L’asta Art of Japan organizzata da Sotheby’s Londra e in chiusura il 5 novembre 2024, inserita nell’ambito dell’annuale Asian Week, presenta nella sua parte iniziale un’infilata di alcune rare opere di tema Nanban.
Nanban, letteralmente “barbari del sud”, è il nomignolo dispregiativo che i giapponesi affibbiarono agli europei intorno alla metà del XVI secolo, periodo in cui i portoghesi sbarcarono per la prima volta nell’arcipelago asiatico.
Da allora questo termine non ha solo identificato quegli stranieri, ma anche tutti quei manufatti realizzati in Giappone che per un motivo o per un altro presentano caratteristiche formali e tecniche associate all’Europa, non importa che si trattasse di oggetti destinati a soddisfare il desiderio di esotismo dei nipponici oppure di pezzi realizzati esplicitamente per essere esportati nel Vecchio Continente dove erano considerati rarità degne di essere esposte nelle ‘Stanze dei Tesori’ delle maggiori corti principesche.
Sebbene offerti separatamente con una stima di 70.000-100.000 £ ognuno, i lotti 3 e 4 costituiscono in realtà una coppia, probabilmente concepiti in origine per stare insieme.
Si tratta di dipinti di tema Nanban disposti nel formato tradizionale del paravento pieghevole, in questo caso specifico a quattro ante (cm. 131,5 x 175,2 ognuno).
Nel corso della mia carriera di aspirante conoscitore di arte nipponica, con una particolare attenzione proprio alle reciproche influenze tra Giappone e Europa, ho avuto il grandissimo piacere di vedere dal vivo e di studiare una grandissima quantità di paraventi Nanban, tra le più esaltanti manifestazioni interculturali realizzate nella storia dell’umanità, e non esagero.
Tuttavia, mai prima di ora mi era capitato di imbattermi in due opere tanto particolari.
I due paraventi sono concepiti come se l’osservatore si trovasse all’interno di una stanza, con una grande finestra a grata aperta sul paesaggio. Uno studio evidentemente, poiché vi compaiono scaffali con libri, tra cui si dispongono oggetti da collezione. Porcellane evidentemente cinesi ma anche curiosità più esotiche come il grande reliquiario in argento che compare in uno dei dipinti, molto probabilmente di manifattura portoghese.
Lo scorcio di paesaggio che si apre oltre la grata – ulteriormente incorniciato da grandi nuvole stilizzate illuminate da foglia d’oro, artificio tipico della pittura giapponese – è una marina, nella quale compaiono caracche con a bordo personaggi europei, del tipo che immancabilmente è presente nei paraventi Nanban. Nel dipinto con il reliquiario la veduta è costruita chiaramente con l’ausilio della prospettiva occidentale, con le colline e le lingue di terra in lontananza che danno profondità spaziale alla scena.
Gli esperti di Sotheby’s mettono giustamente in rilievo la coesistenza in questi dipinti di due generi pittorici diversi. Da una parte la raffigurazione dell’arrivo delle navi portoghesi in Giappone, e dall’altra la rappresentazione grafica dello studio di un uomo di lettere, con i libri e gli oggetti rari. Quest’ultimo genere ha avuto origine e sviluppo in Corea a partire dalla fine del Settecento, noto con il termine di chaekgeori, letteralmente “libri e oggetti”.
Per questo motivo, i due paraventi sono considerati opera del XVII secolo per la presenza dei dettagli Nanban con aggiunte dell’Ottocento per l’introduzione della raffigurazione dello studio.
Tuttavia, qualcosa non mi torna e la mia opinione – pur avendo visto le due opere solo attraverso un’immagine e non dal vero – è che si tratti in realtà di una produzione per intero del XIX secolo. D’altronde, il tema Nanban continuò a ottenere un certo seguito anche nel periodo successivo all’espulsione di tutti gli europei (a eccezione degli olandesi confinati a Nagasaki) dall’arcipelago, operazione che si concluse definitivamente nel 1637 con l’eccidio di Shimabara, durante il quale l’esercito dello shōgun uccise migliaia di convertiti nipponici al Cristianesimo.
In ogni caso, questi due dipinti conservano intatto quel fascino che catturò William C. Phalmann, il collezionista di New York che nel 1972 acquistò le due opere presso un collezionista portoghese, passaggio che costituisce la più antica fonte disponibile per ricostruire la storia della loro provenienza.
Nessuna notizia sulla provenienza storica è riportata anche nella scheda che accompagna il lotto 5.
Si tratta di un raro paravento a sei ante (cm. 166 x 396) con la raffigurazione di un Mappamondo (Sekai-zu), finora inedito, che si aggiunge quindi ai ventidue esemplari analoghi conosciuti.
L’arrivo degli europei in Giappone alla metà del Cinquecento ebbe tra le molte conseguenze l’introduzione nell’arcipelago di più circostanziate conoscenze geografiche. In sintesi, gli orizzonti dei nipponici all’improvviso si ampliarono ben oltre quello che potevano immaginare, includendo terre e continenti mai prima di allora neanche immaginati. Va da sé che i ricchi signori volessero stigmatizzare questa novità commissionando opere che raffigurassero il mondo, tra cui paraventi spettacolari come quello qui descritto.
Tra le sue più pregnanti caratteristiche, si può notare la centralità che nella composizione assumono la Cina e dunque il Giappone. Questa novità si deve senz’altro a una straordinaria intuizione di Matteo Ricci (1552-1610), il gesuita italiano che nel 1600 realizzò per conto dell’imperatore Wanli un mappamondo che poneva la Cina in posizione centrale, dando quindi maggiore visibilità al Regno di Mezzo. Una versione a stampa di quest’opera fu prodotta già nel 1602, ed è più che probabile che a questa si ispirasse l’anonimo artista di questo paravento.
Tra le altre sue caratteristiche, l’assenza di ogni indicazione riguardante i due poli, la presenza di nuvole dorate e due fasce verticali ai due estremi dell’opera, strumenti di massima per il calcolo delle distanze.
Un dipinto di grandissima importanza, dunque, che giustifica la sua stima di £ 600.000-800.000.
L’oggetto al lotto 6 racconta un’altro aspetto delle prime relazioni tra Europa e Giappone. Si tratta un’edicola portatile (cm. 41 x 32,5 x 4,5) costituita da una teca in legno laccato e dorato con inserti di madreperla, al cui interno è custodita un’immagine di San Francesco Saverio (1506-1552), in preghiera in una grotta con lo sguardo rivolo verso un Sacro Cuore. Proprio il gesuita spagnolo fu protagonista assoluto dell’iniziale diffusione del Cristianesimo nell’arcipelago asiatico, dove visse per un paio di anni a partire dal 1549. Nel breve arco di pochi decenni il Giappone divenne il paese più cristiano dell’Asia, con un grande numero di convertiti. Furono edificate chiese e fortissima era la richiesta di icone per il culto. I missionari ben presto si rivolsero agli artisti locali perché ne producessero a sufficienza, e a questo proposito vitale fu l’intervento del pittore italiano Giovanni Niccolò (1563-1626) il quale, giunto a Nagasaki nel 1583, fondò una scuola di pittura in cui insegnava agli artisti locali le tecniche della pittura a olio.
Spesso, come in questo esemplare, l’icona era racchiusa in una teca laccata e decorata in uno stile ideato per compiacere esplicitamente il gusto degli stranieri.
Pochissimi manufatti di questo genere sono sopravvissuti, e tra questi ancora meno sono quelli che custodiscono dipinti coevi alle teche, ovvero realizzati tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento. E infatti, il dipinto con San Francesco Saverio in questo tempietto è attribuito dagli esperti di Sotheby’s a un anonimo artista iberico attivo nelle colonie nel XVII-XVIII secolo.
Nonostante ciò, questo dipinto resta un’importante testimonianza di un momento storico di grande interesse, tanto più che esso non sembra avere una storia collezionistica documentata, un inedito presentato ora per la prima volta ad appassionati e collezionisti (stima £ 70.000-100.000).
All’incirca contemporanea, ovvero databile al periodo Momoyama (1573-1615), durante il quale la produzione Nanban raggiunse il suo apice, la scatola al lotto 7 (cm. 9,2 x 25,5 x 15,7, stima £ 20.000-30.000) presenta un fondo di lacca con dorature e inserti di madreperla sul quale si dispongono carte da gioco europee, riprodotte nei minimi dettagli con vernici policrome. La scatola serviva per contenere lettere (fubako), ed era dunque destinata esplicitamente al mercato interno. Chi la acquistò, ne fu attratto soprattutto per quel tema esotico, poiché i giapponesi conobbero le carte da gioco solo dopo la metà del Cinquecento.
I lotti seguenti (8, 9 e 10), pur appartenendo per definizione all’ambito Nanban, esemplificano però una produzione giapponese che era rivolta già in origine al mercato dell’esportazione verso l’Europa.
Di grande fascino è la statuetta in porcellana al lotto 8 (alta cm. 38,5, stima £ 7.000-9.000). Raffigura una dama giapponese vestita di un ampio kimono decorato a smalti brillanti della tavolozza Kakiemon con motivi di foglie e fiori. La posa è elegante, e la cura dei dettagli notevole. Possiamo solo immaginare quale fosse l’effetto di manufatti di questo genere quando arrivavano verso la fine del Seicento in una delle corti europee dove, in genere, pochissimo ancora si sapeva sulla cultura e sui costumi di quel popolo tanto lontano quanto affascinante.
Di certo, già allora l’arcipelago asiatico era famoso per i suoi manufatti laccati, di qualità così alta anche rispetto alla coeva produzione cinese che gli europei denominarono japanning l’arte della laccatura, così come utilizzarono il termine china come sinonimo di porcellana.
Dopo l’espulsione di tutti gli europei, il governo Tokugawa consentì ai soli olandesi protestanti di svolgere traffici commerciali. La delegazione della Compagnia delle Indie Orientali Olandese (VOC) era relegata a Deshima, un’isoletta artificiale nel golfo di Nagasaki. Proprio grazie agli olandesi manufatti nipponici poterono essere importati in Europa ancora dalla metà del Seicento e fino ai primi decenni dell’Ottocento, prima che il paese si aprisse definitivamente al resto del mondo.
Tra le tipologie di manufatti in lacca acquisite dagli olandesi, smerciate a Amsterdam verso le corti di tutta Europa, lo stipo era tra le più ambite. Per forma e funzione esso aveva caratteristiche chiaramente occidentali, mentre la decorazione, spesso molto fine per qualità, consisteva di temi esotici. Nell’esemplare offerto da Sotheby’s (lotto 9, cm. 69,5 x 91 x 51, stima £ 20.000-30.000) quest’ultima consiste in un grande medaglione sul davanti in cui compaiono bambini colti nel gioco.
Diversamente dalle lacche da esportazione del periodo Momoyama, in questi manufatti più tardi la madreperla è esclusa e, ai motivi decorativi prevalentemente geometrici e floreali, si predilige invece un ornato più pittorico, con scene organizzate senza soluzione di continuità.
Un tipo di decoro che si può ammirare in tutta la sua raffinatezza della brocca e nel vassoio che costituiscono il lotto 10 (cm. 52,7 il diametro del vassoio, stima £ 300.000-400.000), sui quali si svolgono paesaggi fluviali con rocce, alberi e padiglioni, veduta che nel piatto è incorniciata da un esuberante motivo fitomorfo di gusto evidentemente barocco.
Ho avuto il privilegio di tenere tra le mie mani un esemplare in tutto analogo a questo, conservato a Palazzo Pitti, Firenze, che nel passato ho più volte pubblicato (gli esperti di Sotheby’s non lo ricordano), appartenuto con molte probabilità ai Medici che, com’è noto, governarono il Granducato di Toscana fino al 1737.
Per chiudere, una brevissima riflessione sull’attuale mercato dell’arte.
Nonostante quest’asta presenti molti capolavori, oltre a quelli finora discussi, Sotheby’s ha deciso di svolgerla solo in modalità online, ovvero con offerte presentabili solo via internet.
Che peccato.
Certe volte partecipare dal vivo ad un’asta può suscitare emozioni che nessun computer potrà mai anche lontanamente eguagliare.
Questo però è il presente, e molto probabilmente il futuro.
Lo trovo molto triste…