Sengai Gibon (1750-1837), Cerchio, triangolo e quadrato (L’universo). Inchiostro su carta, cm. 28,3 x 48,2. Tokyo, Idemitsu Museum of Art.

Sengai e il mistero che forse non c’è

Sembra uno di quegli esercizi che si assegnano ai bimbetti di pochi anni per cominciare ad avere dimestichezza con le forme primarie della geometria, la maestra che – assimilato l’esempio di Bruno Munari – sprona a impilare solidi plasticosi oppure a usare la matita per descrivere sulla carta le differenze essenziali tra le figure.
In effetti, al primo impatto, Cerchio, triangolo e quadrato, l’opera più misteriosa di Sengai Gibon (1750-1837), altro non è che quello che il suo titolo dichiara: un cerchio sulla destra, in parte sovrapposto al triangolo nel centro, il quale sfiora un quadrato sulla sinistra.
Esercizio perfetto, direbbe la maestra al bambino.
Eppure, questo dipinto è stato realizzato da un uomo ben maturo, quasi certamente dopo che aveva compiuto i sessant’anni. Sengai infatti iniziò a cimentarsi assiduamente con la pittura, la calligrafia e la poesia a partire dal 1811, anno in cui decise di rinunciare al suo incarico di abate dello Shōfuku-ji, il tempio di Hakata nell’isola meridionale del Kyūshū fondato nel 1195, e per questo il più antico monastero Zen del Giappone.
Fino a quell’epoca, Sengai si era dedicato esclusivamente a trasmettere gli insegnamenti della Scuola Rinzai, alla quale aveva aderito in giovanissima età. Nato nel villaggio di Taniguchi a Mino (prefettura di Gifu) in una famiglia di umili contadini, aveva preso i voti a soli undici anni. In seguito, si sarebbe affidato a Gessen Zenne (1701-1781), uno tra i maggiori maestri Zen del tempo, con il quale avrebbe raggiunto l’Illuminazione (satori) risolvendo a modo suo un famoso kōan, ovvero uno di quei quesiti paradossali considerati dalla dottrina come utili alla meditazione.
Alla morte di Gessen, Sengai viaggiò incessantemente per il paese al fine di migliorarsi spiritualmente finché, nel 1788, non fu invitato ad Hakata per divenire il centoventitreesimo abate dello Shōfuku-ji.
Sengai era amato da tutti, per la sua bontà, saggezza e frugalità. Si sono tramandati moltissimi aneddoti che lo riguardano, e tutti invariabilmente descrivono un uomo accondiscendente, umile e molto ironico, sebbene fermo nelle sue decisioni e consapevole dei precetti della dottrina. Si racconta, ad esempio, che una volta Sengai scoprisse che un monaco del tempio fosse solito uscire tutte le notti per recarsi nel vicino bordello. Il giovane scavalcava la recinzione usando un sasso come appoggio. Un giorno, al ritorno da una notte di bagordi, il novizio si accorse che il sasso era stato rivestito da un tessuto. L’aveva sistemato Sengai, per evitare che il ragazzo scivolasse e si facesse del male. Dopo quell’avvenimento, il monaco sospese le sue escursioni notturne divenendo un modello per i suoi confratelli.
Conclusa la sua esperienza di abate, Sengai si ritirò in un piccolo padiglione dello Shōfuku-ji, noto come Kohaku-in, “La casa bianca vuota”. Si trattava in realtà di un capanno che però ben si adattava all’indole dell’ormai anziano monaco, sempre più conscio della transitorietà della vita. Al suo rifugio dedicò molti versi tra cui questi:

“Solo per nascita, solo nella morte.
Esisto nell’intermezzo, solo, il giorno e la notte.
L’io che nasce e muore solo
è l’io che solo abita quest’umile capanna.”

Nel Kohaku-in, libero ormai dai gravosi impegni da abate, Sengai dipingeva e scriveva, e ben presto la sua fama di artista si consolidò, tanto che in moltissimi lo andavano a trovare portando con sé della carta nella speranza che egli eseguisse per loro un disegno o un componimento poetico. Il flusso era praticamente continuò così che Sengai, infastidito, compose una poesiola per descriverlo, intrisa di quell’umorismo che è nota tipica del carattere di questo bizzarro personaggio:

“Con mio grande sgomento
mi chiedo se la mia piccola capanna
stia diventando un bagno,
se chiunque mi viene a trovare
porta con sé ancora carta!”

La pittura e la lo stile della calligrafia di Sengai riflettono in pieno questo suo approccio alla vita. Nei suoi dipinti egli descrisse aspetti della vita quotidiana del popolo, non tralasciando i temi buddhisti. La sua è in apparenza una pittura semplice, quasi infantile, che riflette tuttavia una tecnica magistrale nell’uso del pennello, con il quale riesce a gestire tutte le infinite gradazioni tra il grigio e il nero dell’inchiostro, al quale mai aggiunse colori.
Il massimo risultato con il minimo dispendio di tratti, tutti sapientemente calibrati tra linee e campiture a costruire immagini in cui l’ironia domina incontrastata, un umorismo sempre pungente che non risparmia nessuno, le classi sociali più elevate del suo paese e perfino le divinità.
Figure distorte, ghigni furbeschi, sguardi fulminanti, a Sengai basta un puntino per la pupilla ad animare un personaggio, uomo o animale che sia; corpi deformi, linee che concertano le dinamiche cinetiche come pulsioni vitali.
Sengai è la sua pittura e la sua calligrafia, così come queste ultime sono Sengai. Arte e autore mai come in questo caso coincidono in ogni particolare. Uno spirito non convenzionale per un’espressione in tutto eccentrica, come solo può essere l’arte ispirata dallo Zen, la dottrina filosofica più libera dalle convenzioni che l’uomo abbia concepito.
Cerchio, triangolo e quadrato è un’opera enigmatica, il cui significato è ancora avvolto nel mistero, nonostante in moltissimi le abbiano dedicato anni di studi e riflessioni.
Il tema del cerchio, ensō, è tradizionale nella cultura artistica legata allo Zen. E’ una forma geometrica perfetta, lo sapeva anche Giotto quando inviò a papa Benedetto un cerchio come esempio della sua pittura, adducendo che esso era insieme “abbastanza e troppo”. Essa, nella sua semplicità racchiude una miriade di significati, emblema di completezza, continuità, illuminazione, potenza, dinamismo, infinitezza, e chi più ne ha più ne metta. Moltissimi artisti-monaci, tra cui lo stesso Sengai in altre occasioni, si sono cimentati con questo tema, liberando in un’unica pennellata la conoscenza acquisita attraverso lunghissime sedute di meditazione.
Anche l’associazione tra cerchio e quadrato, sebbene infrequente nell’ambito dell’arte Zen, è tuttavia comune nel Buddhismo, il primo a identificare il piano celeste e il secondo quello terreno, un’accoppiata che compare spesso nei mandala pittorici, quelle rappresentazioni simboliche del cosmo utilizzate dai fedeli nella preghiera.
Tuttavia, non si conoscono opere di artisti affiliati al Buddhismo Zen in cui cerchio, triangolo e quadrato compaiono insieme, e per questo motivo l’interpretazione di questo soggetto risulta per certi versi ostica, tra chi ha proposto che possa simboleggiare la pagoda dei templi del Buddhismo esoterico che si compone, per l’appunto, di un triangolo posato sopra un cerchio a sua volta sistemato sopra un quadrato, oppure chi l’ha intesa come rappresentazione evoluta dell’Universo, tesi questa tra le più accettate, e ancora come rappresentazione simbolica di infinito, umanità e fenomeni.
A rafforzare la prima ipotesi si può addurre il significato dell’iscrizione sul margine sinistro, la quale si legge testualmente “Il primo tempio Zen in Giappone”, in chiaro riferimento allo Shōfuku-ji, e quindi alle strutture geometriche dei suoi edifici trasposte di conseguenza a un livello filosofico più alto, per indicare la forza primaria e naturale dello Zen.
La questione non è per niente risolta, dunque.
D’altronde, le arti connesse con lo Zen quasi mai sono immediatamente intellegibili, e anzi quasi sempre si offrono a diverse letture, paradossalmente tante quante sono le persone che si soffermano ad ammirarle nel tentativo di carpirne il significato. In altre parole, in molti casi il fine ultimo di queste opere è proprio stimolare il giudizio critico personale di ogni spettatore che, in base alla propria sensibilità, trarrà conclusioni solo sue.
Certo è che, rispetto alla grandissima parte delle opere note di Sengai, Cerchio, triangolo e quadrato presenta aspetti contraddittori. All’apparenza, essa difetta di quell’ironia e di quell’umorismo che invece caratterizzano la grandissima parte della sua produzione. E anche sembra mancare quella spontaneità al limite della caricatura che denota i suoi dipinti con figure, soppiantata invece da un certo rigore nell’impianto compositivo.
E se non fosse così?
E se Sengai, anche in questa occasione, abbia voluto costruire di proposito una provocazione, mettendo alla prova l’astruso intellettualismo di certuni? Seduto nel suo capanno, carta, pennello e inchiostro al lume di una candela mentre concepisce il kōan definitivo, quello impossibile da risolvere. Ne ridacchia di quello scherzo, non potendo immaginare (o forse si, chissà…) che trascorsi oltre due secoli, ancora in molti si lambiccano per svelarne il mistero.
E pensare che lui aveva solo dipinto un Cerchio, un triangolo e un quadrato.

Sengai Gibon
(1750-1837)
Cerchio, triangolo e quadrato (L’universo)
Inchiostro su carta, cm. 28,3 x 48,2.
Tokyo, Idemitsu Museum of Art.

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