. Inconfondibile è anche la tecnica pittorica usata dal maestro, fatta di piccoli tratti decisi e pregnanti appaiati a rendere la composizione, spesso accompagnati da lievi stesure di colore.
Ammirando questa sezione del suo celebre “Rotolo lungo delle quattro stagioni”, capolavoro del 1486, si può oltretutto notare quanto stretto sia il legame tra la pittura di paesaggio tradizionale e l’arte del bonsai. Com’era successo in Cina nei secoli precedenti, allorché la pittura dei Letterati influenzava evidentemente la creazione di penjing, così in Giappone si creò un certo legame estetico tra pittura Zen e bonsai.

Questa predilezione per la sintesi è evidente in molti altri fenomeni legati allo Zen, e di ciò ho dato conto nel mio saggio intitolato Il mondo in miniatura. Ovvero il gusto della riduzione nella cultura e nelle arti del Giappone, che compare nella catalogo della mostra di Linea e di Colore. Il Giappone, le sue arti e l’incontro con l’Occidente, tenutasi a Firenze nella scorsa primavera. Dalla poesia al teatro Nō, dalle arti marziali alla Cerimonia del té, e in molti altri ancora. Come specificato nel titolo che allora scelsi, in Giappone la miniaturizzazione va spesso a braccetto con la riduzione. Se all’apparenza questi due fenomeni, miniaturizzazione e riduzione, non sono la stessa cosa, tuttavia entrambi si possono ricondurre ad un unico aspetto, ovvero quella ricerca di sintesi che, s’è detto più volte, è uno delle più pregnanti caratteristiche della cultura Zen.

Sala da Tè Dōjinsai, nel Ginkakuji di Kyoto, 1486.

Per spiegare questo fenomeno prenderò in quest’occasione ad esempio la chashitsu, ovvero la tradizionale Stanza del Tè, luogo nel quale si svolge la ben nota Cerimonia del Tè (chanoyu), uno dei traguardi culturali ed estetici più alti che la cultura giapponese abbia concepito nella sua millenaria storia, fortissimamente imbevuta dei principii della dottrina Zen.
Tutto nella Stanza del Tè è sintesi e riduzione. A partire dalle sue dimensioni, che raggiungono nella superficie calpestabile appena sei metri, ovvero lo spazio per contenere sei tatami e mezzo. “Così teorizzò il Maestro Murata Jukō (1422-1502) verso la fine del XV secolo. Fu lui stesso a concepire la più antica di queste sale, il Dōjinsai del Ginkakuji di Kyoto, realizzata per lo shōgun Ashikaga Yoshimasa (1435-1490). In questi piccoli spazi si riunivano alcune persone selezionate con cura dall’ospite per partecipare ad un’altissima esperienza estetica e spirituale. Dall’ambientazione esterna, con il vialetto lastricato con cura e il piccolissimo giardino sistemato nei minimi dettagli, alla porticina d’ingresso (nijiriguchi), che è talmente piccola da costringere gli ospiti a genuflettersi per attraversarla, in segno di umiltà; dalla posizione rannicchiata eppur solenne assunta dai partecipanti alle minuscole e fantasiose porzioni di cibo kaiseki che viene servito per accompagnare la densa bevanda verde: tutto nella Cerimonia del Tè ha le dimensioni dell’intimità. Anche i movimenti delle persone, affettati e controllati, riecheggiano in piccolo la grandiosità della Natura, gli spazi estremi dell’universalità.” (cito me stesso nell’articolo al quale facevo riferimento più sopra).
L’interno della Stanza del Tè è praticamente spoglio. Le pareti interne sono nude, sebbene il legno sia costantemente levigato, alla perfezione. A terra trovano spazio, oltre agli ospiti, solo gli strumenti necessari alla Cerimonia, tra bollitori, mestoli, tazze e strofinacci, anch’essi scelti avendo cura che abbiano caratteristiche di semplicità. Alle pareti non è appeso nulla. Unica eccezione un rotolo verticale con una pittura oppure con una calligrafia sistemato all’interno della nicchia rialzata tokonoma, il luogo cruciale dell’intero ambiente. Ai piedi del rotolo trova posto solitamente un vaso con un fiore o una composizione ikebana. Oppure un bonsai. Soggetto della pittura e della calligrafia, tipo di fiori o bonsai sono scelti non casualmente, bensì tenendo presente la stagione dell’anno e, insieme, la predisposizione spirituale dell’ospite.
Considerando questi dati, si può comprendere quale ruolo svolga il processo di sintesi, di riduzione e di miniaturizzazione nell’estetica della Cerimonia del Tè che, s’è detto sopra, è certamente espressione più alta e sofisticata dell’estetica Zen.

Noticine sulle regole di esposizione come tramandato in alcuni manuali di epoca Muromachi

La sistemazione del tokonoma, tuttavia, non è frutto solamente della scelta del ‘padrone di casa’. Essa invece risponde ad alcuni principii che furono codificati già in tempi molto antichi, per lo meno nel periodo Muromachi (1333-1573). Nei secoli successivi, nonostante le ovvie evoluzioni in linea con i cambiamenti di gusto, tali suggerimenti rimasero la base estetica alla quale fare sempre riferimento.

Boki e-kotoba (“Biografia illustrata del monaco Kakunyo”), 1482. Kyoto, Nishi Hongan-ji

Una immagine del periodo Muromachi che ben esemplifica la maniera in cui era organizzato lo spazio ‘sacro’ del tokonoma è quella che compare in un dettaglio del Boki e-kotoba (“Biografia illustrata del monaco Kakunyo”), rotolo orizzontale del 1482 conservato nel tempio Nishi Hongan-ji di Kyoto. Si vede benissimo lo spazio rialzato all’interno della piccola camera che si affaccia direttamente sul giardino. Al suo interno, sulla parete già decorata con una composizione di pini, è sistemato secondo il costume un rotolo verticale (kakejiku) con una composizione di rami fioriti; in basso, un vaso a sezione circolare in bronzo contenete una composizione di ikebana. In questo esempio, nel tokonoma compare dunque un vaso con fiori e non un bonsai, ma possiamo immaginare che, forse già a quei tempi, oppure in periodi successivi, esso sia stato sostituito in certe occasioni da un albero in miniatura oppure da un bonseki. Non si può non notare però che nella stessa composizione un bonsai compare, e in tutta la sua bellezza. Esso è però sistemato nel giardino adiacente al tempio, posizionato in bella vista su un basamento leggero costituito da fusti di bambù che sorregge il contenitore: l’albero in miniatura è un pino, affiancato da rocce dalle forme bizzarre.

“Rotolo illustrato con consigli per l'esposizione nella stanza da ricevimento” (Zashiki kazari emaki), 1522.

Simili riflessioni si possono fare anche riguardo al “Rotolo illustrato con consigli per l’esposizione nella stanza da ricevimento” (Zashiki kazari emaki) del 1522. Vi si danno consigli per il corretto allestimento della Camera di Ricevimento, che dovrà seguire precise regole in base alla stagione dell’anno. Come si vede dalla sezione qui mostrata la parte principale del tokonoma prevedeva quindi a quel tempo il posizionamento del rotolo verticale, davanti al quale si sistemava un vaso con fiori. Anche in questo caso compare un bonsai, o meglio una più complessa composizione vegetale in vaso, che però non occupa la parte principale del tokonoma, bensì, il piano inferiore di una scaffalatura laterale; a destra in basso, inoltre, si vede bene anche un bonseki.
Il primo manuale per la giusta disposizione degli oggetti artistici è il Kundaikan sōchōki (“Memorie di allestimenti nella Sala di ricevimento dello shōgun”) che si pensa sia stato compilato da Nōami (1397-1471).

Nōami (1397-1471), Kundaikan sōchōki (“Memorie di allestimenti nella Sala di ricevimento dello shōgun”).

Nōami era un monaco buddhista della setta Ji fondata dal monaco Ippen Shōnin (1239-1289): tuttavia, a parte il capo raso all’uso dei monaci, egli vestiva abiti colorati e non neri e portava al fianco la spada. Si può quindi affermare che fosse un monaco molto laicizzato. Nōami fu un abilissimo pittore nello stile cinese dei Song e degli Yuan che fu al servizio degli shōgun Yoshinara e Yoshimasa come responsabile della loro collezione di oggetti d’arte provenienti dalla Cina. Il  Kundaikan sōchōki, che fu poi completato dal nipote Sōami (?-1525), il quale svolse le stesse funzioni del nonno, si compone di tre parti distinte: nella prima si dà conto della collezione di dipinti cinesi; nella seconda si formalizzano le regole per l’esposizione; mentre nella terza si commentano gli altri oggetti cinesi della collezione, tra quelli che potevano poi essere esposti in quella sala importante della residenza dello shōgun. Nel primo dei due particolari che qui si mostrano si nota chiaramente la presenza di composizioni in vaso.
Quello che immediatamente si percepisce analizzando anche superficialmente il Kundaikan sōchōki è che all’epoca gli oggetti ritenuti di maggior valore erano quelli cinesi. Si può dunque supporre che anche la pratica di invasare piante oppure quella dell’esposizione dei fiori si facesse rientrare tra quelle di origini cinesi. Nel volgere di pochi anni, però, alcuni tra i maggiori esteti giapponesi espressero a viva voce la loro convinzione che agli oggetti cinesi si potessero affiancare anche quelli giapponesi. Ne era convinto ad esempio Murata Shukō (1423-1502), che in un brano del suo Kokoro no shi no isshi (“Una pagina dal Maestro dello Spirito”) scrisse che proprio la Cerimonia del Tè, così imbevuta di estetica Zen, poteva “ offuscare i confini tra Giappone e Cina”.
Da allora, grazie all’opera di alcuni eminenti studiosi, artisti, e filosofi, prese piede sempre più vigorosamente un’estetica più puramente giapponese, nonostante i karamono, ovvero gli “oggetti cinesi” rimanessero sempre un modello al quale far riferimento.

Hishikawa Moronobu (?-1694), “Scena di piacere in una stanza di ricevimento” (Zashiki yukyo), dalla serie “Aspetti dello Yoshiwara” (Yoshiwara no tei), 1681-1684

Questo per quanto riguarda essenzialmente la classe samuraica, anche se si può affermare con un certo grado di certezza (nonostante una certa carenza di fonti grafiche sull’argomento) che anche quella mercantile – che dominò molti aspetti della cultura del periodo Edo (1615-1868) – cercasse di imitare gli usi e i costumi di quella militare. Si veda ad esempio l’interno che compare nel foglio di Hishikawa Moronobu (?-1694), raffigurante una “Scena di piacere in una stanza di ricevimento” (Zashiki yukyo), dalla serie “Aspetti dello Yoshiwara” (Yoshiwara no tei), del 1681-1684. Lo Yoshiwara era il Quartiere dei divertimenti di Edo, l’attuale Tokyo, frequentato prevalentemente dalla nuova e ricca borghesia della città. Nell’ambiente si vedono dunque delle porte scorrevoli, decorate all’interno con un paesaggio e all’esterno con una composizione di ventagli. In alto, in prospettiva, la parte inferiore del tokonoma con un vaso con un fiore al centro e due oggetti sul piano. Se non sapessimo che si tratta di un ambiente ubicato nello Yoshiwara, e se non comparissero quelle figure rappresentanti della classe borghese, esso si potrebbe certo confondere con un ambiente della classe samuraica, del XVII secolo, ma certamente ispirato a modelli più antichi, di cui ho già detto prima.
Quindi, al tempo in cui Moronobu fu attivo l’estetica Zen era ormai un patrimonio diffuso dell’intera società giapponese, e non riguardava – come alle origini della sua introduzione – una ristretta élite sociale di militari, monaci e governanti. Alcuni suoi principii avrebbero perciò intriso il quotidiano del Giappone, e tra questi la sua predilezione per la sintesi e la riduzione.
E a questi principii estetici si sarebbero rifatti anche gli artisti del bonsai che ricercano, attraverso l’educazione e la cura di una semplice pianta, la Via per raggiungere l’Illuminazione, o quanto meno un sistema che consenta una migliore conoscenza di se stessi per poter così vivere meglio con gli altri.