Nell’ambito dell’asta di arte orientale organizzata dalla San Giorgio per il 19 giugno prossimo, la sezione di arte giapponese consta di 85 lotti, molti dei quali di notevole interesse.
Si tratta di oggetti di diverso genere, tra mobili, lacche, bronzi, smalti, sculture in vari materiali, ceramiche, porcellane, dipinti, stampe, inrō, netsuke e okimono, per lo più databili ai periodi Edo (1615-1868) e Meiji (1868-1912).
Meiji (letteralmente “Governo Illuminato”) è il nome che l’Imperatore Matsuhito diede al suo regno. Dopo numerosi secoli di governi militari in cui i suoi antenati non avevano svolto alcuna funzione politica, Matsuhito fu il primo imperatore restaurato e legittimato nei suoi pieni poteri di guida della nazione. Dunque, una svolta storica di enorme portata che avrebbe segnato il paese per alcuni decenni a seguire, almeno fino al fatidico 1945, con le bombe di Hiroshima e Nagasaki, la fine della Guerra e il drammatico annuncio della resa dell’Imperatore Hirohito.Anche per l’arte il periodo Meiji ha significato un radicale cambiamento rispetto al passato. Dopo oltre due secoli di quasi totale isolamento, il Giappone si aprì infine al mondo, mostrando con orgoglio agli stranieri le proprie abilità e il proprio gusto. Le occasioni allora non mancavano. Non solo europei e statunitensi potevano circolare liberamente sul suolo nipponico, anche per fare affari, ma soprattutto il governo Meiji si premurò di allestire spettacolari padiglioni con manufatti di ogni genere di propria produzione nelle più importanti ‘vetrine’ commerciali del tempo, ovvero quelle Esposizioni Universali che periodicamente si svolgevano nelle maggiori capitali del mondo. Il successo dell’arte giapponese fu travolgente, tanto che scoppiò in breve una vera e propria ‘Giappone-mania’: i collezionisti occidentali acquistavano ogni tipo di bene formando raccolte più o meno importanti, mentre gli artisti delle avanguardie europee di fine Ottocento elessero lo ‘stile Giappone’ quale fonte inesaubile per le loro sperimentazioni, dando così vita al fenomeno del ‘Giapponismo’.
Tra i manufatti giapponesi che in gran copia nel periodo Meiji raggiunsero l’Europa e gli Stati Uniti, i metalli avevano certo un posto privilegiato. Naturalmente, come per le altre tipologie (ceramiche, smalti, avori, lacche, etc.), anche questi oggetti in metallo, di produzione allora contemporanea, si distinguevano per l’utilizzo di tecniche innovative, in molti casi ispirate dalla conoscenza dei metodi di lavorazione stranieri, oltre che per uno stile decorativo che – per esuberanza, ridondanza e sfavillio – tendeva spudoratamente a compiacere il gusto degli occidentali, ai quali era esplicitamente destinata la vendita di questi manufatti. Un compromesso, dunque, tra le necessità del mercato e la volontà degli artigiani giapponesi di preservare la propria straordinaria abilità manuale.
Anche nelle collezioni pubbliche italiane esistono ricche sezioni di manufatti artistici metallici, per lo più di epoca Meiji. Molti me ne sono capitati tra le mani studiando alcune di queste raccolte. Esiste anche una certa bibliografia su questo argomento: al momento, mi vengono in mente due monografie curate da Mayumi Koyama, una riguardante la raccolta del Castello Sforzesco di Milano e l’altra relativa al museo Garda di Ivrea, mentre recentissima è la pubblicazione del volume su alcuni aspetti del collezionismo di Vincenzo Ragusa (1841-1927), visto attraverso la pittura di sua moglie Kiyohara Tama (1861-1939) che in più occasioni scelse i bronzi della raccolta del marito per i propri dipinti (scriverò più dettagliatamente di quest’ultimo volume in un prossimo articolo).
Ritornando all’asta San Giorgio del 19 giugno, una parte dei bronzi proposti per la vendita sono di epoca Meiji. Lo sono senz’altro le due eccezionali statuette raffiguranti asceti buddhisti al lotto 625, giustamente stimate ad alto prezzo di partenza (Euro 8000-10000); lo è anche il fascinoso vaso dorato al lotto 627 (Euro 2400-3500), così come è Meiji anche il piccolo tripode (incensiere?) al lotto 633. Quest’ultimo, in particolare, ha destato la mia attenzione, non foss’altro per la sua stima a Euro 10-20. Proprio così, 10-20 Euro! Ragionando, subito mi sono dato un ventaglio di spiegazioni: errore di digitazione; misure microscopiche; scherzo; ‘tattica’ di vendita. Comunque sia, poichè, incredulo, l’ho guardato e riguardato, ho fatto delle riflessioni. Realizzato in bronzo con oro, argento e lega (shibuichi), mostra caratteristiche formali analoghe a quelle di una produzione del 1880-1890 circa. Oggetti molto simili a questo erano realizzati dagli artigiani al servizio della “Kiryu Kosho Kaisha”, manifattura artistica fondata su iniziativa governativa dopo il successo che ottenne il
padiglione giapponese all’Esposizione Universale di Vienna nel 1873. Questa fabbrica funzionava da ‘holding’, commissionando oggetti artistici in metallo a rinomati maestri specializzati, occupandosi poi di smerciarli sul mercato internazionale anche attraverso le succursali che avrebbe in pochi anni aperto a New York e a Parigi. Esemplari straordinari di questa produzione ‘statale’ si trovano nella Collezione Khalili di Londra, famosa proprio perchè la più notevole raccolta di arte Meiji del mondo. Il vasetto presentato da San Giorgio, sebbene interessante e ben fatto, non ha qualità comparabile con i pezzi di quella raccolta, ma ha dignità e pregio sicuramente superiori ai 20 Euro!
In asta saranno offerti anche alcuni intagli eburnei, tra netsuke e okimono. Uno in particolare – il lotto 669 (Euro 600-700) – ha attratto la mia attenzione. Si tratta di un netsuke-stile-okimono di intaglio raffinato e minuzia nella resa del dettaglio, ricco di garbate incisioni inchiostrate di gusto kyotoita. Più della sua qualità, tuttavia, mi ha molto incuriosito il soggetto rappresentato. Per il fondamentale assunto in base al quale è inusuale che un’opera d’arte giapponese rappresenti solo quello che si vede superficialmente, ho cercato di capire a quale tema rimandasse una scena con un bue, una vecchia donna e lo strumento (kinuta) per la follatura. Pur essendo un soggetto abbastanza raro nell’ambito delle arti giapponesi, ho infine capito. Si tratta dunque di un riferimento al detto “Ushi ni hikarete Zenkōji mairi” (traducibile con qualcosa tipo “Andare allo Zenkōji guidato da un bue”), tuttora molto noto dai giapponesi, con il quale si vuole enfatizzare un fatto positivo che sia accaduto casualmente, qualcosa tipo il nostro “Quando meno te l’aspetti…”. L’episodio che ha ispirato il detto è il
seguente: una vecchia donna impegnata con il lavaggio e la follatura della biancheria venne avvicinata da un bue che con le corna si appropriò di un suo tessuto avviandosi deciso verso una direzione specifica; la donna, sorpresa, seguì l’animale finchè questi non arrivò presso il famoso tempio buddhista Zenkōji (ubicato a 60 chilometri da Tokyo); il silenzio, la calma e la pace che regnavano in quel luogo sacro impressionarono così tanto la vecchia signora che lì per lì abbandonò tutti i suoi averi e si affidò alle cure dei saggi del tempio per seguire gli isegnamenti del Buddha, divenendo ella stessa monaca.
Tra le porcellane giapponesi offerte in vendita per l’occasione da San Giorgio, mi ha molto attratto il pezzo al lotto 646 (stima Euro 2000-2500). Si tratta della bellissima raffigurazione di un falco posato su una roccia: dipinto sinteticamente a tratti blu per l’animale e in grigio per la pietra, il pregio di questa scultura sta quindi più sulla sua plasticità che sull’effetto ornamentale dell’insieme. Ad aumentarne il pregio, il pezzo posa su base in bronzo dorato con volute dall’andamento rococò. L’opera è stata realizzata nelle fornaci di Arita (isola del Kyūshū), a mio parere sul finire del Seicento, in quello che si può considerare il periodo più esaltante della storia di questo importantissimo distretto ceramico, quando una grandissima parte dei suoi prodotti era destinata al mercato dell’esportazione verso l’Europa.
Anche il falco di San Giorgio fu realizzato per compiacere il gusto degli acquirenti occidentali. Infatti, nonostante i rapaci siano un soggetto molto diffuso nell’antica pittura giapponese, apprezzato soprattutto dai militari che veneravano la forza, la velocità e la vista acuta di questi volatili in parte identificandovisi, non si può invece affermare che raffigurazioni di questi uccelli facessero parte del repertorio delle ceramiche di Arita destinate al mercato interno nipponico. Al contrario, esistono numerose prove della presenza in Europa ‘ab antiquo’ di statuette simili a questa ora in analisi. Particolarmente significativa è, ad esempio, quella conservata nella Burghley House Collection di Stamford (Inghilterra, Lincolnshire), già descritta in un inventario compilato nel 1688: in comune con quella di San Giorgio, quella della collezione inglese ha anche l’utilizzo del solo smalto blu per la decorazione. Inoltre, due statuette di porcellana orientale raffiguranti un falco su una roccia facevano bella mostra di sé su una mensola nella celebre ‘Stanza delle Porcellane’ di Charlottenburg a Berlino: tuttora non sono più ‘in loco’ (l’allestimento attuale è una ricostruzione della metà del Novecento, poichè l’originale fu distrutta durante la guerra), ma esse si vedono benissimo nella nota stampa nella quale è raffigurata la principale parete dell’ambiente berlinese, tratta da un disegno di Eosander von Göthe del 1705 circa. Infine, alcuni disegni di statuette in porcellana giapponese, simili a questa di San Giorgio, furono vergati da Gabriel de Saint-Aubin sulla sua copia personale del catalogo di vendita di oggetti d’arte organizzata da Gaignat il 14 febbraio 1769, proprio di fianco alla descrizione dei lotti di quell’asta che riguardavano tali oggetti.
Non ci pare quindi improbabile che questa splendida scultura – oltretutto prototipo dei mirabolanti uccelli magicamente usciti nel Settecento dalle fornaci di Meissen – abbia un giorno fatto parte dell’arredo di una importante, nobiliare, reale, dimora europea.
Prima di concludere, voglio alla fine segnalare un ultimo oggetto, tra quelli di manifattura giapponese che saranno in asta a Genova il 19 giugno prossimo. Anch’esso appartenne, nel XVIII secolo, ad una donna di un certo rango, non europea però, bensì giapponese. Volendo, e potendo, approfondire si potrebbe perfino tentare di risalire all’identità di questa misteriosa dama, poichè i due simboli araldici (mon) – uno con tre foglie all’interno di una cornice circolare e l’altro con cinque palle disposte a pentagono intorno ad una sesta – che più volte compaiono nel raffinatissimo, direi ‘chic’, mobiletto al lotto 622 (stimato Euro 6000-6500) fanno sicuramente riferimento alla sua casata di provenienza e a quella del suo sposo. In legno laccato di nero, decorato con girali fitomorfi utilizzando la tecnica dell’hiramaki-e (“pittura cosparsa piatta”), presenta quattro ripiani: parte dello spazio tra il secondo e il terzo è chiuso in un cassetto; ai piedi, lungo i bordi e sulle ante si vedono eleganti applicazioni in bronzo inciso.
Piccoli scaffali di questo tipo, noti in giapponese col termine kurodana, facevano nel periodo Edo usualmente parte del corredo delle spose, sia di nobili origini sia provenienti da ricche famiglie di mercanti. La sua funzione era quella di ospitare gli oggetti per la toilette della dama, soprattutto quegli utensili che servivano per la tintura dei denti, una moda molto in voga tra le donne dell’antico Giappone. Il kurodana era solo uno dei numerosi oggetti in legno laccato che costituivano il completo commissionato in occasione di un matrimonio: oltre ad altri mobiletti di maggiori dimensioni, come lo zushidana destinato alla cancelleria e lo shodana riservato a libri e rotoli dipinti, esso comprendeva diverse scatole, contenitori, astucci e simili, tutti accomunati dalla presenza dello stesso motivo decorativo e dei medesimi stemmi familiari.