Nihonga (日本画) è un termine giapponese formato da tre caratteri, che significa letteralmente “pittura giapponese”. Fu coniato nel periodo Meiji (1868-1912) dagli stessi artisti e critici d’arte nipponici che vollero così mettere in evidenza caratteristiche tecniche e stilistiche di certa pittura contemporanea che aveva però fondamento nell’arte tradizionale. Inoltre, il termine Nihonga servì a distinguere questa pittura di stile giapponese da quella che – allora molto apprezzata dagli artisti del Paese del Sol Levante – mostrava forti influenze da parte dell’arte occidentale. La pittura Yōga (洋画), letteralmente “pittura [di stile] occidentale”, era un fenomeno praticamente inedito nell’ambito della cultura nipponica, frutto dell’impatto che ebbe l’improvvisa apertura avvenuta poco dopo la metà dell’Ottocento del Giappone alle nazioni straniere, europee e statunitense in particolare.
E’ pur vero che, già nel corso del periodo Edo (1615-1868), alcuni artisti giapponesi avevano sperimentato un tipo di pittura per certi versi ispirata allo stile e alle tecniche dell’Occidente: sfidando le autorità centrali che avevano proibito già dall’inizio del XVII secolo ogni tipo di contatto con gli stranieri, questi ‘pionieri’ – tra i quali si ricordano Shiba Kōkan (司馬江漢, 1747-1818) e Katshika Hokusai (葛飾北斎, 1760-1849) – riuscirono a rifornirsi di testi illustrati e informazioni di prima mano dagli olandesi che risiedevano nell’isoletta di Deshima nel golfo di Nagasaki, unici europei ai quali era consentito svolgere una certa mole di traffici sotto stretto controllo governativo. Tuttavia, fu con la Restaurazione Meiji che i pittori giapponesi ebbero il primo vero confronto con l’arte del resto del mondo: ne scaturì una profondissima riflessione pratica e teorica che ebbe come consenguenza un totale rinnovamento nelle arti nipponiche (così come, in verità, in tutti gli ambiti della cultura dell’arcipelago estremo-orientale), il quale si potrebbe sintetizzare proprio con l’originarsi delle correnti Nihonga e Yōga.
E’ bene precisare che i confini tra ‘pittura in stile giapponese’ e ‘pittura in stile occidentale’ non furono così ben definiti come si potrebbe supporre. Molti tra gli artisti attivi in quell’epoca di radicali cambiamenti miscelarono tradizione e novità con la creazione di opere che riesce difficile inserire nell’una o nell’altra categoria. Si guardi ad esempio alle opere di Kanō Hōgai (狩野芳崖, 1828-1888) e di Hashimoto Gahō (橋本雅邦, 1835-1908), i più promettenti eredi della gloriosa e longeva Scuola Kanō (狩野派), per capire quanto lo stile e le tecniche della pittura occidentale abbiano contribuito alla modernizzazione della loro arte in stile tradizionale. D’altronde, la commistione degli stili è una caratteristica da sempre ricorrente nell’arte giapponese a dispetto di ogni tentativo di categorizzazione. Già in epoca Heian (794-1185), se non prima, si venne a creare una dualità tra Yamato-e (大和絵, pittura di stile giapponese) e Kara-e(唐絵 , pittura di stile cinese), che però poco fu effettiva: proprio il fondatore della Scuola Kanō, Masanobu (正信, 1434–1530), contribuì in maniera essenziale a che lo stile giapponese si mescolasse con quello di origine cinese, e tutto ciò è ben visibile nelle opere degli artisti che gli successero nella scuola, nelle quali stile giapponese e stile cinese si mescolano fino a diventare una cosa del tutto nuova, inconfondibile.
Il discorso è piuttosto complesso, in verità, coinvolgendo aspetti sociali e culturali che vanno ben al di là dei meri aspetti artistici, ma diventa molto semplice se si ammirano le opere pittoriche che furono realizzate in quel periodo cruciale della storia giapponese. Tralasciando quegli artisti che più radicalmente si affiliarono alla pittura occidentale, come Asai Chu (浅井 忠, 1856-1907) che fu il più dotato allievo di Antonio Fontanesi (1818-1882) durante il periodo in cui questi fu insegnante di pittura presso la Kobu Bijutsu Gakko, i quali dipinsero quadri a olio su tela oppure stamparono incisioni su rame, i pittori Nihonga svilupparono temi tradizionali come i ‘fiori e gli uccelli’ (花鳥画, kachō-ga) oppure il paesaggio (山水画, sansui-ga) trattandoli però con modi innovativi. Pur rimanendo infatti i supporti in carta o in seta, l’uso dei nuovi colori elaborati grazie alle ricette del chimico tedesco Gottfried Wagner (1831-1892), l’utilizzo più diffuso e consapevole di tecniche quali il chiaroscuro e il tratteggio, furono certamente elementi di rinnovamento. Rimaneva invece la scelta di scorci e tagli compositivi di puro gusto giapponese, caratteristiche stilistiche che – in quella fine dell’Ottocento – alimentarono in Europa e negli Stati Uniti la passione per il Giappone, ponendo le basi per quel fenomeno noto a tutti col nome di Giapponismo.
La pittura Nihonga dei periodi Meiji, Taishō (1912-1926) e dei due primi decenni Shōwa (1926-1989) è stata il tema di una grande mostra che si è tenuta a Roma presso la Galleria nazionale d’arte moderna dal 26 aprile al 5 maggio di questo 2013, intitolata Arte in Giappone. 1868-1945. Curata da Ozaki Masaaki, direttore del National Museum of Modern Art di Kyoto, e da Matsubara Ryuichi, curatore nello stesso museo giapponese, è stata organizzata con lo scopo principale di festeggiare i cinquant’anni dalla fondazione dell’Istituto Giapponese di Cultura di Roma. Con l’occasione sono perciò arrivati da numerose istituzioni museali nipponiche ben centosettanta opere esposte, secondo l’abituale uso giapponese, in due distinte turnazioni (26 febbraio – 1° aprile; 4 aprile – 5 maggio) per prevenire il deperimento di materiali fragili quali soprattutto la carta, la seta e le lacche.
In realtà il titolo scelto per la mostra è quindi fuorviante poiché essa non offriva uno sguardo obbiettivo e ampio sull’intera produzione artistica giapponese di quell’arco cronologico, poiché le opere selezionate riflettevano soltanto l’evoluzione dell’arte in stile giapponese, tralasciando completamente tutto il resto. Forse si sarebbe solo potuto specificare nel titolo il reale tema per non incorrere nell’ambiguità. Ma poco importa, poiché la qualità delle opere era tale che la visista avrebbe senz’altro soddisfatto anche i più esigenti tra gli amatori di arte giapponese, e non solo. La pittura, naturalmente, la faceva da padrona, con dipinti di alcuni tra i più importanti protagonisti di questa fondamentale corrente artistica giapponese tra Otto e Novecento. Da Kawanabe Kyōsai (河鍋暁斎, 1831-1889) a Kawabata Gyokushō (川端玉章, 1842-1913) ai già citati Kanō Hōgai e Hashimoto Gahō, da Hishida Shunshō (菱田春草, 1874-1911) a Takeuchi Seihō (竹内 栖鳳, 1864-1942), dall’eccentrico Tomioka Tessai (富岡鉄斎, 1837-1924) a Kobayashi Kokei (小林古径, 1883-1957), dal surreale Ushida Keison (牛田雞村, 1890-1976) al più tradizionalista Matsuoka Eikyū (松岡映丘, 1881-1938), oltre ad un certo numero di ceramisti, laccatori, specialisti nella lavorazione dei metalli e dei tessuti che si inserirono nel recupero e rinnovamento delle arti tradizionali giapponesi echeggiando il lavoro dei pittori.
Il catalogo, edito da Electa, oltre al completo repertorio fotografico, presenta saggi dei citati curatori giapponesi, un’appendice con alcuni approfondimenti e le biografie degli artisti rappresentati in mostra. Il saggio più corposo e circostanziato è però senz’altro quello di Stefania Frezzotti (Stile giapponese. L’arte giapponese a Roma nel 1911 e nel 1930 fra incomprensioni e affinità elettive), curatrice della Galleria nazionale d’arte moderna, la quale ripercorre due momenti salienti dei rapporti culturali tra Italia e Giappone, ovvero le due mostre che si tennero nella capitale prima della Seconda Guerra Mondiale. Commissario della mostra e referente italiana per l’organizzazione dell’evento, Stefania (io ho con lei una certa confidenza per chiamarla col suo nome di battesimo e darle del tu, per tutti gli altri rimanga la dott.ssa Frezzotti…) ha svolto brillantemente il suo compito di tramite tra la cultura italiana e quella giapponese, sviluppando un tema di grandissimo interesse, ovvero quali sensazioni abbiano scatenato nel pubblico italiano le opere dei Maestri nipponici nell’occasione di quelle due mostre ormai storicizzate, introducendo così elementi di giudizio anche per quei visitatori che nel 2013 hanno avuto la rara occasione di ammirare tanti capolavori di un importante momento storico della storia dell’arte giapponese.
In conclusione, non potrei non augurare Buon Compleanno all’Istituto Giapponese di Cultura in Roma, istituzione che svolge funzione di rappresentante in Italia della Japan Foundation: auguri, nonostante appena qualche settimana fa mi abbiano comunicato, per la seconda volta in quindici anni, che la mia richiesta di sovvenzione per un progetto di studio non sia stata accettata… Pazienza, non credo che ci riproverò con quest’ente, ma sono sicuro, anzi spero, che ci saranno altre occasioni di questo tipo per me: in sincerità, quindi, sono grato, estremamente grato, che la Japan Foundation organizzi questo genere di evento espositivo, poiché proprio queste occasioni permettono di meglio conoscere certi aspetti di una cultura tanto affascinante e per certi versi ancora misteriosa come quella giapponese!