L’ultima asta di questa sessione primaverile alla quale voglio dedicare una riflessione è quella che si terrà a Genova, presso la Casa San Giorgio, il 19 giugno prossimo.
Pur tralasciando gli oggetti di manifattura indiana e del Sud-Est asiatico, poichè la quantità di oggetti di arte orientale che saranno battuti in quell’occasione è davvero notevole, preferisco suddividere la discussione in due parti. In questa prima mi occuperò dei manufatti cinesi, nella successiva di quelli giapponesi.
Dunque, la sezione cinese – nella quale sono inseriti anche alcuni manufatti tibetani – comprende ben 376 lotti, con oggetti di varia natura, materiali ed epoche: ceramiche, porcellane, bronzi e altri metalli, mobili, smalti, giade, avori, snuff bottles, lacche, sculture lapidee e pittura su vari supporti, dal Neolitico al XX secolo. Anche in questo caso, quindi, come negli altri articoli che ho dedicato alle aste, dovrò per forza maggiore selezionare un numero esiguo di pezzi, tra quelli che mi hanno maggiormente colpito.
Nell’ambito della cultura artistica cinese la lavorazione dell’avorio ha svolto
un ruolo decisamente meno importante rispetto ad altri campi come, ad esempio, la ceramica e i metalli. Nonostante ciò, l’intaglio eburneo è stato praticato, a volte con risultati notevoli, fin dal tempo della dinastia Shang: mi viene subito in mente a proposito l’eccezionale coppa con intarsi di turchese rinvenuta nel 1976 nella tomba di Fuhao nel distretto di Anyang, databile al XVI-XII secolo a.C., esemplare di qualità elevatissima per una produzione che doveva essere molto esigua. Così come sono rarissimi gli oggetti in avorio realizzati in Cina nei secoli successivi. La svolta avvenne nel periodo finale della dinastia Ming (1368-1644), grazie anche all’influsso che gli artigiani cinesi ricevettero dagli europei, all’epoca in fase di assidua frequentazione dell’Impero asiatico, grazie all’opera dei gesuiti, dei diplomatici e dei mercanti portoghesi, spagnoli, olandesi e inglesi. Intorno al 1580 iniziarono le loro attività alcune botteghe specializzate nell’intaglio dell’avorio, site a Zhangzhou, città costiera nella provincia del Fujian. Queste si distinsero per una produzione di ottimo livello che molto doveva, come si è detto, alle tecniche e al gusto europei: non solo si realizzarono statuette raffiguranti personaggi cristiani, spesso esportate in Europa e tuttora conservate nei musei occidentali, ma si eseguirono anche sculture con soggetti cinesi, pervase però da un afflato ‘naturalistico’ di derivazione straniera. L’attività di queste botteghe di Zhangzhou non durò che alcuni decenni: intorno alla metà del Seicento anch’esse dovettero sopendere la produzione a causa della difficile situazione politica che travagliava l’intero paese, giunto al bivio del cambio dinastico tra Ming e Qing. In seguito, tra il tardo XVII secolo e la fine dell’Ottocento, la lavorazione dell’avorio fu tramandata in altri centri artistici cinesi, come Pechino, Canton e Suzhou: si produssero oggetti in parte destinati al mercato interno e in parte esportati verso l’Europa e gli Stati Uniti. Nonostante la qualità tecnica di questi avori più tardi sia in alcuni casi strepitosa, nessuno di loro può però reggere il confronto con il calore e la forza che emanano i pezzi di Zhangzhou.
In asta presso la Casa San Giorgio di Genova il prossimo 19 giugno saranno battuti due bellissime statuette in avorio che, a mio parere, esemplificano al meglio proprio la produzione di Zhangzhou tra il 1580 e il 1650 circa. Si tratta del lotto n. 421 (stima Euro 4000-5000), raffigurante un asceta buddhista (lohan) seduto, e del lotto n. 434 (stima Euro 4000-5000), raffigurante Li Tieguai, uno degli Otto Immortali taoisti (baxian), rappresentato solitamente – come in questo caso – nelle vesti di mendicante con bastone, sembianze che assunse dopo aver perso il suo corpo originario a causa della disattenzione di un discepolo.
Tra i due avori in asta, preferisco senz’altro quest’ultimo pezzo, per il quale ho notato similitudini stilistiche con una statuetta conservata nel British Museum di Londra (inv. OA 1952.12-19.6), pubblicata in quello che a tutt’ora rimane un testo fondamentale nello studio di questo tipo di oggetti artistici cinesi, ovvero il catalogo della mostra “Chinese Ivories from the Shang to the Qing” (n. 71), organizzata nel 1984 presso il Museo Britannico dalla Oriental Ceramic Society di Londra. Nonostante le due piccole sculture, quella di Londra e quella proposta da San Giorgio, mostrino alcune differenze, per me appartengono allo stesso ambito artistico, ovvero Zangzhou tra il 1580 e il 1650: si vedano ad esempio i dettagli con cui è reso l’intaglio dei particolari del volto e dei piedi. Riguardo al soggetto, non è inspiegabile che sia reso in maniera analoga nelle due raffigurazioni: i modelli erano infatti ricorrenti, rintracciabili nella contemporanea statuaria templare in legno, metallo o ceramica (porcellana di Dehua), anche di grandi dimensioni, oppure tra le stampe, come quelle che illustrano il volume “Lie xian quanzhuan” a cura di Wang Shizhen del 1600 circa, dedicato ai maggiori immortali taoisti. Per inciso, questi stessi repertori a stampa, ripubblicati in seguito, servirono anche agli intagliori di netsuke giapponesi: non si possono non notare, infatti, evidenti analogie formali tra questi avori cinesi della prima metà del Seicento e i netsuke con soggetti di gusto cinese del XVIII secolo.
Volendo restare ancora nell’ambito dell’intaglio minuto, vorrei porre alla vostra attenzione il lotto 433. Si tratta di un’ottima snuff bottle in agata lavorata ad altorilievo su entrambi i lati: da una parte si vede un uccello posato su un albero, mentre dall’altra è una scena più complessa, raffigurante un acrobata che tiene con i piedi una teiera dalla quale versa té nella tazza di un saggio sdraiato sotto un albero. La bottiglietta esemplifica la capacità degli intagliatori cinesi di sfruttare al meglio le naturali declinazioni cromatiche delle vene della pietra. Proviamo infatti ad immaginare la scena in cui l’autore di questo piccolo capolavoro si sia seduto al tavolo di lavoro e, ritrovati i suoi utensili, si sia dovuto confrontare con un blocchetto di pietra grezza da cui ricavare una bottiglietta per tabacco da fiuto: l’esperienza, l’abilità tecnica e la sua grande fantasia avrebbero immediatamente ‘visto’, al di là delle apparenze reali, il ‘disegno’ sottostante fluire tra i grumi minerali, lungo le iridescenze di contrasto, tra le arterie della pietra. E’ una magia che noi occidentali abbiamo sperimentato attraverso il genio di Leonardo e Michelangelo, i quali ‘vedevano’ tra le ombre del fuoco sulle pareti, o all’interno dei blocchi di Carrara, l’opera ‘in potenza’. In totale simbiosi con la Natura, il vero artista è colui il quale ‘vede’ cose che gli altri non riescono a percepire, plasmando la materia come guidato dall’unisono che scaturisce tra i piani del terreno e dell’ultraterreno…
Scusate le divagazioni, ma a parte gli ovvi distinguo (non crederete che abbia cercato di mettere a paragone i due sublimi toscani con l’anonimo autore della snuff bottle in questione!), credo che il processo della creazione artistica abbia seguito, a volte, analoghi percorsi che non si possono confinare entro limiti geografici e temporali. Per concludere il discorso sulla snuff bottle di Genova, mi viene in mente che il tipo di intaglio che la caratterizza era una delle specialità delle botteghe di Suzhou, cittadina non lontana da Shanghai, attive dalla fine del Settecento al 1880 circa.
Con un capitombolo temporale degno di H. G. Wells, torno indietro fino agli anni della dinastia Sui (581-618 d.C.). A quell’epoca il Buddhismo era in Cina all’apice storico del suo vigore intellettuale, e le arti ad esso collegate fiorivano come forse mai avrebbero fatto in seguito. Soprattutto, vi si dedicarono gli aristocratici delle numerose dinastie che si suddivisero potere e territorio nella Cina settentrionale, commissionando opere dagli esiti formali altissimi e di forte impatto emotivo. Chi abbia un minimo di dimestichezza con la statuaria cinese buddhista di alta epoca non può non ricordare i capolavori scolpiti da anonimi artisti durante la dinastia dei Wei Settentrionali (386-534 d.C.), i cui traguardi stilistici confluirono poi nelle opere realizzate per conto dei regnanti delle dinastie dei Qi Settentrionali (550-577) e degli Zhou Settentrionali (557-581). Si sa, l’arte è come un fiume che non ha né origini né foce: tutto fluisce in un ininterrotto dialogo tra i luoghi e i tempi. Così l’arte buddhista di epoca Sui ha ovviamente evidenti connessioni con quella delle dinastie che l’hanno preceduta: ieraticità al limite della rigidità, sobrietà, semplicità, purezza della linea, dettaglio quasi calligrafico, austerità. Tuttavia, proprio per quel discorso sul fiume che prima si è accennato, la statuaria Sui mostra già i podromi di quella che sarà la svoltà ‘naturalista’ verso cui andrà la scultura buddhista di epoca Tang (618-907).
Per conferma visiva su questo discorsetto, si ammiri il torso acefalo in marmo presente in asta da San Giorgio al lotto 469, con stima di partenza di Euro 4800-5500. Il confronto più immediato è senz’altro la monumentale scultura raffigurante il Buddha Amitabha conservata nel British Museum di Londra, destinata originariamente al tempio Chongguang del villaggio di Hancui (provincia di Hebei), e datata al 585. A meno d sconvolgenti sorprese, guardando le due opere – quella di Londra e quella per ora a Genova – la matematica farebbe supporre che (come due più due…) le due sculture appartengano allo stesso ambito stilistico e cronologico.
In ultimo voglio segnalare l’imponente tavolo al lotto 367, non fosse altro perchè, a Euro 40000-50000 di partenza, costituisce il pezzo cinese di più alta stima proposto dalla San Giorgio. Tuttavia, tale valutazione non sarà eccessiva se si puntualizzano alcune sue caratteristiche, per certi versi fuori dal comune. Innanzitutto le dimensioni, davvero notevoli (cm. 88 x 60 x 267); quindi il tipo di legno con cui è stato realizzato; infine, l’altissima, strepitosa, qualità dell’intaglio, raffigurante motivi di buon augurio come i pistrelli tra le nuvole e l’ideogramma shou, “longevità”.
Nelle fonti scritte delle dinastie Ming e Qing questo genere di tavolo era definito “tavolo da muro” (bi zhuo), poichè veniva addossato ad una delle pareti della stanza che arredava. Le funzioni alle quali era deputato erano varie: poteva servire da altare domestico, come libreria, per la lettura dei sutra buddhisti, oppure per esporre oggetti da collezione, come porcellane e altre antichità. Solo in rari casi mobili di questo tipo furono realizzati usando il legno zitan. D’altronde questa varietà di legname era pregiatissima e molto costosa: ricavata da piante appartenenti alla variegata famiglia delle Leguminosae, si trovava in Cina solo in alcune provincie meridionali come lo Yunnan, il Guangxi e il Guangdong. Fu usato per la realizzazione di arredi fin dalla dinastia Tang, apprezzato già da allora per la sua estrema durezza, la densità della grana e, soprattutto, la sua fascinosa colorazione, tendente al nero con screziature di viola-porpora. Nonostante i prezzi alti con cui veniva smerciato, lo zitan fu favorito dalla corte imperiale soprattutto nella dinastia Qing (1644-1911), fin quando l’Imperatore Qianlong (1736-1795) non si decise ad emanare un editto per evitare il completo disboscamento delle foreste che ospitavano questa pianta, restringendo il suo uso all’ambito della corte.
Nella breve scheda ‘on line’ che riguarda questo esuberante tavolo non compaiono indicazioni di datazione. Comprendo le difficoltà. Credo però che possa senz’altro inserirsi nel lungo periodo della dinastia Qing, forse nell’Ottocento, ma non ho certezze a riguardo.