L’Italia non è sicuramente uno dei paesi nel mondo dove l’arte estremo-orientale vada per la maggiore. Le motivazioni di questa deficienza possono essere tante e non è facile individuarle. Certamente l’Italia è un paese molto ricco di bellezze artistiche proprie, meta di un vero e proprio pellegrinaggio internazionale per visitarle; una sorta di museo diffuso, senza soluzioni di continuità tra paesaggio, urbanistica, monumenti, musei, collezionisti privati, antiquari e manifestazioni culturali di vario tipo. Personalmente, però, non credo che questo dato possa spiegare lo scarso interesse che suscita l’arte estremo-orientale negli italiani. Anche la Francia, la Germania e l’Inghilterra, ad esempio, sono paesi ricchissimi di cultura propria, eppure lì l’arte dell’Asia orientale è molto più apprezzata, per tradizione. Alcuni dei più importanti musei del mondo di arte orientale si trovano a Londra, Parigi o Berlino; vi si organizzano con cadenza periodica grandi mostre temporanee sull’arte dell’Asia, che suscitano sempre grande affluenza di pubblico, almeno tanto quanto le mostre di arte occidentale; per non parlare poi dell’attenzione generale per l’attività scientifica connessa con questo campo, tra finanziamenti per la ricerca, pubblicazioni, investimenti per l’acquisto di nuove opere d’arte e altro.

Piatto céladon a contorno polilobato, XIV secolo

Allora, in riferimento al nostro tema, ovvero perché l’Italia sia la ‘Cenerentola’ dell’interesse per l’arte orientale, la risposta deve cercarsi altrove. Sicuramente, al contrario di alcuni dei paesi sopra citati, l’Italia non ha mai avuto una storia di rapporti commerciali diretti con i paesi asiatici (forse solo al tempo di Marco Polo, ma che fatica!); se si eccettuano i missionari e gli avventurieri che raggiunsero questi luoghi remoti per iniziativa personale, gli italiani mai hanno gestito traffici con l’Estremo Oriente. Ciò non toglie, tuttavia, che in passato molti beni da lì provenienti arrivassero nella Penisola, ma sempre attraverso la mediazione di una delle tante Compagnie delle Indie Orientali che erano attive in Europa. Questo accadde anche sul finire dell’Ottocento, periodo in cui i contatti tra Oriente e Occidente, compresi questa volta anche gli Stati Uniti d’America, si intensificarono esponenzialmente. Fu a quest’epoca che si formarono i maggiori musei di arte estremo-orientale nel mondo, grazie soprattutto all’opera di singoli personaggi; anche i più importanti musei di questo tipo in Italia – il Chiossone di Genova, lo Stibbert di Firenze, il Museo di Arte Orientale di Venezia, oppure la collezione del Duca di Martina a Napoli, solo per citarne alcuni – nacquero in questo stesso periodo. Eppure, anche questo non è bastato perchè nel Novecento il pubblico italiano mostrasse maggiore interesse per queste culture lontane. Solo negli ultimissimi anni, complice l’organizzazione di alcune mostre di rilievo e, soprattutto, la rinascita economica della Cina, sembra che questa tendenza si inverta. Tuttavia, a mio parere si tratta un’inversione solo superficiale, non radicata com’è nel resto del mondo: basti pensare alla bassissima opinione di cui godono gli studi scientifici italiani sull’argomento, in parte per una certa arroganza degli addetti ai lavori all’estero, in parte per una mancata e adeguata promozione. Un discorso tanto complesso non può avviamente esaurirsi così rapidamente, e necessità di ulteriori riflessioni che in parte esulano però dal tema che mi proponevo di affrontare in questo articolo.

L’assenza in Italia di un grande interesse per l’arte estremo-orientale si riflette anche sul mercato antiquario e quindi sul collezionismo. Da una parte, solo raramente è possibile trovare tra antiquari e case d’aste manufatti cinesi e giapponesi di un certo pregio; dall’altra, solo pochi collezionisti si dedicano a comporre questo tipo di raccolta. Detto così sembrerebbe un rimando di responsabilità senza fine: in commercio non sono reperibili buoni oggetti e così i collezionisti si dedicano ad altro; non ci sono buoni acquirenti e così i canali del mercato non propongono merce adeguata. Naturalmente ci sono le eccezioni. A Milano, ad esempio, si concentrano alcuni discreti antiquari che trattano arte della Cina e del Giappone; così come, anche in Italia, esistono collezionisti di un certo livello, alcuni dei quali noti (mi vengono in mente le armature di Luigi Koelliker), altri del tutto sconosciuti, se non ad un ristrettissimo gruppo di specialisti.

Bacile in porcellana, regno dell'imperatore Kangxi (1662-1722)

Anche nell’ambito delle case d’aste italiane, di tanto in tanto, vengono proposti al pubblico nuclei di manufatti cinesi e giapponesi di un certo livello. Non si tratta in realtà di eventi di richiamo internazionale (la qualità degli oggetti è discreta ma non certo eccelsa): tuttavia, per gli appassionati di arte asiatica costituiscono una sorta di ‘boccata d’aria’, per una volta da gustare senza valicare i confini nazionali.

La Casa d’Aste Pandolfini di Firenze ha preso recentemente l’abitudine di proporre al pubblico aste monotematiche di arte arte orientale. L’ultimo appuntamento del genere si data al 27 ottobre 2009. Dopo aver dato uno sguardo al catalogo, sorpreso dalla presenza di alcuni oggetti di una certa qualità, ho visitato prima l’esposizione, quindi ho partecipato con curiosità all’asta vera e propria. Si trattava prevalentemente di porcellane cinesi, alle quali si aggiungevano giade, snuff bottles, avori ancora cinesi, e un gruppo di lacche giapponesi, per un totale di 164 lotti. La sala era piena, i telefoni costantemente occupati e gli acquirenti agguerriti, gran parte dei quali italiani, anche se non mancavano alcuni stranieri.

Tra i pezzi che più mi hanno incuriosito, c’era senz’altro un piatto céladon a contorno polilobato del XIV secolo, con decorazione floreale a leggero rilievo sotto coperta (lot 55). Più del piatto in sè stesso, bello sì ma non straordinario, era per me interessante l’iscrizione in persiano sulla base, dalla quale si desume che il piatto era nel 1760 nella collezione di un principe indiano, giunto in Europa dopo il 1858, anno in cui l’esercito inglese saccheggiò la città di Lucknow, capitale del regno indiano di Oudh; la vicenda è riassunta su un’etichetta incollata ancora sotto la base, recante un’iscrizione in inglese, con scrittura dell’Ottocento. Con base di 700/800 Euro, il piatto è stato poi aggiudicato a 3500.

A 7000 Euro, dopo un’aspra contesa, è stato venduto il bacile in porcellana turchese con decorazione di drago incisa sotto vetrina, con marca dell’imperatore Kangxi (1662-1722) (lot 70). L’oggetto era senz’altro interessante, esemplare di una rara e molto apprezzata dai collezionisti tipologia di invetriatura, prodotta in un’epoca di grandi sperimentazioni nelle fornaci imperiali di Jingdezhen.

Porcellane 'bianco e blu' del Vung Tao Cargo, fine XVII secolo

I lotti 71-75, comprendenti piattini, tazzine e ciotole decorati in ‘bianco e blu’, offrivano pezzi provenienti dal recupero della nave Geldermaisen, ammiraglia della Compagnia delle Indie Orientali olandese (VOC) affondata il 3 gennaio 1752 nei mari del Sud-Est asiatico durante il viaggio di ritorno da Canton verso Amsterdam. Carica di merci di ogni tipo, fu recuperata nel 1985 dall’esploratore inglese Michael Hatcher; le porcellane ritrovate furono battute a Amsterdam presso Christie’s nel 1986, acquistate da musei e collezionisti di tutto il mondo. Gli oggetti di quello che da tutti è noto con l’appellativo di “Nanking Cargo” presentano una qualità abbastanza corrente: la loro importanza è tuttavia cruciale per la storia della porcellana cinese da esportazione, in quanto costituiscono un termine imprescindibile per la datazione di analoghi manufatti privi di un tale pedigree.

Stessa importanza va attribuita anche alle porcellane ritrovate nel 1991 sui fondali marini al largo delle coste del Vietnam meridionale, nell’ambito del recupero di quell’imbarcazione cinese conosciuta con l’appellativo di “Vung Tao Cargo”. La nave, carica di oltre 40000 porcellane cinesi da trasportare in Indonesia per poi essere trasferite in Europa dalla VOC, affondò sul finire del XVII secolo. Nel 1992 il tesoro ritrovato fu battuto ancora da Christie’s Amsterdam, realizzando la cifra iperbolica di 7 milioni di dollari. Pandolfini offriva un nucleo interessante di porcellane di questo ritrovamento (lots 76-81), decorate in ‘bianco e blu’ sotto coperta, tutte ovviamente databili alla fine del XVII secolo, ancora durante il regno dell’imperatore Kangxi.

Mentre le giade riscuotevano tutte un generale apprezzamento, soprattutto il piatto polilobato in nefrite verde scuro con sovradecorazioni intarsiate in oro (lot 101), tra gli oggetti che più hanno realizzato va sicuramente ricordata la bella snuff bottle del periodo dell’imperatore Qianlong (1736-1795), decorata a smalti policromi con una figura di dama occidentale da un lato e un bambino europeo dall’altro: è stata acquistata per la bella cifra di 5000 Euro.

Lacche giapponesi

In ultimo, grande attenzione hanno attratto le lacche giapponesi (lots 144-159), oggetti di non facile reperibilità anche sul mercato internazionale. In effetti alcune di loro si caratterizzavano per una discreta qualità. Si trattava di scatoline di piccole dimensioni, finemente decorate a oro e altri pigmenti con la tecnica del maki-e, ovvero la “pittura spruzzata”. Nel catalogo gli oggetti erano tutti invariabilmente datati all’inizio del XX secolo. Gran parte di questi preziosi ninnoli sono stati acquisiti da un’elegante signora, che mi è sembrata francese, la quale ha sbaragliato tutta la concorrenza offrendo automaticamente prezzi superiori a quelli che venivano proposti dagli altri acquirenti. Evidentemente, la signora, forse un antiquario, sapeva bene a chi rivendere la preziosa merce, sicura che questo tipo di manufatto, raro e raffinatissimo, dalle sue parti riscuote da sempre un grandissimo interesse.

In conclusione, come sempre frequentare le aste è il mezzo migliore per ‘testare il polso’ del mercato. A giudicare dal calore con il quale i partecipanti hanno seguito l’asta proposta da Pandolfini, sembrerebbe che l’arte cinese e giapponese abbia un certo seguito anche in Italia. Speriamo che in futuro si abbiano altre occasioni di assistere ad eventi simili, così che man mano la favola dell’Italia ‘Cenerentola’ dell’interesse per l’arte asiatica possa trasformarsi in reale passione intellettuale, magari condivisa tra collezionisti e pubblico.