Ermitage è sinonimo di cultura, arte, bellezza.
Il contenitore, ovvero i palazzi che custodiscono quei tesori noti universalmente, è già un capolavoro. Gli edifici che formano l’Ermitage sono infatti magnifici, a partire dall’imponente Palazzo d’Inverno che, con i suoi toni verdolino-bianco, spicca ammirandolo dalla Neva, soprattutto dall’isoletta sull’altra sponda, dov’è la Fortezza di Pietro e Paolo.
Le collezioni dell’Ermitage sono eccezionali, tutti lo sanno. Lo sono per qualità e quantità. Spaziano nel tempo, dall’alba dell’umanità fino all’altro ieri, per così dire, e molte delle opere sono tra quelle che a guardarle spesso si esclama: “Ma io questa la conosco!”. Dall’Egitto delle dinastie ai capolavori del Rinascimento italiano, dagli affreschi sogdiani dell’VIII secolo alla pittura drammatica (per spessore e scarnificazione) di Rembrandt, dai marmi tremuli delle epoche romana e ellenistica alle levigature morbide, tattili di Canova (le Tre grazie sono un vertice di commovente erotismo). Questo e molto altro, non dimenticando ovviamente l’opulenza zarina, un tripudio di sofisticatezza italiana, grandezza francese e magnificenza ottomana, in sintesi ‘stile russo’.
La visita a questo luogo magico richiede senz’altro una giornata intera, almeno le ore che il museo resta aperto, dalla 10 alle 18. Otto ore durante le quali passeggiare tra le fantastiche sale, soffermandosi solo brevemente davanti a quelle opere che maggiormente emozionano ognuno di noi. Sarebbe necessario avere a disposizione cento pagine di libro e un mese di tempo per scrivere con una certa completezza di questo scrigno della bellezza e della conoscenza, ma in quest’occasione cercherò di essere breve, invitando comunque senz’altro alla visita.
Voglio però fare alcune riflessioni generali, prima di accennare alle raccolte di arte cinese e giapponese, che anche quelle culture sono rappresentate all’Ermitage. Io ero a San Pietroburgo nel periodo tra la fine di giugno e l’inizio di luglio. Il clima era fantastico, caldo ma non opprimente, grazie anche alla brezzolina marina che costantemente si intrufolava tra i palazzi della città. Era il periodo delle cosiddette ‘notti bianche’, durante il quale l’oscurità della notte non compare mai in tutta la sua profondità, lasciando che tra le undici di sera e le sei del mattino regni sovrana una luce crepuscolare. Giorni nei quali, sembra, molti tra i pietroburghesi non riescono proprio ad addormentarsi preferendo vivere in pieno la città e l’atmosfera che l’avvolge. I bar e i locali sono sempre pieni, la birra e la vodka ‘scorrono a fiumi’, e non è un linguaggio metaforico, anzi. I turisti non mancano in questo periodo, sia russi sia stranieri. Li si vede aggirarsi dappertutto, soprattutto a gruppi. Già, i famigerati gruppi. E dove pensate che questi gruppi vadano a trascorrere la giornata di domenica 1° luglio?
All’Ermitage, naturalmente…
I palazzi di questo mastodontico museo, l’ho scritto, sono enormi e possono così accogliere grandi quantità di visitatori, tra i quali prevalgono, ahime!, i gruppi, per l’appunto. Già all’accesso si vedono file pazienti e chilometriche code (meno male che la Arapova m’ha fornito di pass privilegiato…), così che l’interno è affollato fino all’inverosimile. Ti accorgi della presenza di un capolavoro dall’assembramento. Nei pressi dei due capolavori di Leonardo c’era folla come a un concerto di Madonna. Tutti lì, per un lungo, interminabile istante, a incodarsi e fare foto (che quelle sono permesse, ma guai a provare a farne una nelle sale delle esposizioni temporanee: in men che non si dica una solerte, tostissima custode verrà a minacciarvi di sequestro della macchina fotografica, con modi in stile KGB…). Così accade anche nella sala con i quadri di Van Gogh. Molta gente, poco spazio, spintarelle, diffuso rintronamento. In una parola: noia. E poi, lo sapete, li amo, non posso vivere senza di loro, ma in questo genere di occasioni un popolo si distingue, in negativo, tra tutti: quello cinese. Arrivano chiassosi, spesso noncuranti del resto di umanità tra cui si inseriscono, si piazzano lì e non vogliono saperne più degli altri e dei loro diritti.
Insomma, il periodo in cui l’ho visto io, in più giorni, non è il migliore per visitare l’Ermitage con tranquillità, l’avrete capito. Sarà meglio, credo senz’altro, a febbraio, ad esempio. Ma così è stato per me, ed è andata bene lo stesso.
Le raccolte di arte estremo-orientale si trovano al terzo piano, appena di seguito alla bellissima collezione di pittura europea del XIX-XX secolo (Matisse è un artista superbo, e non lo scopro io ovviamente). Scrivo subito, per chiarezza, che la qualità degli oggetti cinesi, giapponesi, indiani e del sud-est asiatico dell’Ermitage non è al livello delle altre sezioni. Per spendere alcuni righi in particolare sulla Cina e sul Giappone, si tratta di poche sale, cinque per l’esattezza. In una delle due dedicate alla Cina si vedono alcune lacche di un certo prestigio, tutte della dinastia Qing (1644-1911), tra cui un completo da altare di tre pezzi, una bella scatola a sezione circolare del periodo Qianlong (regno 1736-1795) e un interessante versatoio Kangxi (regno 1662-1722) rivestito di lacca burgauté. Nella stessa sala sono esposti anche alcuni mobili cinesi del XIX secolo, oltre a tre mobiletti inglesi laccati e decorati a scene di chinoiserie. Nell’altra ampia sala dedicata all’arte cinese sono in mostra porcellane ‘da esportazione’, un gigantesco paravento Coromandel, intagli in legno e bambù, oggetti in bronzo, ancora mobili, la spettacolare coppia di giganteschi elefanti ornati a cloisonné, proveniente con ogni probabilità dal Palazzo Imperiale di Pechino, e un monumentale dipinto di Huang Shen (1687-1772 circa), uno degli ‘Otto eccentrici’ di Yangzhou, raffigurante tre personaggi della dottrina taoista. Si passa poi nella prima sala dedicata al Giappone, con lacche, metalli, cloisonné, okimono in avorio e, soprattutto, un gruppo notevole di netsuke. Chi li ama sa che non sono moltissimi i musei che mettono in mostra questi tesori in miniatura: vederli e gioirne all’Ermitage è un fatto inaspettato ma di grande soddisfazione.
Nella piccola sala che segue, ancora Giappone; una vetrina per l’arte legata al Buddhismo, altre per armature da samurai e armi di vario tipo (con annesse tsuba), quindi oggetti per la Cerimonia del Té (chanoyu); alcuni dipinti, tra cui certi di soggetto buddhista abbastanza interessanti (del periodo Muromachi, 1333-1573), altri invece di epoca Meiji (1868-1912), discutibili. Nell’ultima saletta, una piccola esposizione temporanea con una dozzina di surimono (xilografie commemorative, di committenza privata e solitamente di grandissima qualità) appena restaurati, maschere e un costume del teatro Nō, un grande vaso di stile Satsuma e un interessante rotolo orizzontale (emakimono) del XVIII secolo raffigurante danze Kagura.
In sintesi, un allestimento carino ma non memorabile per qualità dei manufatti, nononstante la grandiosità di tale contenitore.
Girovagando per quell’entità pulsante di storia dell’arte che è l’Ermitage, si vedono invece interessanti spunti di Cineseria e di Esotismo. Porcellane, mobili francesi con inserti di lacche cinesi e giapponesi originali, qualche accenno di Cineseria russa, della quale tuttavia non conosco moltissimo.
Quello che so per certo è che i sovrani dell’immenso impero russo ebbero tutti, chi più chi meno, una certa predilezione per le culture dell’Asia orientale, favorita anche da questioni geografiche (nella sua propaggine più orientale il sub-continente russo confina proprio con la Cina e appena un tratto di mare lo separa dall’arcipelago giapponese). Fu con Pietro il Grande (1672-1725) che l’attenzione per i manufatti estremo-orientali in Russia prese una connotazione di tendenza del gusto: questo sovrano era un convinto ‘europeista’, credeva cioè il suo paese dovesse avvicinarsi al Vecchio Continente che allora costituiva un modello culturale di grande attrazione. Lo zar a questo fine si avventurò in alcuni viaggi in Europa occidentale nel corso dei quali, tra l’altro, potè apprezzare la bellezza e la novità delle arti cinesi e giapponesi allora più in voga, ovvero la porcellana e la lacca, di cui divenne collezionista; di conseguenza concepì per le proprie residenze ambienti che potessero accogliere questi oggetti. A lui di deve anche la scelta di fondare dal nulla una nuova città con affaccio sul mare che in breve sarebbe divenuta capitale dell’Impero: San Pietroburgo.
Per questi motivi, per ‘annusare’ quella porzione di aria russa impregnata da secoli di cultura cinese e giapponese, ho organizzato il mio soggiorno nella splendida San Pietroburgo. E’ ho ottenuto i miei risultati, anche se ancora ci sarà bisogno di studio e letture per approfondire quest’aspetto.
Non molto, a questo proposito, ho ottenuto dalla visita all’Ermitage. Nonostante alcuni degli oggetti lì esposti possano, per tipologia e cronologia, essere appartenuti a Pietro il Grande e a i suoi successori che governarono l’impero nel Settecento, non si hanno però certezze documentarie, e solo in un caso, un vasetto di epoca Kangxi molto noto agli ‘addetti ai lavori’ sul quale compare il celebre stemma dei Romanov (l’aquila bicipite), si può affermare che si tratti di una porcellana cinese proveniente dalla collezione dello zar, anzi di una sua commissione diretta ai ceramisti cinesi.
Più fruttuose sono state senz’altro le visite alle residenze ‘fuori porta’ di Peterhof e Tsarske Selo. Entrambi sono luoghi di notevole grandiosità, che reggono tranquillamente il confronto con posti analoghi come Versailles o la Reggia di Caserta. Dentro e fuori gli edifici, sia quelli principali sia quelli meno imponenti che puntellano i due complessi, le dorature scintillano, gli stucchi abbagliano per il biancore, i pavimenti sono un tripudio di intarsi di legni esotici e, soprattutto, i parchi in cui sono immersi sono una meraviglia, Peterhof con le sue celebri fontane e Tsarske Selo con i suoi percorsi pittoreschi e irregolari, alla maniera ‘anglo-cinese’, una voga del Settecento venuta in auge in Inghilterra e ispirata a modelli per l’appunto cinesi e giapponesi. Purtroppo, però, tale fasto barocco, rococo e neoclassico non è quello originale del tempo degli zar, bensì una ricostruzione novecentesca messa in atto dal governo russo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, durante la quale le due splendide residenze furono praticamente rase al suolo dagli invasori tedeschi. Alcune fotografie lungo il percorso museale mostrano le condizioni catastrofiche in cui furono allora ridotte le due ville: si apprezza perciò ancor di più lo sforzo espresso per restaurarle, o meglio ricostruirle.
Come per l’Ermitage, anche per Peterhof e Tsarske Selo valgono le medesime considerazioni a proposito delle torme di visitatori. Solo che, ahime…, per l’ingresso alle due ville non avevo accessi rapidi da raccomandazione per cui mi è toccato, in entrambi i casi, mettermi in coda con attese estenuanti (oltre due ore…). In più, diversamente dal museo cittadino, nelle due residenze ‘fuori porta’ la visita non è libera bensì guidata. In sintesi dura meno di un’ora (dopo le due ore di fila al sole cocente) e tutte le stanze sono al limite dello straripamento; non si possono prendere fotografie, pena il taglio del dito mignolo; per non parlare poi dei soliti cinesi in gruppo, anche qui prevalenti, al limite dell’umana sopportazione. Ho cercato di imprimere nella mia memoria che funzione avessero le numerose porcellane cinesi e giapponesi che si vedono lungo il percorso; e soprattutto ho preso nota mentale dei due salotti cinesi di Peterhof, scintillanti di lacche, policromia e fragili tridimensionalità in porcellana, così come degli altri ambienti della stessa residenza in cui compaiono carte da parete cinese (quella tipica da esportazione, del Settecento). Nel Palazzo di Caterina a Tsarske Selo – noto a tutti per la celebre Sala d’Ambra (e chi se le goduta, con quell’invasione pacifica di turisti alla quale è giornalmente sottoposta!) – l’allestimento in cui maggiormente risaltavano le ceramiche estremo-orientali era quello nel Salone centrale, con la bella scalinata monumentale: qui si vedono soprattutto porcellane di stile ‘Imari’ di fine Sei-inizio Settecento inserite nella parete in composizioni di gusto rococo con risultati altamente ornamentali, che richiamano le analoghe invenzioni messe in pratica prima nel Palazzo Olandese e poi in quello Giapponese a Dresda, entrambi voluti da Augusto il Forte, l’Elettore con la “maladie de la porcelaine”, con l’esplicito scopo di contenere la sua sterminata collezione di porcellane cinesi e giapponesi.
Tuttavia, i luoghi che maggiormente mi hanno entusiasmato visitando Peterhof e Tsarske Selo nei dintorni di San Pietroburgo sono nel primo l’incantevole Mon Plaisir, e nel secondo il giardino anglo cinese al quale accennavo. Il Mon Plaisir è l’edificio dal quale si originò tutto il Peterhof. Lo fece erigere Pietro il Grande per beneficiare della salubrità del clima marino, che a parer suo tanto giovava alla sua salute malferma. E io gli credo! La piccola residenza è a pochi passi (5 metri) dal mare, protetta da una ringhierata da cui si ammira lo splendido golfo, dall’altra parte del quale sta la capitale, anch’essa ben visibile nonostante i quaranta minuti di traghetto. E’ un edificio basso, a un solo piano, che raddoppia la sua altezza solo nel vano centrale dov’è la bella Sala da pranzo attigua alle cucine. Le stanze sono pochissime, lo stretto necessario per il confort dell’imperatore, disposte in modo da assecondare lo sviluppo di due lunghi corridoi, su un lato dei quali corre una luminosissima vetrata così che essi appaiono più come logge verandate che come chiusi ambienti palaziali. Una delle stanze di questi corridoi, dalla quale ci si immette nella detta Sala da pranzo, è un salotto cinese, con lacche di manifattura europea in stile cineseria e un’infinità di mensoline a sorreggere altrettante porcellane cinesi e giapponesi; in posizione simmetrica, si trova un’altra stanza di connessione, meno marcatamente a cineserie, ma con un certo numero di porcellane estremo-orientali alle pareti. Dappertutto, nelle altre poche sale e sulla parete interna dei due corridoi, si vedono invece dipinti olandesi: marine, scene di interni, nature morte e altri soggetti tipici della pittura seicentesca di quel paese, disposti secondo regole di simmetria, acquistati dallo Zar durante i suoi due viaggi in terra d’Olanda, che tanto contribuirono a formare il suo gusto artistico, oltre che a corroborare il suo amore per il mare, come luogo di natura e per le opportunità che esso offriva dal punto di vista economico e politico (vedi la fondazione di una nuova capitale, San Pietroburgo, sul mare che affaccia sul continente europeo).
A Tsarske Selo la passeggiata per il giardino anglo-cinese, così voluto da Caterina secondo la moda del tempo, è stata piuttosto umida. A dire il vero pioveva a dirotto… Ma, fortunatamente, avevo il mio ombrellino, al solito scassato, e nei momenti torrenziali mi proteggevo sotto le fronde, pur rischiando forse l’arrivo di qualche fulmine. Lungo i tortuosi percorsi del parco si trovavano padiglioni di vari stili, così che l’ospite dell’eccentrica e voluttuosa zarina potessero stupirsi durante la visita, allora come oggi. Edifici neoclassici, la moschea con tanto di minareti, la piramide egizia, fontane di vario genere, anfratti nella roccia e l’immancabile Padiglione Cinese. Che delizia! Col suo tetto ricurvo, gli ornati geometrici in stile Chippendale a imitazione dei manufatti in bambù originali cinesi, i suoi colori sfarzosi, stridenti, eppure divertenti, la sua scalinata che portava in pochi gradini direttamente al canale, uno dei tanti nel parco, che tutti insieme permettevano anche di visitarlo a bordo di un’imbarcazione. Che esperienza romatica doveva essere! Ovviamente il Padiglione Cinese era chiuso e certamente completamente rinnovato, ma ho immaginato che il ticchettio delle gocce di pioggia si trasformasse ad un certo punto nella melodia estasiante ed esotica che sembra i campanelli un tempo agganciati agli spioventi del tetto producessero quando mossi dal vento.
La pioggia non dava tregua ma tant’è. Terminato il giro nel parco della zarina mi son diretto verso l’adiacente parco dello Zar Alessandro, elaborato tra Settecento e Ottocento. Sul ponte di uno degli ingressi, quallo che ho utilizzato, si dispongono quattro statue policrome di ‘pagodi cinesi’, una cineseria tipica del Settecento europeo; poi, un ponte ‘alla cinese’ e un’altra coppia di ponticelli appaiati, uno dei quali anch’esso in stile cineseria, l’altro di gusto neoclassico; più in là, a qualche centinaio di metri, si erge quella che è indubbiamente un villaggio cinese. Si, proprio così, un vero e proprio borghetto alla cinese. Sapevo che Caterina, tra le altre stranezze che commissionò, aveva fatto realizzare anche un villaggio ‘alla cinese’, nel quale voleva vivessero uomini e donne cinesi, in carne e ossa (potere del potere, e del denaro…), così come non lontano fece erigere un villaggio ‘moresco’ in cui vivevano negri venuti chissà da dove per soddisfare i capricci di una delle persone allora più potenti e facoltose del pianeta. Però, sapevo anche che di queste due creazioni con schiavi annessi non ne era rimasta più traccia, da un bel po’ di tempo. Che stupore ebbi allora quando mi trovai nei pressi di quel luogo. L’incanto però prestò svanì, e al suo posto si fece largo una certa inquietudine: a redarguirmi furono i numerosi cartelli lungo le mura esterne del villaggio, tempestati con avvisi di stare alla larga da quel luogo, poiché proprietà privata. Capì dunque che non di ricostruzione dell’antico villaggio zarino si trattava ma di un edificio eccentrico di nuova realizzazione, certo ispirato nell’idea al modello antico ma piuttosto kitch nei risultati. L’invenzione di un ricco russo, per farne la propria residenza di villeggiatura?; o peggio, un hotel-ristorante per ricchi russi in vena di sperimentare nuove sensazioni? Non so, ma oltre alla sorpresa che ebbi, che fu piacevole, posso scrivere – a distanza di giorni – che in realtà non ne fui contrariato, poiché quel nuovo esperimento di Cineseria ben si accorda con l’ambiente in cui è stato realizzato. Chissà se i camerieri del futuro ristorante e tutto il personale dell’albergo saranno cinesi: così il progetto della formosa Caterina riprenderebbe vita dopo oltre due secoli di oblio…
Lungi da me fare di questo già lungo scritto una guida di San Pietroburgo e dintorni, o peggio ancora raccontarvi nel dettaglio le mie giornate e serate in quella splendida città. Non potrei non accennare alla bellezza delle donne russe, che è davvero straordinaria come se ne sente parlare, per qualità e, soprattutto, per quantità, ovvero il livello medio che è altissimo. Voglio però spendere ancora pochi righi sul Museo di Arti Decorative. Un posto davvero affascinante. Nella sua palese decadenza, nell’ammasso di manufatti artistici sistemati tra quintali di polvere, per la rarefatta luce naturale che ne inonda certi ambienti filtrata da vetrate rivestite da decenni e decenni di ‘lascia fare’. Eppure è stato bellissimo muoversi liberamente in quelle sale, arrivare per caso nella enorme corte protetta dall’enorme vetrata di fine Ottocento, con le pareti del ballatoio rivestite dalle copie dei fregi del Partenone: scommetto che le stesse dimensioni del cortile riprendono quelle del celeberrimo tempio sull’Acropoli ateniese. Gironzolare non notato dagli studenti che si esercitavano nelle belle arti del disegno (l’edificio, oltre ad essere museo è ancora oggi Scuola d’Arte, molto frequentata). Proprio come la volle il barone Aleksandr Stieglitz (1814-1884) che la realizzò così e a quello scopo alla fine del XIX secolo, secondo gli insegnamenti che allora andavano per la maggiore in tutta Europa grazie al rinnovamento concepito dalle scuole Arts & Crafts di Ivan Morris: gli studenti che si cimentavano con lo studio delle arti non potevano farlo se non a diretto contatto con le opere. A quei tempi di spinta rivoluzionaria verso la modernità, chi concepì queste novità recuperò le arti europee del passato, fin da quelle medioevali, ma era convinto che bisognasse guardare anche alle altre culture del mondo, che anche quelle avevano moltissimo da insegnare alle nuove generazioni di ‘facitori’. Così, in quei musei-scuola (tra tutti il South Kensington, ora Victoria & Albert di Londra, ma insieme a questo sono innumerabili tutti i simili esperimenti) avevano pari dignità ai fini del progetto educativo anche le arti della Cina e del Giappone. Lo Stieglitz lo sapeva e non mancò di acquistare per la sua scuola una grande quantità di manufatti provenienti da quei luoghi lontani che a quei tempi si avvicinavano sempre più grazie alle evoluzioni del progresso. Un parte, minima, di questa sezione estremo-orientale è ancora oggi visibile lungo il percorso di questo strambo museo di San Pietroburgo: porcellane di vario tipo e una discreta collezione di metalli, sia cinesi sia giapponesi. Non ho idea di come dovesse essere in origine questa raccolta, ma so per certo che i pezzi di maggior qualità furono espropriati dopo la Rivoluzione del ’17 dal governo per andare ad impinguare la sezione orientale dell’Ermitage, anche se per gran parte essa resta nei depositi ad accumulare polvere.
Scusate, ma mi è presa la febbre della scrittura. Avevo scritto appena sopra che avrei concluso con il Museo di Arti Decorative la mia relazioncina su San Pietroburgo, quando mi è venuto in mente che di manufatti giapponesi e cinesi se ne vede in grandissima abbondanza anche nella Kunstkamera, un museo tra i più noti di San Pietroburgo. Le ragionì di questa notorietà tra il grande pubblico sono per lo più spiegabili con la sezione di mostruosità anatomiche che esso accoglie. Fu Pietro il Grande a voler creare una tale liturgia di errori della Natura, pagando profumatamente chi in tutto il paese gli consegnasse feti e bambini nati – e morti – con malformazioni. Lo scopo era quello di dimostrare che la deformità non dipendeva da un errore commesso dall’umanità ma, per l’appunto, dalle leggi della Natura. Un’idea che a quei tempi appariva piuttosto non convenzionale. Creò allora la sua ‘Camera delle meraviglie’, secondo una moda in voga in Europa fin dal tardo Cinquecento. Collezioni, cioè, universali, in cui si mescolavano senza apparente progettualità naturalia e artificialia, in modo da costituire un ‘teatro del mondo’, così come concepì per primo il bolognese Ulisse Aldrovandi (1522-1605). In questi scrigni di conoscenza c’era di tutto, davvero: reperti archeologici, arte contemporanea, piante, animali, pesci, molluschi, pietre di vario genere, e moltissimo altro. Non potevano certo mancare oggetti provenienti da luoghi lontani, e infatti molte di queste Kunst kammern furono lo stadio embrionale del collezionismo di exotica. Nella sua ‘Camera delle meraviglie’ Pietro inserì anche alcuni dei suoi reperti estremo-orientali, che non fossero le porcellane e le lacche, che quelle anch’egli le vedeva come gli altri suoi contemporanei, ovvero con gli occhi di colui il quale è consapevole che l’arrivo di questi oggetti avveniva esclusivamente attraverso il commercio delle varie Compagnie delle Indie Orientali allora attive, soprattutto quella olandese. Degli oggetti cinesi e giapponesi della Kunst kammer di Pietro poco rimane, poiché gli eventi della storia non sono stati clementi. Col tempo però la sua creazione è servita come punto di inizio per la costituzione di un museo etnologico-antropologico, che questò è in realtà oggi la Kunstkamera di San Pietroburgo, se si eccettua la orripilante sezione anatomica. Nella sale si susseguono perciò diorami che hanno come soggetto i costumi e le abitudini delle popolazioni del mondo (ad esclusione del crogiolo di razze che formano la grande confederazione russa, tema del Museo di Etnologia così denominato, ubicato a fianco del Museo Russo, anch’esso di grandissimo interesse). Le sezioni giapponese e cinese sono particolarmente ricche: gli oggetti esposti, tra manichini abbigliati di tutto punto e fermi in posizioni naturalistiche, hanno per lo più interesse etnografico, per l’appunto, ma non mancano alcuni reperti con un certo pregio artistico, soprattutto tra quelli cinesi, con una bella raccolta di porcellane, giade, intagli di legno e bambù, lacche, avori, tessuti, etc…
Arrivato il giorno prima del ritorno ero già conscio di aver fatto una bella esperienza. Mancava solo il secondo e ultimo appuntamento con la dott.ssa Tatjana Arapova, curatrice per le porcellane cinesi e giapponesi dell’Ermitage. Con lei avevo già visitato le sale cinesi e giapponesi di cui ho scritto sopra, e quel secondo appuntamento poteva significare solo una cosa.
Così fu: ho vagato per tre ore nei depositi dell’Ermitage, nelle stanzette dei mezzanini che ospitano le ceramiche estremo-orientali che non hanno trovato posto in museo. Non posso dire molto, non solo per questioni di correttezza nei confronti del mio gentile ospite, ma soprattutto perché mi piace tenere quel momento solo per me, comprendetemi. Quello che posso riferire è solo che con quel materiale non visibile si potrebbe creare un museo intero sulla storia della ceramica asiatica, dalle origini ai giorni nostri. Chissà quando accadrà, e se mai accadrà. Non importa, l’importante è che quel tesoro sia lì, protetto dalla polvere di decenni, pronto in un altro futuro a diventare una nuova storia.