La mostra Oggetti per passione. Il mondo femminile nell’arte giapponese, tenutasi a Cagliari dal 27 giugno al 10 novembre 2013 (la data di chiusura era l’8 settembre, ma è stata prorogata per il grande numero di visitatori che ha attratto), dovrà a mio avviso essere ricordata soprattutto per un motivo.
E’ stata infatti la prima vera occasione per poter ammirare una selezione di manufatti giapponesi appartenuti a Vincenzo Ragusa (1841-1927).
Ho già raccontato in un precedente post su OrientArt le vicende di questo personaggio, per molti versi indissolubilmente legate ad un periodo della storia giapponese, la prima fase dell’epoca Meiji (1868-1912), durante il quale l’arcipelago estremo-orientale fu travolto da radicali cambiamenti sociali, economici e culturali. Non ripercorrerò questa volta la storia della vita del Ragusa, né mi soffermerò su sua moglie, la pittrice Kiyohara Tama (1861-1939). Ricorderò soltanto la pena con cui dovetti ammettere che la sua collezione di arte giapponese giaceva da ormai quasi cent’anni nei depositi del Museo Pigorini di Roma, destinata per colpe non proprie a subire l’accumulo di strati decennali di oblio. E pensare che, allora, agli inizi del Novecento, lo stato spese una cifra di tutto rispetto per acquisirla. A quale scopo, se nei piani non c’era la sua catalogazione ed esposizione?
A tutto ciò dà una non-spiegazione, che è quasi una sorta di ammissione, il Soprintendente del museo romano Francesco di Gennaro nella sua breve nota di introduzione al catalogo della mostra organizzata a Cagliari: “In un certo senso la presenza della complessiva collezione del nostro museo può essere considerata il risultato di un errore di valutazione…”, e ancora: “Le scelte attualmente consolidate nella distribuzione degli spazi espositivi non consentono di esibire i nostri oggetti orientali nel Museo Pigorini”.
Ciò vuo dire, da quanto ne possa capire, che ‘ormai è andata così e non c’è più nulla da fare’. Luigi Pigorini ha speso male i soldi pubblici – così mi par di leggere tra le righe del Soprintendente – e a noi tocca di occuparci di una grande massa di oggetti che riempiono spazio e che mai saranno esposti al pubblico permanentemente, perché le scelte sono ormai “consolidate”. Mah…
Non so quale sia la soluzione migliore per risolvere questo ‘caso’, che è solo una piccola goccia nel mare delle stranezze dell’Italia nell’amministrazione del suo enorme patrimonio artistico-culturale. Chissà, magari la collezione del Ragusa, nella sua interezza, potrebbe essere venduta, previo patto con l’acquirente che si impegni a non smembrarla mai. Oppure, potrebbe essere concessa in prestito lungo ad una qualche istituzione, pubblica o privata, che abbia i mezzi per valorizzarla. Magari potrebbero offrirsi proprio i Musei Civici di Cagliari, che hanno ospitato la recente mostra, i quali si curano del Museo d’Arte Siamese che conserva la collezione che fu di Stefano Cardu (1849-1933), un imprenditore sardo chefece fortuna a Bangkok dove formò la sua raccolta di oggetti d’arte poi acquisita (anche in questo caso, come per la collezione Ragusa, non senza lungaggini e travagli burocratici sebbene si trattasse di una donazione) dal Comune del capoluogo sardo.
Questioni che rimangono senza risposta e, soprattutto, senza soluzioni nell’immediato futuro. Almeno, la mostra organizzata a Cagliari permette ad una parte della raccolta Ragusa di ‘prendere aria’, consentendo al pubblico sardo di godere di alcune testimonianze preziose di un Giappone tradizionale che non esiste più, o quasi. L’esposizione è stata curata da Anna Maria Montaldo, direttrice dei Musei Civici di Cagliari, e da Loretta Paderni, responsabile della sezione Asia Orientale del Museo Pigorini. Chi sa quale frustazione accompagni le giornate della Paderni, costretta ad occuparsi di tali manufatti che non sembra, a detta del suo ‘capo’, potranno essere esposti nel Museo in cui lavora… E chissà, quale gioia, al contrario, l’abbia travolta nell’organizzare questa mostra che finalmente restituisce ai materiali Ragusa un minimo di quella dignità che meriterebbero!
Il filo conduttore dell’esposizione cagliaritana è stato, come si deduce fin dal titolo, la donna e il mondo in cui essa si è mossa nel Giappone tradizionale. Il compito di raccordare le sezioni della mostra è affidato ad un piccolo ma magico libretto a stampa, lo Ehon seirō bijin awase (“Libro illustrato a paragone delle beltà delle Case Verdi”), uno dei tanti capolavori di Suzuki Harunobu (1725-1770) pubblicato nel 1770. Una deliziosa raccolta di immagini in cui protagonista è proprio la donna, nella versione cortigiana dello Yoshiwara, il quartiere a luci rosse di Edo, l’attuale Tokyo. Si badi che non si tratta in questo caso di immagini ad alto contenuto sessuale (shunga, le “immagini della primavera”), genere nel quale Harunobu pure eccelse, ma non v’è dubbio che l’aspetto erotico sia sottolineato: dalle movenze eleganti delle dame, dalle scollature poco ostentate ma presenti, dalle espressioni sognanti e un po’ vanesie delle protagoniste. Il libretto, stampato con radi ma elegantissimi colori, mostra le beltà alle prese coi loro passatempi preferiti, dalla scelta degli abiti e degli accessori (come i ventagli) alla toeletta, dalla pratica della calligrafia all’arte della disposizione dei fiori (ikebana), dalla musica ai giochi ‘da tavolo’ (incenso, conchiglie, carte). Gli oggetti in mostra richiamano proprio quelli presenti nelle composizioni di Harunobu, tra lacche, metalli, dipinti, stampe, libri illustrati, strumenti musicali, etc. E mi immagino quanto questi raffinatissimi manufatti abbiano potuto entusiasmare i visitatori che hanno così rivissuto le atmosfere di un’epoca bellissima e ormai lontana della storia della società giapponese.
Chissà quanto sarebbe stato fiero Vincenzo Ragusa di questa mostra realizzata con i suoi oggetti, acquisiti con grandissimo dispendio di energie e mezzi economici, per dare voce alla sua grandissima passione per quel lontano paese asiatico che cambiò per sempre la sua vita, da tutti i punti di vista.