E non poteva essere altrimenti.
Di un blu che è riflesso del cielo, di tutte quelle innumerevoli sfumature di cui si può tingere l’acqua del mare, il mare più vasto che ci sia, l’Oceano Pacifico.
All’ingresso della mostra campeggia un’enorme carta geografica di quella zona del pianeta Terra, nella quale predomina – ovviamente – il celeste, solo punteggiato da quella miriade di isole lontane l’una dall’altra anche migliaia di chilometri.
Eppure, ed è questo uno dei filoni tematici della mostra, e forse il più affascinante, tutte queste zollette di roccia, sabbia e vegetazione non sono mai state isolate. Fin da tempi antichissimi, infatti, gli arditi abitanti di queste lande si sono avventurati a bordo delle loro piccole ma saettanti imbarcazioni in viaggi a dir poco complicati tra le distese blu, creando nuove comunità, acquisendo ed esportando conoscenze. Anche nell’ambito di quelle che noi oggi consideriamo creazioni artistiche, realizzando opere che – nonostante le peculiarità di ogni popolazione – hanno tuttavia diverse assonanze, formali e concettuali.
Ripensare James Cook
Tutto ciò accadeva ben prima che James Cook esplorasse questi territori, solo 250 anni fa. La mostra Oceania è infatti anche un’occasione per celebrare il navigatore inglese, senza però esaltarne in toto l’operato. Cook, infatti, come molti altri europei al tempo del colonialismo, molto ha dato all’inarrestabile percorso del progresso, ma non sempre in maniera lecita, il più delle volte imponendo il proprio volere agli abitanti di quelle isole paradisiache che per diritto di civiltà avrebbero potuto decidere in proprio le loro sorti.
Di questo ne dà conto lo straordinario e gigantesco diorama animato digitale di Lisa Reihana intitolato In Pursuit of Venus [infected] (2015-2017). Ispirata dai venti pannelli disegnati da Jean-Gabriel Charvet e stampati da Joseph Dufour nel 1804-1806, opera intitolata Les sauvages de la mer Pacifique, l’artista neozelandese ribalta la visione eurocentrica che vi si perpetrava, inserendo fatti che puntualizzano certe prepotenze subite dagli indigeni, e incomprensioni di vario genere tra due culture così diverse, alcune delle quali – come l’assassinio di Cook – sfociate nel peggiore dei modi.
Il percorso della mostra
Inserzioni di riletture contemporanee si ritrovano in sparse lungo il percorso della mostra, alcune delle quali davvero interessanti. Tuttavia, la selezione di manufatti antichi esposti è conturbante, per la qualità in molti casi strepitosa delle sculture, dei tessuti, degli oggetti di uso quotidiano.
Stupisce in particolare la compattezza del legno con cui sono stati scolpiti divinità, canoe, scudi e altro, la levigatezza di quelle superfici patinate, la fermezza dei dettagli intagliati, la forza di una mitologia che dà vita a esseri sovrannaturali di inquietante tensione psicologica, come lo straordinario dio Ku della guerra hawaiano in prestito dal British Museum, un gigante di 267 cm che pure negli spazi di una mostra incute rispetto a chi ne percepisca la mostruosa potenza, figuriamoci a chi ne fosse sovrastato durante quei sacrifici che si tenevano al suo cospetto nei tempi che furono.
Infine, non resta che dire che – chiaramente – blu sono anche le matitine che ho comprato a ricordo della visita, non un solo blu però, ma almeno cinque sue sfumature, a ricordare l’estensione pressoché infinita delle spettro dei blu dell’oceano e dell’Oceania.